Secondo la vulgata corrente, Paolo Virzì (Livorno, 4 marzo 1964) è il solo erede della commedia all'italiana. Diversamente da Carlo Verdone, altro pretendente al titolo legato però alla dimensione del comico e della maschera, Virzì parte dai medesimi presupposti dei maestri degli anni 60, di uno dei quali, Furio Scarpelli, è oltretutto allievo. Osservazione della realtà sociale, enfatizzazione di tipologie umane, elaborazione narrativa attraverso un registro brillante. Come i grandi modelli, a partire da Mario Monicelli, non disdegna spunti gravi trattati però con toni sdrammatizzanti, non solo evocati da sceneggiature azzeccate, di solito firmate in coppia con Francesco Bruni (di fatto un co-autore), ma da un ritmo di messa in scena travolgente. L'utilizzo della voce fuori campo, per esempio in Ovosodo (1997), premiato alla Mostra di Venezia con il Gran premio della giuria, o un certo gusto per l'affresco corale con più personaggi a interagire seguendo passaggi frenetici, rendono il cinema di Virzì particolarmente empatico. La vita di provincia, il richiamo della grande città (Roma in primis), il lavoro e ovviamente le dinamiche di coppia sono le tematiche privilegiate. In alcuni casi si propende per un legame diretto con la stagione storica della commedia. Ad esempio il primo film da regista del nostro, La bella vita (1994), nel raccontare la parabola di uno sfortunato operaio dell'Ilva di Piombino (Claudio Bigagli) tradito dalla moglie Sabrina Ferilli con il fanfarone di turno (Massimo Ghini) rimanda a Romanzo popolare di Mario Monicelli. A essere originali sono l'attenzione al mutamento sociale, con in evidenza i problemi della dismissione postindustriale della "Repubblica fondata sul lavoro" (l'operaio è in cassa integrazione) e la nascita di nuovi miti di distrazione di massa come la Tv commerciale (Ghini, alias Gerry Fumo, è un presentatore). Nel tocco dell'autore si riconosce soprattutto nelle prove successive il desiderio di restare incollato ad argomenti urgenti e attuali, spesso legati proprio alla dimensione del lavoro e al conseguente precariato, anche dei sentimenti. Nel 2008, con Tutta la vita davanti, Virzì è il primo a scegliere il call center come epicentro narrativo ed esistenziale di una storia. Nel sottovalutato Baci e abbracci (1999) è invece un ristoratore sul lastrico a finire al centro di un equivoco che ricorda Anni ruggenti di Luigi Zampa. Nel nuovo film Tutti i santi giorni il protagonista dalla sbalorditiva cultura classica (Luca Marinelli) sbarca il lunario facendo il portiere di notte e per questo incontra la compagna (Thony), con la quale cerca tenacemente di avere un bambino, solo a colazione, quando lui rientra e lei si sveglia. Un precariato sentimentale che si somma a quello di chi è senza un baricentro e cerca con ottimismo e perseveranza di conquistarselo (la giovane protagonista di Caterina va in città, 2003) oppure si è ormai rassegnato ad averlo perso per sempre (il Mastandrea di La prima cosa bella, 2010). Lo sguardo, quindi, è moderno e sa elaborare i valori della più nobile commedia italiana. Purtroppo, a volte, ne fa propri anche difetti quali l'indulgenza, il buonismo, un certo schematismo demagogico (molto evidente in Ferie d'agosto, 1996, dove tribù di destra e sinistra parimenti omologate si fronteggiano). Quel minimo di cattiveria che sarebbe utile per chiudere con una salutare graffiata i suoi racconti si lascia sempre desiderare, mentre si preferiscono epiloghi idilliaci e paradossali rispetto alla realtà (sintomatico il finale consolatorio di Tutta la vita davanti). Anche i personaggi più meschini, come la zia/cognata di La prima cosa bella, devono per forza essere "salvati" in zona cesarini, come a soddisfare un'esigenza di bontà piuttosto malintesa.