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![]() "Placido, giusto il tempo che finiate le riunioni e quelli vengono a sapere tutto!"
dal film Placido Rizzotto (2000)
Gioia Spaziani Lia
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Iscritta e diplomata presso la Scuola Nazionale di Cinema, nel 1998, è una delle interpreti dei cortometraggi Stesso posto, stessa ora (1999) di Werther Germondari e Fabio Rosi con Chiara Conti e Ignazio Oliva e Provino d'ammissione (1999) di Paolo Virzì. Nel suo curriculum anche cabaret, teatro di strada, spettacoli per bambini che le hanno permesso di prepararsi a spettacoli teatrali più ampi e impegnati come "Il seno in affitto", "L'Histoire de Soldat", "Happening Lirico-Musicale", "La dodicesima notte" e "Sogno di una notte di mezza estate".
Il debutto all'insegna della mafia
Il debutto cinematografico avviene nel 2000, quando Pasquale Scimeca la sceglie per il ruolo della fidanzata del sindacalista rapito e ucciso dalla mafia Placido Rizzotto. È senza ombra di dubbio il ruolo migliore di tutto la sua carriera. Ma la Spaziani diventa nota al grande pubblico quando entra a far parte del cast della soap opera italiana Un posto al sole (2000-2005), nel ruolo di Giò Paulmbo. Il pubblico si abitua al suo volto e nel 2001 la vede coo-protagonista di un film tv Come l'America. Notata da Ettore Scola, recita accanto a Gérard Depardieu in Concorrenza Sleale (2001), dove veste il ruolo di una ragazza ebra in una Roma fascista, ma continuerà comunque ad apparire nel piccolo schermo con la fiction Nassiryia - Per non dimenticare (2007) e la miniserie Il capo dei capi (2007) in cui interpreta il ruolo di Ninetta Bagarella, moglie del boss Totò Riina.
Un corto, un film, una serie tv per Beppe Fiorello. La sfida di un esordio come produttore cinematografico, e quella di raccontare – per il grande pubblico televisivo – il dramma dei padri separati. Infine, il ritorno al cinema, con il film di Emanuele Crialese Terraferma.
Fiorello, iniziamo dal tuo esordio come produttore. Il corto Domani, due minuti su uno dei principi della Costituzione italiana. Come è nato tutto?
In modo molto semplice. Giovanni Bufalini, un regista che da tempo lavora con me, mi ha proposto l'idea. C'era un concorso, per il quale potevano partecipare corti di due minuti, ispirati a princìpi della Costituzione. Abbiamo scelto il più semplice: la bandiera italiana è composta di tre rettangoli di eguale dimensione, bianco, rosso e verde. E ci abbiamo composto sopra una storia, breve e – spero – poetica.
Perché fare il produttore?
Per affrancarmi dai soliti meccanismi burocratici, dalle lungaggini, dai voleri di quelli più grandi di te. Quando c'è una buona idea, vorrei poterla realizzare, senza dover dipendere dai voleri di altri. In questo primo tentativo mi ha aiutato moltissimo mio fratello, Rosario. Gli ho detto: 'Rosa', damme una mano'. E lui non si è tirato indietro. Ci ha messo i suoi consigli, il suo entusiasmo, la sua società di produzione.
Ma sono state le prove generali per un film "lungo", da produrre in proprio?
Beh, in qualche modo sì. Produrre un film corto significa affrontare le stesse difficoltà che incontri nel produrre un film vero e proprio: cercare i permessi per girare, tutta la burocrazia, gestire un budget, gestire una troupe, curare che tutto sia professionale. Tutta esperienza che spero ci sia utile per affrontare un lungometraggio. L'idea c'è, abbiamo iniziato a scrivere la settimana scorsa. Sarà una commedia sul tema della famiglia, da girare il prossimo autunno, o nella primavera 2012. E mi piacerebbe che fosse lo stesso regista del corto, Giovanni Bufalini, ad affrontare l'impegno.
E il cinema degli altri, il cinema italiano degli "autori", che rapporto ha con te?
Sono sincero. Io non ho fatto parte del cinema italiano degli ultimi anni, e non è stato per mia volontà. Anzi, ne ho sofferto. Perché il cinema italiano l'ho sempre seguito, e apprezzato, e amato. Avevo esordito con Marco Risi ne L'ultimo compleanno, insieme a Claudio Santamaria, e poi avevo proseguito con Carlo Verdone, un'esperienza straordinaria, in C'era un cinese in coma. Poi, più niente, praticamente. Ma non sono stato io a volerlo.
Adesso, però, un film importante c'è.
Sì: e sono stato molto felice che un regista come Emanuele Crialese, che ha talento da vendere, si sia ricordato di me. Mi ha dato un ruolo in Terraferma, e mi è sembrato in qualche modo di rinascere, al cinema. Abbiamo girato a Linosa, con un cast di attori e di non attori: con me c'erano Donatella Finocchiaro, Mimmo Cuticchio, Filippo Pucillo, ma anche pescatori veri.
Qual è il tuo ruolo in Terraferma?
Sono Nino, un pescatore che non crede più in quello che hanno fatto i suoi padri, la sua gente, per generazioni. E che vuole usare la barca di suo padre per portarci su i turisti. É il crollo di un mondo, la trasformazione di un'economia. Io spero che il film di Crialese sia un modo, per me, per riaffacciarmi ad un mondo, quello del cinema italiano, che mi ha messo un po' da parte, senza che io lo volessi.
In compenso, per anni la televisione ti ha dato un ruolo centrale. Lo rinneghi?
No, niente affatto! La televisione mi ha permesso di diventare, per tanti italiani, un narratore di storie. Mi ha permesso anche di raccontare cose che forse il cinema non ha avuto il coraggio di raccontare. Come quando abbiamo fatto La vita rubata, su un omicidio di mafia, una storia rimasta insabbiata per vent'anni. Io credo che in molti casi la televisione abbia avuto più coraggio del cinema, nell'affrontare la nostra storia.
E ora quale storia vorresti raccontare?
É un tema che ho in mente da tanti anni. E che riguarda milioni di italiani. Il dramma dei padri separati. In Italia sono quattro milioni, i padri separati. E quasi un milione di loro vive sotto la soglia della povertà. Non è una cosa da niente. Perché? Perché quando una coppia si separa, è sempre lui a dover abbandonare il tetto coniugale, e quindi a doversi cercare una casa, e pagare gli alimenti. E molti non sono in grado di affrontare questo impegno.
Stai per iniziare a girare una serie su questo tema?
Sì: iniziamo a girare l'11 aprile. É una miniserie per Raiuno, due puntate che andranno in onda probabilmente in autunno. La regia è di Lodovico Gasparini. E ci saranno Ana Caterina Morariu, Rodolfo Laganà, Angelo Orlando e Gioia Spaziani. Il titolo provvisorio è Sarò sempre tuo padre.
Che cosa racconterete, esattamente?
Per esempio, che cosa succede, quando una coppia si separa, a un padre cui non viene data la possibilità di vedere suo figlio, che viene buttato fuori di casa, che non sa più dove andare a mangiare e a dormire... Quando gli sceneggiatori mi hanno fatto leggere la storia, ho detto loro: ma non avete esagerato? Mi hanno consigliato di visitare alcuni siti di assistenza a padri separati. Ho conosciuto storie che mi hanno messo i brividi. Ho scoperto situazioni addirittura tragiche. Gente che non sa come mangiare, dove dormire, che si adatta a dormire sotto i ponti. E tutto questo, in un'Italia apparentemente 'normale'.
Non tutti i sorteggi portano buoni auspici. Soprattutto in un periodo di tensioni e paure come quello degli anni di piombo. Per Tonino, operaio alla Fiat Mirafiori nella Torino degli anni del terrorismo delle ideologie, essere sorteggiato come giurato di riserva nella giuria popolare del primo processo alle Brigate Rosse inizialmente è solo una buona scusa per abbandonare le fatiche del lavoro in fabbrica e concentrarsi sulle sue amate gare di tango. Le cose cambiano quando arriva a percepire il fermento del clima politico circostante e i rischi reali del ruolo che è chiamato ad adempiere di fronte allo Stato.
La storia de Il sorteggio, in onda lunedì in prima serata, nasce da Giovanni Fasanella, giornalista che ha vissuto in prima persona le paure della Torino di trentacinque anni fa, e dal fermo desiderio di creare un racconto da quelle vicissitudini che, nelle sue parole, rappresentano "un argomento che non appartiene alla storia ma ancora alla cronaca dell'Italia, un paese che soffre di una sindrome da stress post-traumatico". Dalla prima stesura, vincitrice di una menzione al premio Solinas, Fasanella non è mai riuscito a trovare i finanziamenti governativi necessari a realizzare un film, perché, come spiega, "c'era un certo imbarazzo a raccontare i rapporti fra i brigatisti e le fabbriche operaie", oltre a dare ad intendere alcune precise responsabilità da parte della politica e della cultura degli anni Settanta. Il progetto è così passato attraverso varie riscritture fino ad arrivare alla Rai e alla produzione televisiva, anche se, come ci tiene a precisare il regista Giacomo Campiotti, "si tratta di una produzione anomala, girata come un film tv e non come una miniserie, e che presenta una notevole complessità formale: un montaggio molto incalzante e una tensione data dall'uso della macchina a mano e dal continuo pedinamento del protagonista".
Questa atmosfera ansiogena è sottolineata dallo stesso protagonista Giuseppe Fiorello: "È molto importante che il regista abbia raccontato gli anni di piombo senza ricorrere a una sparatoria né versare una sola goccia di sangue. Giacomo ha scelto di raccontare la violenza come puro atto psicologico, così come di non condividere né il punto di vista dei giudici, né quello dei terroristi, ma quello dell'uomo comune, un operaio sereno e disinteressato alla politica che improvvisamente si deve confrontare con i doveri di stato". Oltre a collaborare personalmente alla sceneggiatura, Fiorello ha lavorato sul personaggio di Tonino "pensando a come avrei potuto reagire nella sua stessa situazione: con un carabiniere che bussa alla porta e ti chiama a partecipare al più importante processo di quel periodo" e imparando a ballare il tango. Difatti, molto importante nella storia è il ruolo del ballo argentino, che se per l'attore Fiorello è stato anche un modo per affrontare le proprie vergogne ("Il tango è un ballo molto fisico e bisogna imparare molto a lasciarsi andare"), per la compagna di Tonino, Anna (Gioia Spaziani), diventa "la metafora della storia d'amore fra i due personaggi, un momento sospeso in cui emergono tutti i conflitti della coppia e la sensualità che le loro parole non riescono mai a esprimere".
Particolarmente importante ai fini della drammaturgia della vicenda parallela alla storia d'amore, quella che riguarda gli operai di Mirafiori e i rapporti con il terrorismo rosso, è, oltre al sindacalista Gino interpretato da Giorgio Faletti, anche il personaggio del giovane Salvatore: ricco figlio di un imprenditore torinese che per scelta ideologica decide di lavorare in fabbrica e pagarsi gli studi di giurisprudenza. Il suo interprete, Francesco Grifoni, chiude l'incontro di presentazione del film tv lasciando trapelare tutta l'importanza che ha avuto per lui questo personaggio, da lui descritto come "un ragazzo con le idee molto chiare sulle ideologie, ma con il forte contrasto interiore fra il desiderio per il libero arbitrio e il forte clima di tensione sociale di quegli anni".
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