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Benny Safdie

Benny Safdie (Benjamin Safdie) è un attore statunitense, regista, produttore, sceneggiatore, montatore, è nato il 24 febbraio 1986 a New York City, New York (USA). Oggi al cinema con il film The Smashing Machine distribuito in 10 sale cinematografiche.
Quest'anno ha ricevuto il premio come leone d'argento per la regia al Venezia per il film The Smashing Machine. Dal 2020 al 2025 Benny Safdie ha vinto 3 premi: Spirit Awards (2020), Venezia (2025). Benny Safdie ha oggi 39 anni ed è del segno zodiacale Pesci.

Una New York che respinge

A cura di Fabio Secchi Frau

Regista, sceneggiatore e montatore statunitense, Benny Safdie è diventato celebre assieme a suo fratello maggiore Josh Safdie per una serie di cortometraggi e lungometraggi che hanno interessato enormemente la critica americana e, in un secondo tempo, anche quella europea.
Nato e cresciuto a New York con un precoce interesse per il cinema, si è imposto principalmente come attore, venendo diretto da autori come Christopher Nolan, Paul Thomas Anderson e Kelly Fremon Craig. Parallelamente, ha sviluppato la sua carriera da regista, diventando anche un autore televisivo.
Vincitore di numerosi premi per le sue opere indipendenti e per i suoi documentari, si è imposto con uno stile carico di costante tensione visiva, fondato su una regia immersiva e nervosa, che privilegia il caos emotivo e la frammentazione percettiva.
Con un uso ipercinetico della camera a mano, una fotografia granulosa e un montaggio serrato che simula il flusso mentale dei personaggi, a differenza di suo fratello, tende a spingere più in profondità i suoi protagonisti nella dimensione psicologica e corporea del loro contesto vitale, accentuando il disordine interno attraverso scelte formali radicali.
Mentre Josh Safdie bilancia con una maggiore attenzione la struttura narrativa e la costruzione drammaturgica, il linguaggio audiovisivo di Benny Safdie è coerente nel suo rifiuto della linearità e nella predilezione per soggettività marginali, figure disfunzionali e ambienti urbani congestionati, dove la città (quasi sempre New York) diventa un luogo avverso e specchio di condizioni esistenziali.
Preferendo attori non professionisti, la sovrapposizione dei dialoghi, colonne sonore elettroniche come amplificatori emotivi, parla soprattutto di dipendenza, ossessione, fallimento, desiderio e identità, raccontando storie di individui in crisi che si muovono in un mondo che li respinge. Lo fa attraverso una messa in scena che privilegia il tempo interiore, la prossimità visiva e la densità esperienziale, costruendo un cinema che espone, interroga e che trasforma il vissuto estremo in linguaggio cinematografico pulsante, disturbante e profondamente umano.

Studi
Benny Safdie nasce a New York nel 1986, figlio di un gioielliere e di una casalinga, e cresce assieme a suo fratello maggiore Josh nel Queens. Dopo il divorzio dei suoi genitori, si trasferisce con la madre e il patrigno a Manhattan, dove si appassiona al cinema.
Diplomato alla Columbia Grammar & Preparatoy School, si iscrive poi alla Boston University, co-fondando il collettivo creativo Red Bucket Films con il fratello, Brett Jutkiewicz, Alex Kalman, Sam Lisenco e Zachary Treitz.

Primi lavori
Una volta laureato, dirige con il fratello i suoi primi cortometraggi (The Adventures of Slaters's Friend, The Ralph Handel Story, There's Nothing You Can Do, Why? (This Movie Exists)), cominciando poi a realizzare anche dei corti per conto proprio (The Story of Charles Riverbank, John's Lonely Trip to Coney Island), tra i quali spicca The Acquaintances of a Lonely John (2008), suo film di tesi universitaria, che si impone come opera embrionale già sorprendentemente compiuta, capace di rivelare la sua futura poetica attraverso una regia che fonde realismo urbano e sensibilità slapstick.
Trasformando un'esperienza quotidiana in racconto cinematografico malinconico e profondamente umano, girato con mezzi minimi, in 16mm e con luce naturale, Safdie segue la giornata di John, uomo solitario e vulnerabile che cerca connessioni nel suo quartiere, tra lavanderie e stazioni di servizio. Usando un'atmosfera evocativa che richiama figure come Charlie Chaplin, Jacques Tati e Buster Keaton, la traspone in un Queens notturno e fluorescente, dove l'assurdo e il tenero si intrecciano in una danza fragile e sincera. L'uso di attori non professionisti e di personaggi reali conferisce al film un'aura documentaristica che si fonde con una comicità fisica e un tono elegiaco, mentre la figura di John, un "everyloser" ottimista, diventa emblema di una solitudine contemporanea che cerca il contatto, anche goffamente, con il mondo. La piccola opera viene oggi apprezzata dalla critica come una riflessione sul gesto minimo, sull'incontro fortuito e sull'identità in transito, anticipando contenuti che condividerà con suo fratello maggiore, fondati sull'osservazione empatica, sull'energia del caos quotidiano e sulla capacità di trovare epifanie nel banale, in un cinema che cerca la vibrazione delle presenze.

I lavori con il fratello maggiore
Tornato dietro la cinepresa con il fratello, firmerà il disarmante lungometraggio Daddy Longlegs (Go get some rosemary) (2009), su una paternità imperfetta in una New York febbrile e quotidiana.
Il protagonista, Lenny, trentenne disilluso e divorziato, ritrova vitalità durante le due settimane annuali che trascorre con i suoi figli, trasformando quel tempo in una sorta di anarchica vacanza, dove il ruolo genitoriale si dissolve in una complicità giocosa e irresponsabile. Girato con mezzi ridotti, camera a mano instabile e riprese rubate, si colloca nel solco del cinema indipendente più radicale, seguendo un'energia disordinata alla John Cassavetes, un'astrazione urbana alla Jim Jarmusch e un pizzico di lirismo crudo del cinema iraniano Anni Novanta. Dedicato al padre eccentrico e ribelle dei registi, Daddy Longlegs è un omaggio dolente e affettuoso all'infanzia vissuta tra caos e meraviglia, e diventa, nel suo disordine affettivo, un atto di riscrittura autobiografica, senza alcuna necessità di offrire una morale, ma solo proponendo un'esperienza emotiva complessa, che mette lo spettatore di fronte a dilemmi etici e affettivi, come se fosse un esperimento pedagogico sotto l'occhio severo di un'autorità invisibile. Il risultato è un'opera tenera, capace di raccontare con sguardo originale l'insostenibile leggerezza del legame familiare.
Replicheranno l'esperienza in tandem con il corto John's Gone (2010), che ha conquistato la critica per aver tradotto il vuoto esistenziale in un'estetica ruvida. Raccontando la storia di John, un giovane smarrito e vulnerabile che, dopo la morte della madre, si ritrova a fronteggiare da solo la brutale indifferenza del mondo circostante, mescola l'immediatezza del documentario con la tensione performativa, seguendo il protagonista in un Queens desolato che si trasforma in un paesaggio mentale, riflettente una deriva emotiva. La regia adotta una grammatica scritta con camera a mano, una luce naturale e dei dialoghi sovrapposti, costruendo un flusso percettivo che restituisce la confusione e l'estraneità del protagonista. Si delinea qui il rifiuto totale per la narrazione con struttura tradizionale, preferendo abbracciare una logica episodica e sensoriale.
Quindi, ancora una volta una meditazione su un corpo errante, su un'identità precaria, al quale unire una mascolinità in crisi, sospesa tra invisibili desideri di contatto. Puro John Cassavetes, ancora una volta, ma miscelato con un primigenio Harmony Korine e da tanto Alan Clarke.
Firmeranno poi nel 2011 Straight Hustle, che si distingue per aver racchiuso in pochi minuti l'essenza del loro cinema congiunto: tensione urbana; poetica del margine; e spontaneità visiva. Elementi che si fondono in una micro-narrazione che anticiperà molte delle ossessioni tematiche e stilistiche che i due registi svilupperanno negli anni successivi. Realizzato in un'unica ripresa, con un audio sorprendentemente nitido nonostante il frastuono metropolitano, l'opera mette in scena un dialogo ambiguo tra una donna e un uomo che si presenta come suo padre, svelando progressivamente una truffa in corso. La scelta registica di mantenere una distanza visiva costante trasforma lo spettatore in testimone silenzioso, immerso in una New York congestionata e indifferente, che da semplice sfondo diventa protagonista silenzioso e opprimente. Premiato in alcuni festival underground per essere un ottimo esercizio di sottrazione, dove il tema del "hustling", centrale nella contenutistica dei Safdie, viene indagato come gesto performativo e come costruzione identitaria, Straight Hustle richiama il cinema verité e la grammatica emotiva cassavetesiana ancora una volta, ma rielaborando tutto con una sensibilità contemporanea che privilegia il frammento, l'improvvisazione e la porosità tra realtà e finzione.
Dopo il documentario Buttons (2011, realizzato con Alex Kalman), lavoreranno insieme anche nel breve The Black Balloon (2012), largamente apprezzato dalla critica per la sua capacità di affrontare con finezza, autenticità e intensità emotiva il tema della disabilità mentale all'interno del contesto familiare, evitando derive retoriche e sentimentalismi, e costruendo invece un racconto intimo e universale che esplora l'adolescenza, il disagio, l'affetto e il bisogno di accettazione. Il corto segue un giovane alle prese con la convivenza quotidiana con il fratello maggiore, affetto da autismo e da disturbo da deficit dell'attenzione. Lo fa attraverso una regia sobria, una fotografia calda e una scrittura che alterna con naturalezza momenti di tenerezza e tensione, riuscendo a rendere visibile ciò che spesso resta invisibile. Il peso emotivo e sociale grava su chi vive accanto alle fragilità. Una riflessione sulla costruzione dell'identità attraverso il confronto con l'alterità, dove il corpo del fratello diventa specchio, ostacolo e motore di trasformazione, e dove la nozione di normalità viene decostruita attraverso uno sguardo che privilegia la complessità del quotidiano. In questo senso, il film richiama Mike Leigh e Ken Loach per la sua attenzione alla dignità dei personaggi e alla verità delle relazioni, riuscendo a coniugare il dramma familiare con una tensione etica e sociale che invita lo spettatore alla comprensione profonda e priva di giudizio.
Dopo The Trophy Hunter (2012), nel 2013, lavorano al documentario Lenny Cooke, accolto con entusiasmo dalla critica per la sua capacità di trasformare una vicenda sportiva in una meditazione sul fallimento. Il film racconta la parabola di Lenny Cooke, giovane promessa del basket americano che, all'inizio degli anni Duemila, veniva considerato più talentuoso di futuri campioni come LeBron James, Amar'e Stoudemire e Carmelo Anthony, e sembrava destinato a un ingresso trionfale nell'NBA senza passare per il college. Tuttavia, nel decennio successivo, il suo sogno si dissolse. Lenny non giocò mai. Il suo destino brillante rimase incompiuto.
I Safdie costruiscono l'opera intrecciando materiali girati da Adam Shopkorn con nuove riprese, creando un montaggio stratificato che mette collega il passato e il presente, e fa del corpo di Lenny un archivio vivente di ciò che poteva essere e non è stato. Evitando ogni retorica sportiva e scegliendo un approccio contemplativo e lirico, dove la nostalgia ferisce, e dove il sogno americano viene smascherato nella sua dimensione illusoria, l'opera si configura anche come una critica alla cultura della prestazione e della visibilità, in cui il valore di una persona sembra dipendere esclusivamente dal successo raggiunto.
Si confermeranno autori capaci di trasformare il vissuto estremo in linguaggio cinematografico radicale, empatico e profondamente umano con Heaven Knows What (2014), un lungometraggio che ha conquistato la critica per intensità brutale e delicatezza visiva nella descrizione della condizione estrema di una giovane tossicodipendente nella New York dei senzatetto, fondendo dramma e realismo documentaristico in un racconto che segna una svolta definitiva nella poetica dei Safdie.
Tratto dal memoir inedito "Mad Love in New York City" di Arielle Holmes, che interpreta sé stessa con una presenza magnetica e vulnerabile, il film segue Harley, innamorata in modo ossessivo di Ilya, al punto da accettare di infliggersi una ferita come prova d'amore, mentre l'eroina diventa l'altra polarità di un desiderio autodistruttivo.
Presentato alla 71ª Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, il film si distingue per una regia che rifiuta ogni forma di redenzione o di estetizzazione del degrado, immergendosi nel caos emotivo e fisico dei personaggi attraverso una camera nervosa, una fotografia sporca e una immancabile colonna sonora elettronica. La narrazione continua ad abbandonare la linearità per abbracciare una logica esperienziale, dove la Grande Mela è ancora una volta un organismo ostile.
Nel 2017, arriva Good Time, che farà definitivamente scoprire i fratelli Safdie dalla critica e dal pubblico underground di tutto il mondo. Un viaggio allucinato e frenetico nel cuore al neon della New York notturna. Un racconto che mescola il noir urbano con il melodramma familiare, trascinato da una performance magnetica e sorprendentemente intensa di Robert Pattinson. Il film segue la corsa disperata di Connie Nikas, piccolo criminale dei Queens, che dopo una rapina fallita tenta di liberare il fratello minore Nick, interpretato dallo stesso Safdie, intraprendendo una notte di fughe, inganni e incontri surreali, dove ogni decisione peggiora la precedente e ogni svolta sembra condurre più a fondo nel caos. Volutamente sfilacciato, diventa un pretesto per esplorare un universo marginale popolato da personaggi eccentrici e situazioni al limite dell'assurdo, in un affresco che richiama il cinema di Martin Scorsese, Jonathan Demme e Walter Hill, ma filtrato attraverso una sensibilità contemporanea che privilegia l'urgenza emotiva e la disfunzione sociale.
I Safdie, con questo film, confermano una maturità stilistica sempre più solida, giocando con i codici del cinema di genere per costruire un'opera viscerale e spiazzante, di tetra umanità pura e dannata, colta con affetto, precisione e humour folgorante.
La critica esalta questo dramma metropolitano bislacco e potente ed è ben disposta nell'accoglienza del loro film successivo che non tradisce le aspettative. Nel 2019, arriva infatti Diamanti grezzi, il risultato di un lungo processo creativo che affonda le radici nel vissuto familiare dei registi e nella loro esperienza diretta con il Diamond District di Manhattan, luogo mitico e caotico che ha ispirato il cuore pulsante del film.
Originariamente concepito come seguito ideale di Daddy Longlegs, il progetto ha attraversato quasi un decennio di gestazione, interrotto e rielaborato attraverso tappe fondamentali, che hanno permesso ai Safdie di affinare il loro linguaggio visivo e narrativo.
Scritto insieme a Ronald Bronstein, si è evoluto in un'opera di rara intensità, capace di fondere tensione drammatica, stratificazione tematica e audacia stilistica in un'esperienza cinematografica ipnotica e abrasiva. Al centro della narrazione c'è Howard Ratner, gioielliere ebreo newyorkese interpretato da un Adam Sandler sorprendentemente intenso, la cui interpretazione convulsa e tragica ha ridefinito la sua carriera.

Il Leone d'Argento
Infine, dopo il corto Goldman v Silverman, i due si separeranno di nuovo e Benny Safdie otterrà il Leone d'Argento per il suo primo lungometraggio diretto in solitaria: The Smashing Machine.
Il film è un biopic che ha conquistato la critica per aver trasformato la traiettoria sportiva di Mark Kerr, leggendario lottatore di MMA, in un racconto intimo e lacerante sull'identità, la dipendenza e la vulnerabilità maschile. Il film è interpretato da un sorprendente Dwayne Johnson, qui lontano dai ruoli muscolari e trionfali che lo hanno reso celebre, e scava nel lato oscuro del successo, mostrando Kerr come atleta celebrato e uomo segnato da contraddizioni profonde, tra euforia agonistica e autodistruzione.
La regia di Safdie si fa più asciutta e penetrante, evita ogni trionfalismo e si concentra sulle crepe emotive, inserendosi nel solco di un cinema che smonta il mito dell'eroe.

I video musicali
Anche autore di video musicali, sempre assieme al fratello, firma i videoclip di Oneohtrix Point Never "The Pure and the Damned" e "Lost But Never Alone", ma anche "Marcy Me" di Jay-Z.

Il piccolo schermo
Come autore televisivo, Benny Safdie è la mente dietro l'atipico telefilm The Curse, firmato assieme a Nathan Fielder. Dieci episodi trasmessi tra il 2023 e il 2024, ampiamente apprezzati dalla critica per aver sovvertito le convenzioni della serialità contemporanea attraverso una commistione audace di commedia nera, horror psicologico e teatro dell'assurdo, costruendo un universo disturbante e grottesco che riflette le contraddizioni del presente. Ambientata nel New Mexico, la serie segue la coppia Whitney e Asher Siegel (Emma Stone e lo stesso Fielder) mentre cercano di realizzare un reality show filantropico, ma il loro progetto si rivela una maschera di narcisismo e ipocrisia.
Safdie adotta un ritmo volutamente dissonante, con sequenze che alternano ilarità e disagio e una narrazione che si sviluppa secondo logiche interne non convenzionali. Una critica feroce al liberalismo performativo, alla gentrificazione travestita da salvezza e alla costruzione identitaria mediata dai media, con echi lynchiani e una tensione che si nutre dell'ambiguità morale dei personaggi, rendendo la serie un'opera unica, corrosiva e profondamente inquietante.

Attore
Anche ottimo attore, Benny Safdie ha recitato in numerosi corti (Alberto Lives in a Bathroom, I Think I'm Missing Parts, If You See Something, Say Something), prima di debuttare nel lungometraggio di Mary Bronstein Yeast (2008).
Spesso diretto dal fratello e presente nei suoi stessi film, ha recitato in Pieces of a Woman (2020) di Kornél Mundruczó, interpretando Chris, il cognato della protagonista Martha (Vanessa Kirby), una figura secondaria ma significativa. Sarà poi davanti alla cinepresa di Paul Thomas Anderson in Licorice Pizza (2021), dove veste i panni di Joel Wachs, politico realmente esistito e candidato al consiglio comunale di Los Angeles. Agente della CIA per Claire Denis in Stars at Noon - Stelle a mezzogiorno (2022), appare anche in Ci sei Dio? Sono io, Margaret di Kelly Fremon Craig nel 2023, venendo poi diretto da Christopher Nolan in Oppenheimer, >, venendo fortemente apprezzato dalla critica per aver incarnato il fisico nucleare statunitense-ungherese Edward Teller con una presenza scenica ambigua, riuscendo a restituire la complessità di un personaggio storicamente controverso senza cadere nella caricatura. Per prepararsi al ruolo, Safdie ha studiato ungherese, trasportandolo poi in un forte accento nella sua parlata americana e ha usato una gestualità controllata. Ha poi partecipato alla pellicola comica Un tipo imprevedibile 2 (2025) dell'amico Adam Sandler.
Televisivamente, è apparso in alcuni episodi di Togetherness e Obi-Wan Kenobi, ma soprattutto è stato l'antagonista di Emma Stone e Nathan Fielder in The Curse, la serie che lui stesso aveva concepito.

L'Emmy come produttore
Benny Safdie ha vinto un Emmy per aver prodotto il documentario Pee-wee (2025), ma è stato pluricandidato anche per Telemarketers (2024) e Ren Faire (2025).

Vita privata
Benny Safdie è sposato con l'artista visiva e designer Ava Francis dal 2013. Insieme hanno due figli.

Prossimi film

Ultimi film

Biografico, Drammatico, Storico - (USA - 2023), 180 min.
Drammatico, Thriller - (USA - 2022), 135 min.
Commedia, Drammatico - (USA - 2021), 133 min.
Drammatico, (Canada - 2020), 128 min.

Focus

News

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