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Gus Van Sant: un autore tenero, abile, empatico, geniale

Con Don't Worry il regista torna a parlare di diversità, assuefazione e di quello straniamento esistenziale che, quando trova il suo sfogo creativo, può trasformarsi in arte sublime. Dal 29 agosto al cinema.
di Paola Casella

Gus Van Sant (Gus Greene Van Sant Junior) (71 anni) 24 luglio 1952, Louisville (Kentucky - USA) - Leone. Regista del film Don't Worry.
mercoledì 8 agosto 2018 - Celebrities

Se c'è un tratto distintivo nella filmografia di Gus Van Sant è la tenerezza con la quale accarezza i suoi personaggi. Potrebbe sembrare riduttivo raccontare un regista e sceneggiatore - oltre che pittore, scrittore, fotografo montatore e musicista - che ha lasciato il segno nel cinema americano, ha conquistato la Palma d'Oro per il Miglior Film e la Miglior Regia (Elephant) ed è stato due volte candidato all'Oscar (Will Hunting genio ribelle e Milk). Ma la sua innegabile abilità dietro la cinepresa, la sua capacità di sperimentare con il linguaggio cinematografico e la destrezza con cui costruisce sceneggiature solo apparentemente impalpabili impallidiscono di fronte all'empatia viscerale per chiunque si trovi ai margini della società o della propria esistenza.

Fin dal suo film di esordio - quel Mala Noche che narrava l'attrazione del giovane protagonista per un ragazzo ancora più giovane - Van Sant ha messo al centro delle sue storie personaggi omosessuali senza caratterizzarli come vittime non della discriminazione sociale ma di un rifiuto di natura romantica.
Paola Casella

Un rifiuto che Van Sant, gay dichiarato fin dall'adolescenza, ha occasionalmente subito ma ha saputo trasformare in tensione narrativa all'interno di una cinematografia che ha visto allinearsi uno dietro l'altro il laconico Drugstore Cowboy, il pasoliniano Belli e dannati e il lisergico Cowgirl - Il nuovo sesso, tutti interpretati da giovani tossicomani e prostitute, autostoppiste e travestiti, ognuno dei quali raccontato con assenza di giudizio morale.


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In foto una scena del film Don't Worry.
In foto una scena del film Don't Worry.
In foto una scena del film Don't Worry.

Gus Van Sant, classe 1952, ha aperto la strada a una generazione di registi che hanno messo al centro una sessualità trasgressiva come denuncia della "normalità": da Gregg Araki a Larry Clarke (più anziano per età ma più lento a debuttare nel cinema), da Todd Haynes a Todd Solondz, fino ad Harmony Korine o Richard Kelly. Il suo interesse per gli outsider, l'esigenza dei suoi personaggi di essere accettati per ciò che sono, e non per come la società li vorrebbe, sono stati recepiti dai cineasti che l'hanno seguito (e imitato). A Gus sta a cuore l'alienazione profonda dei giovanissimi, armati di fucile o nascosti dentro il cappuccio di una felpa, il dolore segreto degli esclusi, la solitudine dei non allineati.

Anche la carriera di Van Sant non è sempre stata lineare. A un gioiellino satirico come Da morire è seguito il discutibile remake di Psycho, per un geniale Paranoid Park c'è un controverso Last Days, che ha raccontato - secondo noi magistralmente - gli ultimi momenti di vita di Kurt Cobain ma ha scontentato molti fan dei Nirvana.
Paola Casella

E allo sfrontatissimo Milk, che è valso a Sean Penn un meritato Oscar (e ha consentito a James Franco di mettere a segno una delle sue interpretazioni più godibili) è seguito il delicatissimo e poeticamente ermetico L'amore che resta. Un'altra costante attraversa il cinema di Gus Van Sant: la presenza dei fratelli Phoenix, gruppo di famiglia talentuoso e scombinato, pervaso dalla stessa attrazione irresistibile per la marginalità e dalla stessa inclinazione alla tenerezza. River era coprotagonista di Belli e dannati, la sorella Rain di Cowgirl - Il nuovo sesso, il fratello Joaquin aveva un ruolo importante in Da morire e ora è il protagonista assoluto di Don't Worry, il film con cui Van Sant torna a parlare di diversità e assuefazione, nonché di quello straniamento esistenziale che, quando trova il suo sfogo creativo, può trasformarsi in arte sublime. Anche in questo film non c'è giudizio né condanna, ma solo presa di coscienza di un disagio profondo che fatica a raccontarsi, ma che può - e deve - essere umanamente condiviso. Recuperando una misura di tenerezza verso tutti: nessuno escluso.


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