catcarlo
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martedì 12 febbraio 2013
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django unchained
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‘C’è un negro a cavallo!’. Il nuovo film di Tarantino è come una grande meringa farcita di ottima crema, guarnita di canditi e ricoperta di cioccolato: il pasticciere è sempre bravissimo, il dolce è una leccornia, ma forse l’accumulo di ingredienti è eccessivo. Il tanto agognato (da parte sua) omaggio congiunto al western all’italiana e alla blaxploitation – che pure comprese pellicole ambientate sulla frontiera - dimostra ancora una volta che il regista è sempre il primo della classe dei cinefili bulimici: le citazioni si sprecano, evidenti o dissimulate tra immagini, battute e colonna sonora (oltre al tema del film ispiratore, a firma Luis Bacalov, sono ripresi vari motivi provenienti dall’epoca ‘spaghetti’) già a partire dai bellissimi, essenziali titoli di testa e per non parlare dell’inevitabile presenza di Franco Nero – il Django di Corbucci che, ovvio, sa che la ‘d’ iniziale è muta.
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‘C’è un negro a cavallo!’. Il nuovo film di Tarantino è come una grande meringa farcita di ottima crema, guarnita di canditi e ricoperta di cioccolato: il pasticciere è sempre bravissimo, il dolce è una leccornia, ma forse l’accumulo di ingredienti è eccessivo. Il tanto agognato (da parte sua) omaggio congiunto al western all’italiana e alla blaxploitation – che pure comprese pellicole ambientate sulla frontiera - dimostra ancora una volta che il regista è sempre il primo della classe dei cinefili bulimici: le citazioni si sprecano, evidenti o dissimulate tra immagini, battute e colonna sonora (oltre al tema del film ispiratore, a firma Luis Bacalov, sono ripresi vari motivi provenienti dall’epoca ‘spaghetti’) già a partire dai bellissimi, essenziali titoli di testa e per non parlare dell’inevitabile presenza di Franco Nero – il Django di Corbucci che, ovvio, sa che la ‘d’ iniziale è muta.. La bravura di Tarantino si vede però soprattutto nella capacità di gestire l’ipercalorica ricetta: le quasi tre ore di durata volano via senza tentennamenti, grazie a un ritmo inesausto che nasce dalla combinazione di una scrittura serratissima (le battute memorabili si sprecano), da una capacità magistrale nella costruzione dell’inquadratura e dalla scelta come al solito azzeccata del commento musicale. I temi consueti della casa in salsa diversa? Forse, ma, in ogni caso, il divertimento di alto livello è assicurato, anche perché ritornano pure le consistenti dosi di humour sovente nero: la scena della posse proto-Klan, assemblata da Big Daddy, che litiga con i cappucci vale da sola il prezzo del biglietto. Inoltre, a ben guardare, i film sono due al prezzo di uno. Nel primo, il dottor Schultz (Waltz) libera Django (Foxx) e ne fa il suo assistente nella discutibile – e discussa da Django stesso - professione del cacciatore di taglie: è il western vero e proprio, fatto di paesini fangosi e splendide immagini di cavalcate fra le montagne innevate (‘Sfida nell’alta sierra?’ di Peckinpah?). Quando, per sdebitarsi, il dottore decide di aiutare il suo socio nella ricerca della moglie, la storia vira verso il fiammeggiante melodramma sudista ambientato in un Mississippi (Stato confinante con il Tennessee da cui il regista proviene) razzista oltre ogni immaginazione. Ad incarnarlo provvede lo spregevole (e incestuoso) Calvin Candle interpretato da un DiCaprio praticamente perfetto, anche se sulle prime pieno di dubbi nell’accettare un personaggio tanto odioso: è lui il padrone della sposa dell’eroe, che risponde al fantasmagorico nome di Broomhilda von Shaft (Wagner e Isaac Hayes in un colpo solo) e a cui regala le proprie delicate fattezze Kerry Washington, incantevole tra tanti omaccioni. Il vecchio servitore Stephen – poteva mancare Samuel L. Jackson? – fa saltare i piani e inizia la carneficina, inaugurata da Schultz, a cui viene riservata una delle più belle morti cinematografiche degli ultimi tempi. Da lì in avanti, il sangue zampilla e la dinamite scoppia, così che sono in pochissimi a uscirne vivi mentre Django ritrova la sua Hildi in una scena sovraccarica di pathos a cui contribuisce la lirica tromba di accompagnamento. Alla fine, esausto ma sazio, mi trovo a fare i conti pensando che, a parte la Gatling, non manca proprio nulla, ma non è però possibile tralasciare una nota su di un doppiaggio che dà l’impressione che ci sia qualcosa di troppo ‘lost in translation’. Passi che l’accento tedesco del personaggio di Waltz sia quasi inudibile (magari è così anche in originale), passi per il solito vocione da duro di Insegno affibbiato a Foxx, , ma dà fastidio che nei titoli di coda compaia un’assistente all’accento (sudista, of course) per DiCaprio che, invece, parla un italiano piano e lineare.
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thecrow56
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domenica 20 gennaio 2013
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quenti non sbaglia mira
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Che QT sia un geniaccio non lo scopriamo ora . Sin dall'inizio così Tarantiniano,sin dalla prima scena il film cattura e sorprende. La genialità del nostro prezioso regista sceneggiatore che tanto ha dato e ancora,a Dio piacendo ,darà al cinema,ancora una volta si staglia nitida e si coglie con facilità in più aspetti. I personaggi sia principali che secondari, tutti così minuziosamente scavati da far emergere il meglio degli attori attraverso la propria recitazione (S .L. Jackson da urlo , DiCaprio per quel che mi concerne mai vsto a sti livelli ) ,già l'idea della nazionalità del co protagonista il Dott Schultz da un impronta vincente alla sceneggiatura.
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Che QT sia un geniaccio non lo scopriamo ora . Sin dall'inizio così Tarantiniano,sin dalla prima scena il film cattura e sorprende. La genialità del nostro prezioso regista sceneggiatore che tanto ha dato e ancora,a Dio piacendo ,darà al cinema,ancora una volta si staglia nitida e si coglie con facilità in più aspetti. I personaggi sia principali che secondari, tutti così minuziosamente scavati da far emergere il meglio degli attori attraverso la propria recitazione (S .L. Jackson da urlo , DiCaprio per quel che mi concerne mai vsto a sti livelli ) ,già l'idea della nazionalità del co protagonista il Dott Schultz da un impronta vincente alla sceneggiatura. I dialoghi ,eleganti ,forbiti o crudi,diretti,surreali e capaci di strapparti il sorriso e di immergere lo spettatore nella vicenda che man mano si snoda . La dinamicità degli eventi e la narrazione degli stessi, i" giusti " eccessi, il colpo di scena associato a quel che lo spettatore si aspetta con ansia che accada. Il suo tributo ( più di uno sicuramente ) al western italiano e al maestro Sergio Leone , il cameo di Franco Nero, i richiami velati tra immagini paesaggi e nomi a Via col Vento,arricchiscono e rendono quest'opera un western unico ,un genere difficile da propoorre nel 2013 ,per farlo ci voleva la maestria di Quentin Tarantino ,semplicemente direi :tiro, RETE !
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matteo manganelli
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lunedì 28 gennaio 2013
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tarantino è un'assicurazione
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Partiamo con questa frase: non mi piace il genere western, anzi, è l'unico che non riesce ad appassionarmi per niente, insieme al musical. Ma un film firmato Tarantino, qualunque genere esso sia, è sempre un'assicurazione. Django è uno schiavo che viene liberato dai suoi padroni grazie al dottor King Schultz, un dentista tedesco diventato un cacciatore di taglie. Schultz è a caccia dei criminali più ricercati del Sud e decide di svolgere questo compito con Django al suo fianco. Dopo aver imparato tutti i segreti della caccia, Django decide che è giunto il momento di ritrovare e liberare sua moglie Broomhilda, che non vede più da quando era stata venduta al mercato degli schiavi molto tempo prima.
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Partiamo con questa frase: non mi piace il genere western, anzi, è l'unico che non riesce ad appassionarmi per niente, insieme al musical. Ma un film firmato Tarantino, qualunque genere esso sia, è sempre un'assicurazione. Django è uno schiavo che viene liberato dai suoi padroni grazie al dottor King Schultz, un dentista tedesco diventato un cacciatore di taglie. Schultz è a caccia dei criminali più ricercati del Sud e decide di svolgere questo compito con Django al suo fianco. Dopo aver imparato tutti i segreti della caccia, Django decide che è giunto il momento di ritrovare e liberare sua moglie Broomhilda, che non vede più da quando era stata venduta al mercato degli schiavi molto tempo prima. Per come la penso io, Django, ci ha messo in luce un Tarantino minore, che mette un po' da parte i virtuosismi di sceneggiatura per dare spazio a quelli della regia. Bisogna precisare, però, che un "Tarantino minore" porta comunque ad un ottimo film. Sotto certi punti di vista Django è accostabile alla figura di Beatrix Kiddo e ai due volumi di Kill Bill, per il citazionismo sfrenato, l'iperviolenza gratuita mai banale e per il tema della vendetta. Di Caprio fuori ruolo, ma se la cava bene. Christoph Waltz immenso. Jamie Foxx meravigliosamente piatto e inespressivo, come la parte richiedeva. Tirando le somme, Quentin ha voluto omaggiare il cinema western, senza distogliersi dai propri ideali e dal proprio stile. Il risultato è un ottimo film che conferma le qualità del proprio regista.
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burton99
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domenica 10 febbraio 2013
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trionfo del "tarantiniano" tra vendetta e sangue
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Una serie di pietre dove si muovono alcuni schiavi sotto il sole cocente. Fra questi, c'è Django. Diventato uomo libero dopo un siparietto pseudo - splatter del dottor King Schultz, lo aiuta a fare il cacciatore di taglie ma ha in testa solo la vendetta e l'adorata moglie Broomhilda, venduta come schiava chissà dove nel Texas.
La sceneggiatura è da sempre (soprattutto nei dialoghi e nelle continue citazioni e rimandi, travestiti da trovate ingegnose), un grande piacere se scritta da Quentin Tarantino. Un ometto curioso che ci regala uno spettacolo che di spaghetti - western ha poco (solo il labile confine tra il bene e il male), ma di Tarantino - western ha tutto (il sangue, le esplosioni, il piacere ossessivo per il bel dialogo e per i personaggi estremi e fuori dal comune), e ci lascia anche un suo cameo (ma che dico, un vero e proprio piccolo ruolo), per fare capire che questo è probabilmente un vero "film della vita" per lui.
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Una serie di pietre dove si muovono alcuni schiavi sotto il sole cocente. Fra questi, c'è Django. Diventato uomo libero dopo un siparietto pseudo - splatter del dottor King Schultz, lo aiuta a fare il cacciatore di taglie ma ha in testa solo la vendetta e l'adorata moglie Broomhilda, venduta come schiava chissà dove nel Texas.
La sceneggiatura è da sempre (soprattutto nei dialoghi e nelle continue citazioni e rimandi, travestiti da trovate ingegnose), un grande piacere se scritta da Quentin Tarantino. Un ometto curioso che ci regala uno spettacolo che di spaghetti - western ha poco (solo il labile confine tra il bene e il male), ma di Tarantino - western ha tutto (il sangue, le esplosioni, il piacere ossessivo per il bel dialogo e per i personaggi estremi e fuori dal comune), e ci lascia anche un suo cameo (ma che dico, un vero e proprio piccolo ruolo), per fare capire che questo è probabilmente un vero "film della vita" per lui. E poi, parlando di colori, c'è una costante rosso - bianco (in uno dei più chiari esempi sangue sulle piante di cotone).
Cosa aggiungere? Alcune menzioni attoriali. Christoph Waltz e Leonardo DiCaprio i migliori, bravo Jamie Foxx e discreta Kerry Washington (sarà che aveva una piccola parte).
E, fidatevi, il divieto non c'è, ma alcune scene sono per stomaci forti. Veramente. Buona visione.
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alfiosquillaci
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lunedì 21 gennaio 2013
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il doppio standard estetico. su “django unchained"
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Da ragazzini si aveva il piacere di andare al cinema tutte le volte che lo spleen o il mal tempo lo suggerivano. Si pagavano 150 lire e si vedevano due film. La gioia di vivere con pochi spiccioli. Nessuno saprà mai cosa può essere la dolcezza di vivere se non ha mai visto il cinemascope degli anni Sessanta. Si entrava al cinema scostando una prima cascata di pesanti tendoni di velluto rosso e subito si era immersi in un semibuio freddino, in quella specie di terra di nessuno che non è il fuori e non è il dentro, come le doppie porte nei bar dei paesi del Nord, poi fendevi con la mano una seconda cascata di pesanti tendoni di cui non si distingueva il colore fino a trovare il punto di commessura dei due lembi, e quindi accedevi nella sala, entravi nel paradiso del cinemascope.
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Da ragazzini si aveva il piacere di andare al cinema tutte le volte che lo spleen o il mal tempo lo suggerivano. Si pagavano 150 lire e si vedevano due film. La gioia di vivere con pochi spiccioli. Nessuno saprà mai cosa può essere la dolcezza di vivere se non ha mai visto il cinemascope degli anni Sessanta. Si entrava al cinema scostando una prima cascata di pesanti tendoni di velluto rosso e subito si era immersi in un semibuio freddino, in quella specie di terra di nessuno che non è il fuori e non è il dentro, come le doppie porte nei bar dei paesi del Nord, poi fendevi con la mano una seconda cascata di pesanti tendoni di cui non si distingueva il colore fino a trovare il punto di commessura dei due lembi, e quindi accedevi nella sala, entravi nel paradiso del cinemascope. Immagini gigantesche di cappelloni dal sonoro reboante proiettate in uno schermo dalle dimensioni di un campo di calcio emergevano dal nulla: vedevi il gigantesco viso grifagno di Lee Van Cleef , il villain di sempre degli spaghetti western, la barba rada e tignosa di Gian Maria Volonté, gli occhi di ghiaccio di Clint Eastwood della serie di film di Sergio Leone dai titoli che erano già attanti à la Greimas (il buono, il brutto , il cattivo) o gli occhi cattivi e magnetici di Franco Nero in Djanco, adesso resuscitato da Quentin Tarantino. E come dimenticare quelle voci stentoree egutturali degli indimenticabili doppiatori esibenti un italiano standard, da annunciatori ferroviari o da speaker televisivi, nessuno accento dialettale pena la suspension of disbelief . Un italiano anabolizzato il loro, arcaizzante ma non cruscante (i protagonisti rudi e lerci dei western dicevano correttamente “rammenti?” invece di “ti ricordi?”), parlato da figure evanescenti come semidei perché nulla poteva avere in comune con il nostro italiano impastato da vocali larghe e giri di frase rionali… E poteva essere altrimenti? Ultradefunta era la stagione neorealista, ne avevamo lavati di panni sporchi in famiglia coi film neorealisti…
Ma a differenza di Quentin Tarantino che non si vergogna, adesso, a confessare che s’è nutrito solo di B Movies, di film spazzatura, il nostro divertimento cinematografico plebeo era inconfessabile. La ferrea estetica dell’epoca chiedeva che non si morisse che per Antonioni, Alain Resnais, Jea-Luc Godard, registi che dominarono per un doppio decennio fin quando vennero fatti fuori dallo schiocco di frusta di Indiana Jones e del cinema-cinema di Spilberg che aveva iniziato inventandosi una tensione narrativa da quattro soldi mettendo un Truck di cui non si vedeva il volto del guidatore all’inseguimento di una cadillac arancione (Duel).
Si leggevano anche monografie coscienziose (ricordo un Western maggiorenne, editore Zigiotti di Triesta, beccato in una bancarella già vecchio ai miei tempi) o libroni seri di semiologia (Christian Metz), roba da torturatori dei Cahiers du Cinéma, si discettava già di specifico filmico, e la sera dei fine settimana il supplizio estetico imponeva la liturgia del cineforum democratico delle nostre “corazzate Potëmkin”: I film dei Taviani, “Allonsanfan”, “San Michele aveva un gallo”, o l’immancabile “L’Anno scorso a Maryenbad” con un bellissimo Albertazzi. Mai felici se non venivamo suppliziati da pellicole dai piani sequenza estenuanti, lunghissimi, con pause insensate, arrêt sur image interminabili, sui tetti di Parigi bagnati dalla pioggia minuta insistente, semiologica, senza fine, mentre l’attore inquadrato di spalle fa pipì e, dopo, l’obiettivo che insegue, lentamente, liturgicamente, l’ultimo risucchio dello sciacquone. Un quarto d’ora di sciacquone… E poi, tutti i passi, non uno di più non uno di meno della protagonista sul pavé. Lentissimi e sonori, angoscianti. Nessun ricorso all’ellissi, all’elisione dei tempi morti narrativi, nell’illusione di far coincidere il tempo del narrato col tempo della narrazione. Ah l’école du régard, ah la mise en abîme … L’influenza più nefasta del mio amato Flaubert sulle arti. A lui si rubava l’estetica dello sguardo. Lui che aveva scritto che per capire una cosa bastava guardarla a lungo… (« Pour qu'une chose devienne intéressante, il suffit de la regarder assez longtemps » !
Ma appena possibile si scappava nel cinema di periferia alla ricerca del nostro metadone: gli spaghetti western o i film della serie di Angelica. E si aveva un particolare piacere dopo la costipazione estetica alto di gamma - come dopo aver dismesso uno smoking e indossato delle comode braghette - , sputare le bucce dei semi di zucca tostati o a far saltare con un colpo di pollice la pallina delle gazzose da bere a garganella. Bravate popolari dalumpenproletariat…
Storia e discorso, direbbe il narratologo americano Seymour Chatman (Pratiche, Parma 1978).
Ovvero storie contro discorsi e viceversa. Se un film aveva una storia, lo sviluppo coerente e intrigante di un plot, con la sua fase preparatoria di accumulo con tutti i suoi bei satelliti anticipatori, lo sviluppo, l’acme e lo scioglimento (dénouement lo chiamano i narratologi) ci trovavamo sicuramente davanti a una forma secondaria di arte, commerciale, si diceva schifati storcendo le labbra. Gli happy few si nutrivano con beveroni di pellicole dove se capivi qualcosa… sicuramente il regista aveva fallito. L’illeggibilità (del libro come della pellicola) era il discrimine tra arte pura e arte commerciale: le lunghe sequenze contrapposte al ritmo vorticoso dei ciack. I passi perduti contro lo sparo veloce e i morti che saltano in aria. I silenzi tristi dell’incomunicabilità esistenzialista, contro i dialoghi solari, secchi e polverosi, in quinte spagnole andaluse spacciate per le rocce rossastre di Moab (Utah) o in Monument Valley di seconda mano, dietro l’angolo…
Ma chi alimentava questa estetica punitiva ed elitaria? Nessuno in particolare, ma tutti in generale. Era nell’aria, nell’air du temps direbbero i francesi che sanno. Ma qualcuno la teorizzava anche, con grande intelligenza bisogna dire. Perché gli intellettuali degli anni Sessanta erano straordinari. Ci immettevano in mondi a noi sconosciuti. Facevano fare anche a noi , in loro compagnia, la “gita a Chiasso” sprovincializzante. Erano gli anni di “Tel Quel”, di “Communication”, di “Cahiérs du cimema”, insomma le fin du fin dell’intelligenza parigina; e lo strutturalismo era la vogue dominante.
Riprendendo in mano l’Opera aperta di Umberto Eco si capisce qualcosa di più. «Nessuno potrà negare che lo spettatore de L’année dernière à Marienbad non venga di colpo sradicato, con salutare violenza, da quella assuefazione fatalmente conservatrice cui la schematica consueta del western e del giallo lo aveva piegato». Ma un momento… un momento… chi scrive ciò è lo stesso autore del “giallo” Il nome della rosa? … Il teorico dell’opera aperta, dell’opera priva di un esito necessario, centrata e chiusa in sé, dell’opera in movimento caratterizzata dall’invito a fare l’opera con l’autore, l’opera che dunque progressista oltre che sempre in progress, se il western e il giallo con le loro strutture date e definite erano invece “fatalmente conservatrici”?
Era successo che, come Quentin Tarantino per i B Movies, Umberto Eco aveva saccheggiato tutta la littérature industrielle (così il critico Sainte-Beuve definiva la letteratura dei romanzi d’appendice) e nel raggio di un ventennio (1962 Opera aperta - 1980 Il nome della rosa) mentre teorizzava l’opera aperta e la struttura assente, intelligentemente si rileggeva tutto il romanzo popolare francese, Dumas ed Eugène Sue, scopriva l’effetto cric (minimo sforzo massimo rendimento dei mezzi narrativi, per intenderci lo le ombre di Hitchcock piuttosto che i fiumi di sangue di Dario Argento) e tutti gli artifici della narrazione popolare, scegliendo alla fine il meccanismo classico del giallo (sì, la struttura “fatalmente conservatrice”) il “meccanismo di risoluzione” dell’opera chiusa a luogo del “meccanismo di rivelazione” dell’opera aperta. Tutto ciò, però, si poneva come un clamoroso "contrordine compagni" rispetto agli orfismi estenuati dell’”opera aperta”, perché in quel romanzo di Eco ci troviamo, invero, davanti ad un’opera più che “chiusa”, inchiavardata, come il vecchio baule della nonna, ossia fortemente strutturata e “pensata” a freddo e con forti debiti verso la tradizione narrativa del romanzo popolare di cui si diceva.
Insomma mentre Tarantino riprende il B movie, restandoci a parer mio, Umberto Eco ci gabbava tutti con un marameo colossale perché nel momento in cui noi eravamo a romperci la testa sullo “scuola dello sguardo” lui era andata più oltre, cioè indietro. E Tarantino non è riuscito ad andar più avanti: tranne che nell'uso "industriale" della pummarola...
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luca scial�
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martedì 22 gennaio 2013
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tarantino realizza il suo sogno
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1876, America del sud. Siamo alla vigilia della Guerra civile. Cinque neri sono trasportati nel cuore della notte da una città all'altra, come consuetudine, per essere venduti a qualche padrone. La carrozza che li guida viene fermata da un dottore, certo King Schultz, che chiede se tra loro ci fosse un certo Django. Dopo averlo acquistato uccide uno dei due padroni e ne ferisce un'altra concedendo ai suoi schiavi di finirlo. All'uomo di colore poi spiega qual è il reale scopo del suo acquisto: Django conosce tre persone che lui sta cercando, essendo un cacciatore di taglie e lo invita a portarlo da loro. Uccisi i tre, tra i due nasce una collaborazione professionale oltre che una leale amicizia.
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1876, America del sud. Siamo alla vigilia della Guerra civile. Cinque neri sono trasportati nel cuore della notte da una città all'altra, come consuetudine, per essere venduti a qualche padrone. La carrozza che li guida viene fermata da un dottore, certo King Schultz, che chiede se tra loro ci fosse un certo Django. Dopo averlo acquistato uccide uno dei due padroni e ne ferisce un'altra concedendo ai suoi schiavi di finirlo. All'uomo di colore poi spiega qual è il reale scopo del suo acquisto: Django conosce tre persone che lui sta cercando, essendo un cacciatore di taglie e lo invita a portarlo da loro. Uccisi i tre, tra i due nasce una collaborazione professionale oltre che una leale amicizia. Schultz vuole aiutare Django a ritrovare sua moglie.
Dopo il capolavoro Bastardi senza gloria, Tarantino si prende la libertà di realizzare un sogno: girare un film western, essendo, come noto, grande fan di Sergio Leone. Django Unchained presenta tutti i connotati tarantiniani: scene cariche di tensione, la vendetta, violenza talvolta gratuita, ironia, sequenze dilatate a volte in modo superfluo, sprazzi brevi di sentimentalismo. Se il film precedente era ambientato nella Parigi occupata, riscrivendone clamorosamente e addirittura credibilmente le sorti, in questo lungometraggio Tarantino riabilita la dignità dei neri schiavizzati dell'America pre-rivoluzionaria, vendicandoli attraverso la pistola veloce del Dottor Schultz e di Django.
Ritroviamo Christoph Waltz, questa volta nelle vesti dell'eroe, mentre l'eroe dalla pelle nera viene interpretato da Jamie Foxx. Ottima anche l'interpretazione di Leonardo Di Caprio nei panni del ricco signor Candy, infaticabile attore ormai da anni consacrato e lontano dalle etichettature affrancategli da Titanic. Quasi irriconoscile invece Samuel L. Jackson nei panni del cinico nero governante che ha ormai dimenticato le sue origini. Più marginale il ruolo della brava e bella Kerry Washington, alla quale però Tarantino non affida il solito ruolo di eroina vendicatrice come fatto nei due film precedenti. Un cameo anche per Franco Nero, protagonista del primo Django e per lo stesso regista.
Non mancano infine omaggi al maestro Sergio Leone, fatti di battute, inquadrature, elementi e musiche tipiche dei suoi film.
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mauro2067
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lunedì 28 gennaio 2013
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grazie tarantino
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Di film belli ne ho visti ma poche volte mi è capitato di uscire dal cinema con il sorriso sulle labbra di colui che sfamato in tutti i suoi sensi torna a casa con l'unico rammarico di averlo oramai visto e che quei 165 minuti magici sono passati. Tarantino non si smentisce regalando quintali di piombo ed ettolitri di sangue, ma questa volta i dialoghi, tanto frizzanti quanto leggeri da strappare parecchie risate, rendono il tutto di facile digestione come fosse una favola per bambini. In fondo a tutto l'ironia sorniona per sottolineare temi importanti come la schiavitù, l'amore e la morte.
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giack
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lunedì 28 gennaio 2013
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che film!!!
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Veramente un gran film! Anche questa volta il genio di Knoxville non delude le aspettative regalandoci un ennesima perla. Mostruoso, ecco un altro aggettivo, come lo sono scatenato (vedi titolo del film), irraggiungibile, maestoso. Non arriaviamo però alle vette compositive del regista (raggiunte con i suoi Bastardi) che "si può dire scriva una sceneggiatura abbastanza piatta", priva di grandissimi colpi di scena, anche se veramente divertente. La prima ora di film vale per intero il prezzo del biglietto. Impressionante è la prova di Waltz (attore ormai feticcio per Tarantino, come Samuel L. Jackson), degna di Oscar e notevole quella di tutti gli altri personaggi (irresistibile Steven, alias Jackson).
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Veramente un gran film! Anche questa volta il genio di Knoxville non delude le aspettative regalandoci un ennesima perla. Mostruoso, ecco un altro aggettivo, come lo sono scatenato (vedi titolo del film), irraggiungibile, maestoso. Non arriaviamo però alle vette compositive del regista (raggiunte con i suoi Bastardi) che "si può dire scriva una sceneggiatura abbastanza piatta", priva di grandissimi colpi di scena, anche se veramente divertente. La prima ora di film vale per intero il prezzo del biglietto. Impressionante è la prova di Waltz (attore ormai feticcio per Tarantino, come Samuel L. Jackson), degna di Oscar e notevole quella di tutti gli altri personaggi (irresistibile Steven, alias Jackson). Quentin sguazza nelle citazioni (sebbene il Django del titolo c'entri ben poco con il Django di Corbucci e Nero) e nelle autocitazioni. In conclusione, Tarantino ha superato l'esame con il 100, ma senza la lode. Vedremo la sua prossima "fatica".
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mr verdoux
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lunedì 4 febbraio 2013
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the western unchained
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Stati Uniti, due anni prima della guerra Civile, uniti nel nome ma non nei fatti, nel Sud vigeva una schiavitù su cui gran
parte del Paese fondava la sua ricchezza. Un razzismo penetrato profondamente nel cuore della gente, città dove la scena di una
persona di colore su un cavallo portava sconcerto ed orrore.
Tarantino ci descrive questa cruda realtà dirigendo Jamie Foxx nella parte di Django, lo schiavista Leonardo Di Caprio,il
cacciatore di taglie Cristopher Waltz ed il servitore negriero Samuel L. Jackson.
Tarantino omaggia il cinema degli spaghetti western e lo arrichisce della sua ironìa, dell'accentuazione della violenza
nelle sparatorie; si trova a suo agio nel descrivere una vita più vicina alla sopravvivenza animalesca che alla spiritualità
dell'essere umano del nostro presente; non dimentica l'inclusione delle colonne sonore di Morricone, le onnipresenti inquadrature
alla Sergio Leone.
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Stati Uniti, due anni prima della guerra Civile, uniti nel nome ma non nei fatti, nel Sud vigeva una schiavitù su cui gran
parte del Paese fondava la sua ricchezza. Un razzismo penetrato profondamente nel cuore della gente, città dove la scena di una
persona di colore su un cavallo portava sconcerto ed orrore.
Tarantino ci descrive questa cruda realtà dirigendo Jamie Foxx nella parte di Django, lo schiavista Leonardo Di Caprio,il
cacciatore di taglie Cristopher Waltz ed il servitore negriero Samuel L. Jackson.
Tarantino omaggia il cinema degli spaghetti western e lo arrichisce della sua ironìa, dell'accentuazione della violenza
nelle sparatorie; si trova a suo agio nel descrivere una vita più vicina alla sopravvivenza animalesca che alla spiritualità
dell'essere umano del nostro presente; non dimentica l'inclusione delle colonne sonore di Morricone, le onnipresenti inquadrature
alla Sergio Leone. Nella migliore tradizione western, la trama parte dalla vendetta per un'ingiustizia per farla diventare il motore
deflagratore di eventi avvolti da un ambiente ostile, che opprime sia nel calore insopportabile dei campi di cotone che
nell'ovattato panorama delle innevate montagne.
Tarantino riscrive la storia come nel precedente "Glorious Basterds", le vittime della storia diventano per una volta
carnefici vendicatori. Da omaggiare la ricchezza dei dialoghi che divertono senza mai scadere nel ridicolo, del sangue che eccede in
alcune scene ma che sa diventare ironico per l'assurdità di alcune uccisioni.
Quentin riesce ancora una volta a far emozionare lo spettatore con un'opera dal ritmo incalzante. Non arriva all'originalità
di capolavori come in Pulp Fiction o Reservoir Dogs, ma ci arriva vicino, molto vicino.
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acanto79
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lunedì 4 febbraio 2013
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puro piacere
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Ancora una volta Quentin Tarantino firma un capolavoro: dalla sceneggiatura alla colonna sonora, un lavoro impeccabile, reso possibile dalla maestria di un cast davvero eccezionale. È evidente che Tarantino si diverte tantissimo facendo film, e riesce a trasmettere questo entusiasmo quasi infantile (nel senso positivo del termine) attraverso i dialoghi, i gesti, gli sguardi, le scene a volte ai limiti del kitsch e dello splatter. Django ha la stessa carica di Kill Bill, di cui condivide la storia di una vendetta, il desiderio di ristabilire una giustizia usurpata: ma qui il messaggio di libertà e di emancipazione trascende la storia, per diventare paradigma universalmente valido. Un ottimo film e una storia avvincente che riescono a fare anche dell'apparentemente eccessiva lunghezza un ulteriore pregio.
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