Django Unchained è un ottimo film, e rientra a pieno titolo nella categoria dei “filmoni” che in ogni stagione fanno notizia e vengono visti da un pubblico di cinefili e non. L’ultimo di Tarantino ha fatto discutere sia per la bellezza che è quasi universalmente riconosciuta, che per una contestata superficialità nello sviluppo della storia, in particolare nella descrizione della schiavitù.
Ma perché Django ha funzionato così tanto, perché questo successo così globale? Recensioni, pubblico , botteghino, critici più o meno ufficiali, sono tutti abbastanza concordi nel descrivere il film con ottimi giudizi.
Tutto inizia dai titoli di testa, che da soli costituiscono per me uno dei momenti più interessanti del film: le immagini ci trasportano in un paesaggio da Montagne rocciose; sembra di stare in Colorado o in Texas (anche se il film è stato girato in California ). Impreziosito da un tema iniziale di Luis Bacalov , il film si apre con gli stessi caratteri tipografici del Django datato 1965 di Corbucci e ambientazioni alla Sergio Leone; gli omaggi al cinema nostrano sono evidenti in tutti i passaggi principali e troviamo riferimenti nella mimica espressiva degli attori, nelle zoomate immediate “all’italiana” ( osservate l’introduzione del perfido Candie interpretato da Di Caprio), nella canzone di Elisa, nell’apparizione di Franco Nero senza contare le scene qua e là che ricordano vecchie interpretazioni di Giuliano Gemma. Ogni cultore dell’italo-western sarà sicuramente soddisfatto, anche perché il film è stato girato con la tecnica della lente anamorfica che comprime le immagini in larghezza, così come da tradizione: il risultato è evidente sin dalla prima mezz’ora e devo ammettere che alcuni momenti sono tecnicamente perfetti, come l'arrivo dei due protagonisti nella tenuta di Candieland, o il già citato incipit.
La storia in sé, non ci giro intorno, è di una semplicità disarmante, tuttavia il Django tarantiniano ha il pregio di non essere mai noioso pur durando quasi 3 ore: la storia non certo colpisce per il suo sviluppo narrativo, e anzi il finale a lieto fine può disturbare anche i fan più accaniti, però funziona perché Tarantino non dà tregua al pubblico con una sceneggiatura avvincente e velocissima; il regista comunica con la cinepresa come il bambinone che appare nella vita reale, sviluppa il tema della vendetta in modo forse ingenuo, ma sicuramente efficace, senza troppi sofismi.
Il riscatto sociale in Pulp Fiction, o l’evoluzione di questo sentimento in un rancore covato per tutta una vita che darà lo spunto per la realizzazione di Bastardi Senza Gloria, qui in realtà ha una radice molto più semplice perché Django è testimone di un sentimento storico che tutti conosciamo e che non ha bisogno di interpretazioni. Django non è un personaggio in evoluzione e la sua motivazione è sempre una, non conosce contaminazioni ideologiche. Complice di questo temperamento prevedibile è l’interpretazione monoespressiva di Jamie Fox volutamente sotto le righe. L’attore è stato criticato per la sua prova un po’ granitica, ma mi sento di poter asserire con tutta sicurezza che tale performance è stata frutto di una ricerca per caratterizzare una personalità marcata da uno schiavismo duramente subito. Gli altri attori invece sono tutti indiscutibilmente in forma, anche se Di Caprio mi è sembrato, come spesso accade, troppo istrionico. Di Caprio, che sicuramente non è tra i miei attori preferiti certo non è famoso per la sua sobrietà delle sue performances e qui appare veramente un po’ esagerato. Una menzione a parte per Samuel L. Jackson, il capo della servitù, il “negriero negro”, la spia convertita che ci fornisce un ulteriore elemento per comprendere la schiavitù di quel periodo.
Ma la firma del regista sono le immagini più crude, quelle splatter che fanno della violenza la grammatica di base dei suoi film. Le scene sono mostrate in chiave totalmente realistica: frustate a sangue perché delle uova sono cadute a terra, frustate mortali per vendicarsi di un negriero, la fornace per chi tenta di scappare, il combattimento all’ultimo “occhio” fra i mandingo, o ancora peggio uno schiavo che viene sbranato da feroci cani perché non serve a nulla sotto gli occhi ancor più feroci di un eclettico Di Caprio.
Non voglio svelare altri particolari, perchè questo è un film che va visto al cinema e non studiato sulle centianaia di recensioni che girano su internet. Non è però il capolavoro tanto atteso perché l’opera d’arte ha una fattura originale, ha un tratto memorabile e in “Django senza catene” è evidente un assemblaggio di elementi già visti. Artigiano questa volta, ma non geniale. I fan di Tarantino ameranno la sua firma inconfondibile , mentre i suoi detrattori lo considereranno un fumettone splatter. E per tutti gli altri? Beh, sarete voi a dircelo; sono sicuro che vi piacerà, anche se dopo qualche giorno non vi rimarrà nulla e molto probabilmente sarà dimenticato con il tempo.
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