Django Unchained

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Un film di Quentin Tarantino. Con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson, Kerry Washington.
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Titolo originale Django Unchained. Western, durata 165 min. - USA 2013. - Warner Bros Italia uscita giovedì 17 gennaio 2013. MYMONETRO Django Unchained * * * 1/2 - valutazione media: 3,66 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Il doppio standard estetico. Su “Django Unchained" Valutazione 3 stelle su cinque

di AlfioSquillaci


Feedback: 1269 | altri commenti e recensioni di AlfioSquillaci
lunedì 21 gennaio 2013

Da ragazzini  si aveva il piacere di andare al cinema tutte le volte che lo spleen o il mal tempo lo suggerivano.  Si pagavano 150 lire e si vedevano due film. La gioia di vivere con pochi spiccioli. Nessuno saprà mai cosa può essere la dolcezza di vivere  se non ha mai visto il cinemascope degli anni Sessanta. Si entrava al cinema scostando una prima cascata di pesanti tendoni di velluto rosso e subito si era immersi in un semibuio freddino, in quella specie di terra di nessuno che non è il fuori e non è il dentro, come le  doppie porte nei  bar dei paesi del Nord,  poi fendevi con la mano una seconda cascata di pesanti tendoni  di cui non si distingueva il colore fino a trovare il punto di commessura dei due lembi, e quindi accedevi nella sala, entravi nel  paradiso del cinemascope. Immagini gigantesche di cappelloni dal sonoro reboante proiettate in uno schermo dalle dimensioni di un campo di calcio emergevano dal nulla: vedevi il gigantesco viso grifagno di Lee Van Cleef , il villain di sempre degli spaghetti western, la barba rada e tignosa di Gian Maria Volonté, gli occhi di ghiaccio di Clint Eastwood della serie di film di Sergio Leone dai titoli  che erano già  attanti à la Greimas (il buono, il brutto , il cattivo) o gli occhi cattivi e magnetici di Franco Nero in Djanco, adesso resuscitato da Quentin Tarantino.  E come dimenticare quelle voci stentoree egutturali degli indimenticabili doppiatori  esibenti  un italiano  standard,  da annunciatori ferroviari o da speaker televisivi, nessuno accento dialettale pena la suspension of disbelief . Un italiano anabolizzato il loro, arcaizzante ma non cruscante (i protagonisti rudi e lerci dei western dicevano correttamente  “rammenti?” invece di “ti ricordi?”), parlato da figure evanescenti  come semidei perché  nulla poteva avere in comune con il nostro italiano impastato da vocali larghe e giri di frase rionali… E poteva essere altrimenti? Ultradefunta  era la stagione neorealista, ne avevamo lavati di panni sporchi in famiglia coi film neorealisti…
Ma a differenza di Quentin Tarantino che non si vergogna, adesso, a confessare che s’è nutrito solo di B Movies, di film spazzatura, il nostro divertimento cinematografico plebeo era inconfessabile. La   ferrea  estetica  dell’epoca chiedeva  che non si morisse che per Antonioni, Alain Resnais, Jea-Luc Godard, registi che dominarono  per un doppio decennio fin quando vennero fatti fuori dallo schiocco di frusta di Indiana Jones e del cinema-cinema di Spilberg che aveva iniziato inventandosi una tensione narrativa da quattro soldi mettendo un Truck di cui non si vedeva il volto del guidatore all’inseguimento di una cadillac arancione (Duel).
Si leggevano anche monografie coscienziose (ricordo un Western maggiorenne, editore Zigiotti di Triesta, beccato in una bancarella già vecchio ai miei tempi) o  libroni seri di semiologia (Christian Metz), roba da torturatori dei Cahiers du Cinéma,  si discettava già di specifico filmico, e la sera dei fine settimana il supplizio estetico imponeva  la liturgia del cineforum democratico delle nostre “corazzate  Potëmkin”: I film dei Taviani, “Allonsanfan”, “San Michele aveva un gallo”, o l’immancabile  “L’Anno scorso a Maryenbad” con un bellissimo Albertazzi. Mai felici se non venivamo suppliziati  da pellicole dai piani sequenza  estenuanti, lunghissimi, con pause insensate, arrêt sur image interminabili,  sui  tetti di Parigi bagnati dalla pioggia minuta insistente, semiologica,  senza fine,  mentre  l’attore inquadrato di spalle  fa pipì e, dopo, l’obiettivo che insegue, lentamente, liturgicamente, l’ultimo risucchio dello sciacquone. Un quarto d’ora di sciacquone… E poi, tutti i passi, non uno di più non uno di meno della protagonista sul pavé. Lentissimi e sonori, angoscianti. Nessun ricorso all’ellissi, all’elisione dei tempi morti narrativi, nell’illusione di far coincidere  il tempo del narrato  col  tempo  della narrazione.  Ah l’école du régard, ah la  mise en abîme …  L’influenza più nefasta del mio amato Flaubert sulle arti. A lui si rubava l’estetica dello sguardo. Lui che aveva scritto che per capire una cosa bastava  guardarla a lungo… («  Pour qu'une chose devienne intéressante, il suffit de la regarder assez longtemps »  !
Ma appena possibile si scappava  nel cinema di periferia alla ricerca del nostro metadone:  gli spaghetti western o i film della serie di Angelica.  E si aveva un particolare piacere dopo la costipazione estetica alto di gamma -  come dopo aver dismesso uno smoking e indossato delle comode braghette -  ,  sputare le bucce dei semi di zucca tostati o a far saltare con un colpo di pollice  la pallina delle gazzose da bere a garganella. Bravate popolari dalumpenproletariat
Storia e discorso, direbbe il narratologo americano Seymour Chatman (Pratiche, Parma 1978).
Ovvero storie contro discorsi e viceversa.  Se un film aveva una storia, lo sviluppo coerente e intrigante di un plot, con la sua fase preparatoria di accumulo con tutti i suoi bei satelliti anticipatori, lo sviluppo, l’acme e lo scioglimento (dénouement lo chiamano i narratologi) ci trovavamo sicuramente davanti a una  forma secondaria di arte, commerciale, si diceva schifati storcendo le labbra. Gli happy few si nutrivano con beveroni di pellicole dove se capivi qualcosa… sicuramente il regista aveva fallito. L’illeggibilità (del libro come della pellicola) era il discrimine tra arte pura e arte commerciale: le lunghe sequenze contrapposte al ritmo vorticoso dei ciack. I passi perduti contro lo sparo veloce e i morti che saltano in aria. I silenzi tristi dell’incomunicabilità esistenzialista, contro i dialoghi solari, secchi e polverosi, in quinte spagnole andaluse spacciate per le rocce rossastre  di Moab (Utah) o in  Monument Valley di seconda mano, dietro l’angolo…
Ma chi alimentava questa estetica punitiva ed elitaria? Nessuno in particolare, ma tutti in generale.  Era nell’aria, nell’air du temps direbbero i francesi che sanno. Ma qualcuno la teorizzava anche, con grande intelligenza bisogna dire. Perché gli intellettuali degli anni Sessanta erano straordinari. Ci immettevano in mondi a noi sconosciuti. Facevano fare anche a noi , in loro compagnia, la “gita a Chiasso” sprovincializzante.  Erano gli anni di “Tel Quel”, di “Communication”, di “Cahiérs du cimema”, insomma le fin du fin dell’intelligenza parigina; e lo strutturalismo era la vogue dominante.
Riprendendo in mano l’Opera aperta di Umberto Eco si capisce qualcosa di più. «Nessuno potrà negare che lo spettatore de L’année dernière à Marienbad non venga di colpo sradicato, con salutare violenza, da quella assuefazione fatalmente conservatrice cui la schematica consueta del western e del giallo lo aveva piegato».  Ma un momento… un momento… chi scrive ciò  è lo stesso autore del “giallo” Il nome della rosa? …  Il teorico dell’opera aperta, dell’opera priva di un esito necessario, centrata e chiusa in sé, dell’opera in movimento caratterizzata dall’invito a fare l’opera con l’autore, l’opera che dunque progressista oltre che sempre in progress, se il western e il giallo con le loro strutture date e definite erano invece “fatalmente conservatrici”?
Era successo che,  come Quentin Tarantino per i B Movies,  Umberto Eco aveva saccheggiato tutta la littérature industrielle (così  il critico Sainte-Beuve definiva la letteratura dei romanzi d’appendice)  e nel raggio di un ventennio (1962 Opera aperta - 1980 Il nome della rosa) mentre teorizzava l’opera aperta e la struttura assente, intelligentemente si rileggeva tutto il romanzo popolare francese, Dumas ed Eugène Sue, scopriva l’effetto cric (minimo sforzo massimo rendimento dei mezzi narrativi, per intenderci lo le ombre di Hitchcock piuttosto che i fiumi di sangue di Dario Argento) e tutti gli artifici della narrazione popolare, scegliendo alla fine  il meccanismo classico del giallo (sì, la struttura “fatalmente conservatrice”) il “meccanismo di risoluzione” dell’opera chiusa  a luogo del “meccanismo di rivelazione” dell’opera aperta.  Tutto ciò, però, si poneva come un clamoroso  "contrordine compagni" rispetto agli orfismi estenuati dell’”opera aperta”, perché in quel  romanzo di Eco  ci troviamo, invero, davanti ad un’opera  più che “chiusa”, inchiavardata,  come il  vecchio baule della nonna, ossia fortemente strutturata e “pensata” a freddo e con forti debiti verso la tradizione narrativa del romanzo popolare di cui si diceva.
 Insomma mentre Tarantino riprende il  B movie, restandoci a parer mio, Umberto Eco  ci gabbava tutti con un marameo colossale perché nel momento in cui  noi eravamo a romperci la testa sullo “scuola dello sguardo” lui era andata più oltre, cioè indietro.  E Tarantino non è riuscito ad andar più avanti: tranne che nell'uso "industriale" della pummarola...
 

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