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Tutto quello che avreste voluto sapere su Woody... e non avete mai osato chiedere

Ha vinto tre Oscar, un Leone d’oro alla carriera a Venezia, un Orso d’oro a Berlino. Oggi esce al cinema il suo nuovo film: Un colpo di fortuna - Coup de chance.
di Giovanni Bogani

Woody Allen (Allan Stewart Konigsberg) (88 anni) 1 dicembre 1935, New York City (New York - USA) - Sagittario. Regista del film Un colpo di fortuna - Coup de Chance.
mercoledì 6 dicembre 2023 - Focus

Possiamo conoscere l’universo? Mio Dio, è già così difficile non perdersi a Chinatown…”.

Ha vinto tre Oscar, un Leone d’oro alla carriera a Venezia, un Orso d’oro a Berlino. Ha diretto una quarantina di film, eppure dice di non essere contento di nessuno di essi. “Guarda quelli che sono riusciti a fare cose meravigliose – Kurosawa, Bergman, Fellini, Buñuel, Truffaut – e guarda i miei film. Ho sprecato un’opportunità e posso incolpare solo me stesso”. Per noi, invece, i suoi film sono fra le cose per cui vale la pena vivere. 

 A quasi novant’anni è ancora leggero, agile, mozartiano nel raccontare, ancora e sempre, il valzer degli amori, le girandole del caso: i modi che ci inventiamo per dribblare la morte. A quasi novant’anni, magrolino, con gli occhiali e lo sguardo smarrito di sempre, è ancora il più grande di tutti. Ripudiato da Hollywood e in particolare da alcuni attori che hanno lavorato con lui, travolto dall’onda lunga del MeToo, nonostante sia stato sempre prosciolto da ogni accusa, Woody ha messo il mondo in modalità silenzioso e si è buttato, come sempre, sulla sua macchina da scrivere Olympia, la stessa che usa da una vita. E ci ha raccontato, ancora una volta, il tourbillon de la vie con Coup de chance, girando a Parigi, con attori che recitano in francese, un cast in minore al quale strappa tutti i colori della tavolozza dell’anima.

Sono passati cinquant’anni da quando, in Italia, il primo intellettuale si accorse di lui, e sgranocchiò con entusiasmo le sue gag: era Umberto Eco, che ci vide lungo, e fece tradurre il suo primo libro – cioè scoprì Woody Allen come scrittore – quando ancora, come attore, non lo conosceva nessuno. E figurarsi come regista. Fu Umberto Eco a staccare la prima definizione perfetta: se prima di lui c’erano comici da torte in faccia, Woody è uomo da torte sull’inconscio.  

Oggi su Woody Allen ogni cosa è stata detta, scritta, scrutinata, analizzata, studiata, raccontata, divorata, digerita, sgranocchiata come una caramella. Ma proviamoci lo stesso, a fotografarlo da qualche punto di vista meno consueto.  Ecco – dopo aver letto, scandagliato, setacciato le quattrocento pagine dell’autobiografia "A proposito di niente" – tutto quello che avreste voluto sapere su Woody e non avete mai osato chiedere.


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BROOKLYN. Intanto, sgombriamo il campo dagli equivoci. Se uno dei suoi film più celebri e più belli è Manhattan (guarda la video recensione), se in Io e Annie (guarda la video recensioneWoody cammina per Central Park, se abita nell’Upper East Side, il luogo dove è nato e cresciuto non è Manhattan, ma la più popolare Brooklyn. Brooklyn che era, in quegli anni Trenta del Novecento, piena di ebrei arrivati dall’Europa. E non erano intellettuali, i suoi genitori…
 
PAPA’.  Il padre, secondo il racconto dello stesso Allen, sarebbe stato perfetto per il cast di un film di Scorsese, più che per un film di Woody. Uno alla Joe Pesci, per dire. Capelli imbrillantinati, la pistola sempre in tasca. Come fiaba della buonanotte, racconta al figlioletto di quando un gangster venne freddato con quattro pallottole, in strada, davanti agli occhi del padre. E il bello è che al piccolo Woody piace un sacco, la storia.  

MAMMA. “Diciamolo, non era una gran bellezza. Quando ho detto che mia madre assomigliava a Groucho Marx, tutti hanno pensato che scherzassi. I miei genitori rimasero sposati per settant’anni, giusto per farsi dispetto, immagino. Ciò nonostante, credo che a modo loro si amassero, in un modo forse noto solo ad alcune tribù di cacciatori di teste del Borneo”. 

SUPEREROI. Ce lo vedete Woody Allen che ama i supereroi? Pensiamo tutti che sia cresciuto fra libri di Kierkegaard e rapsodie in blu. E invece: “Fino ai diciassette anni, leggevo solo fumetti. I miei eroi erano Batman, Superman e Flash Gordon. Ero un misantropo ignorante e patito di gangster. Venni travolto dalle massicce mele di Cézanne e dai piovosi boulevard di Pissarro solo perché marinavo la scuola e avevo bisogno di un riparo nelle gelide mattine autunnali. E così scoprii il Met”. Le mele e pere di Cézanne sono fra le cose per cui vale la pena vivere in Manhattan (guarda la video recensione).  


Una scena del film Manhattan (1979).

CULTURA. “C’erano tutte le premesse perché diventassi un buzzurro che se ne sta in poltrona davanti alla televisione, birra in mano, partita di football ad alto volume, paginoni di Playboy attaccati con lo scotch alla parete. Il motivo della mia metamorfosi furono le ragazze. Iniziavo a notare le ragazze con i capelli lisci e lunghi che brandivano copie della ‘Metamorfosi’ di Kafka con annotazioni ai margini tipo ‘Sono d’accordo’. Quando le invitavo a vedere una partita di baseball, e mi rispondevano che preferivano vedere una cosa di Ionesco, replicavo ‘Possiamo sentirci domani?’ e mi precipitavo a cercare chi fosse Ionesco”.  

IL CINEMA. Come arriva il cinema nella sua vita? Con la sorella Rita. Lei dieci anni, lui cinque. Vanno al cinema ogni sabato a mezzogiorno. “Vedevo tutto quello che sfornava Hollywood, sapevo chi erano gli attori e conoscevo anche le canzoni, che ascoltavo alla radio”. All’epoca in cui la radio rimaneva accesa tutto il giorno, nelle case, ha dedicato Radio Days.

CHAMPAGNE. “I miei film preferiti erano quelli che chiamavo ‘champagne comedies’. Le storie si svolgevano in attici dove dall’ascensore si entrava direttamente nell’appartamento, e donne bellissime giravano per casa con vestiti che si userebbero per un matrimonio a Buckingham Palace. Nessuno aveva il cancro, i tubi non perdevano e, se squillava il telefono nel cuore della notte, Katharine Hepburn allungava il braccio sul comodino, dove il telefono solitamente era bianco, e le notizie non riguardavano Mr. and Mrs. Smith” di Hitchcock, anno 1941, uno dei film che potrebbe aver visto da piccolo.

GUSTI. Si pensa che i grandi siano pieni di rispetto verso gli altri grandi del cinema, o della letteratura. Non sempre. “Non ho mai letto ‘Don Chisciotte’, ‘Lolita’ o ‘Ulisse’. Non ho mai visto Il circo di Chaplin. Non è snobismo: è che un paio di occhiali non bastano a rendere colta una persona. Non sono mai stato un fan di Katharine Hepburn: spesso la trovo molto artificiale. A qualcuno piace caldo e Susanna! non mi hanno mai divertito. La vita è meravigliosa mi fa venir voglia di strozzare quel melenso angelo di seconda classe. ‘Vogliamo vivere’ non mi ha mai fatto ridere. D’altro canto, non ho mai trovato neanche vagamente divertente Il grande dittatore. Chaplin che gioca col mappamondo non mi sembra certo un esempio di genio comico”. Et voilà. Chaplin e Lubitsch, good bye.

OSCAR. Io e Annie (guarda la video recensione) vinse quattro Oscar, compreso quello per il miglior film. “La sera della premiazione suonavo a New York. Usai il concerto come scusa, ma non ci sarei andato neanche se fossi stato libero. Non mi piace che si diano premi in campo artistico. Film e libri non vengono creati per fare a gara gli uni con gli altri. La notte degli Oscar 1978 suonai meglio che potei, tornai a casa, dormii e la mattina dopo il “New York Times” annunciava che avevamo vinto quattro Oscar. Reagii come quando seppi dell’omicidio di Kennedy. Ci pensai per un minuto, finii la mia ciotola di cereali, andai alla mia macchina da scrivere e mi misi al lavoro”.

SUCCESSO. “Gli applausi non significano nulla. Anche gli elogi più sperticati non ti evitano l’artrite e il fuoco di Sant’Antonio”.


Una scena di Io e Annie (1977).

LAVORO. “Ai giovani filmmaker consiglio solo una cosa: lavorate a testa bassa. Non distraetevi. Godetevi il lavoro. E se non siete capaci di godervelo, fate qualcos’altro”.  

CIAK. Come lavora Woody Allen sul set? È un perfezionista? Quanti ciak ama fare? “Uno stand-in per preparare le inquadrature e, quando il direttore della fotografia ha sistemato le luci, dico allo stand-in che può andare a bersi una birra e prendo il suo posto. Non stiamo parlando di mandare un missile sulla Luna. Quando giro, faccio lunghi piani sequenza senza fare riprese extra. Non ce la faccio a rifare la stessa scena decine di volte. Preferisco andare a casa e vedere una partita di basket”.  

ATTORI. “Il mio segreto è stato sempre quello di prendere dei grandi attori e di lasciarli fare. Oltre che di staccare alle cinque del pomeriggio”.   ISTINTO. Uno dei più grandi direttori della fotografia con cui ha lavorato è Carlo Di Palma. E poche righe ci rivelano molto di come lavorassero insieme, con quale metodo: “A Carlo Di Palma piaceva arrivare sul set, annusare l’ambiente, andare a zonzo, e alla fine il suo istinto gli diceva come mettersi e come sistemare le luci. Ci trovavamo sul set, lui già con la sua birra in mano, e dopo che entrambi avevamo girovagato, gli chiedevo: Scusa, che scena dovevamo fare?”.    

ATTRICI / DIANE KEATON.  Sta per girare Provaci ancora, Sam. Si cerca la protagonista femminile. “Si presenta una provinciale amante dei mercati delle pulci, licenziata dal chiosco dei dolciumi di Orange County per essersi mangiata tutte le caramelle. Ma fu grande. Ci sono personalità che illuminano una stanza. La sua illuminava un viale. Adorabile, spiritosa, con uno stile tutto suo, autentica. Era anche trendy, se pensavi che una zampa di scimmia appuntata sul bavero del cardigan fosse chic…”.  

ATTRICI / SCARLETT. “Aveva solo diciannove anni quando fece Match Point, ma era già un’attrice entusiasmante, intelligente, svelta, spiritosa. E quando la vedevi di persona, dovevi farti largo attraverso i ferormoni. Non solo aveva talento e bellezza, ma sessualmente era radioattiva”.  

REGISTI / BERGMAN. “Mi invitò varie volte nella sua Fårö, ma declinai sempre. Lo veneravo: ma non al punto di prendere un trabiccolo per andare su un’isoletta dove c’erano solo pecore e si mangiava solo yogurt”.  

MANHATTAN. Avete presente l’inizio di Manhattan, con quel lungo meraviglioso monologo e i fuochi d’artificio alla fine della sequenza? “Durante le riprese venimmo a sapere che ci sarebbe stato uno spettacolo di fuochi d’artificio mai visto. Ci piazzammo a casa di un amico. Avemmo fortuna, e riprendemmo le immagini con cui inizia il film”.  


Una scena di Match Point (2005).

DIO. Si sottolinea sempre l’appartenenza di Woody alla cultura ebraica. E di Dio parla spesso, ma: “Ho sempre pensato che la religione fosse un grande imbroglio. Non ho mai creduto nell’esistenza di Dio, né che questi avesse una predilezione per gli ebrei, se mai fosse esistito”. Anche se, in Manhattan (guarda la video recensione) brilla questo dialogo fra Michael Murphy e Woody Allen: “Ma noi siamo persone, solo esseri umani, sai! Tu ti credi Dio!”. E lui: “Io… io… beh, a qualche modello dovrò pure ispirarmi!”.  

MACCHINA DA SCRIVERE. “Mio padre lavorava sulla Bowery, terra di ubriachi e ladri. Lo avvicinavano per strada offrendogli merce rubata. In cambio volevano solo di che pagarsi un bicchiere di whisky. In questo modo avemmo una macchina da scrivere Underwood a un dollaro e mezzo”. Per il futuro, userà sempre e solo una macchina da scrivere – passerà ad una Olympia. “Non possiedo un computer, non so cosa sia un programma di scrittura, non ho mai spedito una mail”.  

DOVE VIVE. Dove vive oggi Woody Allen? “In Io e Annie (guarda la video recensione) dovevo decidere in quale isolato vivevano i protagonisti, e ne scelsi uno alberato e fotogenico dell’Upper East Side. Adesso ci abito, sull’altro lato della strada dov’era la casa di Annie”.  

DISILLUSIONE. “Raggiungi una certa età e arrivi alla conclusione che la grandezza non è in te. O per mancanza di applicazione, di disciplina, o di genio, non hai raggiunto la grandezza. Non sogno più di fare un giorno Quarto potere o Ladri di biciclette (guarda la video recensione). Ormai sono rassegnato. Ho cercato di fare del mio meglio. Sfortunatamente, il mio meglio non è ciò di cui era capace Fellini”.  

IMMORTALITA’. “Invidio le persone che traggono conforto nel credere che le loro creazioni sopravvivranno e in qualche modo li renderanno immortali. L’inghippo è che tutti coloro che discutono le opere lasciate dall’artista sono vive e mangiano pastrami, mentre l’artista se ne sta in un’urna funeraria o sepolto nel Queens”.  

SVEGLIA. “La mia vita? È rovinata dalla consapevolezza che un giorno suonerà la sveglia e me ne dovrò andare. Una consapevolezza che mi toglie ogni serenità e che mi agita e angustia ogni giorno della mia esistenza, nell’attesa che suoni l’ora fatale”. Bergman approverebbe.


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