Genio folle e visionario, romantico e umanista, Werner Herzog è uno dei cineasti tedeschi più importanti della Storia del Cinema.
Produttore, sceneggiatore e regista di oltre sessanta lungometraggi e documentari che hanno costituito l'ossatura per una prolifica e variegata carriera come autore europeo indipendente, è una moderna anima umana, un assorbitore di mondi che, in qualche modo, ci restituisce modificati, cambiati, sul filo di una sorta di curiosa ricerca per tutto ciò che è Arte, Uomo contro Natura e Uomo contro il Mondo.
Descrive la sua passione per il cinema come un'urgenza della visione, puntata verso un obiettivo molto chiaro, dal quale non si discosta mai: mostrare storie di persone, immaginarie e reali, con sogni impossibili, spesso in circostanze estreme. Una missione che lo ha portato a guidare l'influente movimento cinematografico della Germania Ovest del Dopoguerra, il Nuovo Cinema Tedesco, con titoli caratterizzati da qualità surreali e sottilmente esotiche e venendo così salutato come uno dei Maestri contemporanei più innovativi del mondo.
Herzog ha avuto il grande merito di trasformare il mezzo filmico in una forma di esplorazione radicale dell'esistenza, spingendo i confini della finzione e del documentario in un'estetica filosofica segnata da un marchio autoriale inconfondibile, dove la natura ostile, la follia umana e il sublime si intrecciano in racconti di uomini ossessionati e solitari, spesso in lotta con forze più potenti di loro.
Girando in luoghi estremi e affrontando condizioni proibitive, ha reso il cinema un'esperienza fisica e metafisica, capace di interrogare il senso stesso di realtà poetiche e provocatorie, con una ridefinizione del linguaggio di genere e con l'uso di attori feticcio (Klaus Kinski, Bruno S., Eva Mattes) per generare alcuni dei ritratti più intensi e disturbanti del panorama cinematografico europeo.
Lo stile
La sua influenza ha attraversato generazioni e generi, rendendolo non solo un autore imprescindibile, ma un pensatore visivo, che ha elevato il cinema a forma di conoscenza.
Nel panorama del cinema mondiale, Werner Herzog rappresenta una figura liminale, un regista-filosofo che ha trasformato l'atto filmico in una forma di interrogazione esistenziale, con movimenti di camera distinti per una radicale tensione tra il reale e l'allucinato, tra il documento e la percezione, dove l'estetica è ontologica ancora prima che decorativa.
Ogni inquadratura è un varco verso l'invisibile, ogni paesaggio un teatro del magnifico, ma non al servizio di una bellezza formale, quanto dell'intensità dell'esperienza, registrando vibrazioni umane di fronte all'indifferenza della natura.
Spazi remoti, corpi in lotta, silenzi che diventano vertigini, il mondo herzoghiano è popolato da outsider, folli, eremiti che vengono seguiti dalla macchina da presa con una sobrietà febbrile, evitando virtuosismi. L'essenziale è ciò che cerca.
Persino nei documentari, estende queste sue peculiarità crude e spietate quando, aggrappati alla sua voce, entriamo in una grotta paleolitica o in un vulcano (questo elemento è vera e propria ossessione per Herzog), alla ricerca dell'Eterno tragico e cosmico dei viaggi nell'ignoto.
Le inquadrature non obbediscono a una grammatica convenzionale. Esse incarnano una visione del mondo in cui l'immagine diventa atto dottrinale. Campi lunghissimi su paesaggi ostili e sovrumani riducono l'uomo a figura marginale, rivelando una cosmologia anti-antropocentrica, mentre le inquadrature fisse e prolungate sospendono il tempo, trasformando la durata in esperienza contemplativa. Non mancano i dettagli enigmatici e gli oggetti fuori contesto, che emergono come epifanie dell'inutile, suggerendo che il senso si nasconde dove lo sguardo comune non indugia. Sempre nei documentari, lo sguardo diretto in macchina e la voce narrante accentuano la dimensione astratta dell'incontro, dove il movimento della camera, lento e intenzionale, esplora senza dover necessariamente descrivere.
Studi
Nato a Monaco di Baviera nel 1942 da due biologi, Werner Herzog è il nipote del filologo e archeologo Rudolf Herzog.
Cresciuto in un ambiente altamente scientifico assieme a due fratelli (tra i quali Hartwolf "Lucki" Stipetic, che lavorerà con lui come produttore) e una sorella (Sigrid Herzog, anche lei regista), vivrà per un lungo periodo (a causa dei bombadamenti di Monaco) nel villaggio di Sachrang, nell'Alta Baviera, non lontano dal confine con l'Austria. Poi, con il divorzio dei suoi genitori, si ritrasferisce con sua madre nella sua città natale, dove frequenta un liceo umanistico. Quando suo padre si risposerà, sceglierà di vivere con lui a Wüstenrot, vicino a Heilbronn, iscrivendosi al Theodor-Heuss-Gymnasium Heilbronn.
Convertitosi al cattolicesimo a quattordici anni (salvo poi diventare completamente ateo negli anni successivi), nel 1956, attraversa la Jugoslavia e la Grecia ancora minorenne, partendo poi per Manchester a soli diciassette anni. Tornato a casa, per un breve periodo vive in una pensione con Klaus Kinski, che già si distingueva per la sua eccentricità.
Sta ancora studiando al liceo, quando accetta di lavorare come saldatore in una fabbrica d'acciaio, coprendo i turni notturni. Una volta terminati gli studi al Maximiliansgymnasium di Monaco, si iscrive all'Università della città, seguendo i corsi di storia, letteratura, teatro e cinema. Brillante studente universitario, ottiene una borsa di studio del Fulbright-Programm, che gli farà frequentare per una settimana una serie di seminari cinematografici alla Duquesne University di Pittsburgh, negli Stati Uniti.
I cortometraggi
Intanto, già nel 1962, firma i suoi primi cortometraggi. Comincia con Ercole, una rivisitazione del mito greco attraverso immagini di culturisti impegnati nel potenziamento del loro corpo, alternate a varie scene di repertorio che dovevano richiamare le celebri fatiche dell'eroe.
Seguirà nel 1964, Gioco sulla sabbia, mai distribuito per stessa volontà del regista, che lo considerava un tentativo malriuscito di fare cinema. Sono gli anni in cui i cortometraggi gli permetteranno di esprimersi meglio e di approcciarsi al mezzo cinematografico, sperimentando sulla loro forma breve tensioni estetiche e filosofiche, che poi attraverseranno tutta la sua opera.
In questi lavori, avrà infatti occasione di esplorare l'immagine come atto di rivelazione, privilegiando inquadrature fisse, paesaggi e dettagli enigmatici, anche sfidando la logica narrativa tradizionale e in piena assenza di compromessi produttivi, che gli faranno già degustare la piena ed estrema libertà formale.
Opere marginali e dai mezzi minimi, che riveleranno la matrice profonda del suo stile, come La difesa esemplare della fortezza di Deutschkreutz (1966), una satira sullo stato di guerra e di pace incentrata su quattro ragazzi che, dopo aver trovato divise e armi abbandonate, giocano "alla guerra" nel disabitato castello di Deutschkreutz. Ma sono da citare anche Ultime parole (1967), girato due giorni a Creta e sull'Isola di Spinalonga, durante la lavorazione del suo primo lungometraggio, che narrerà di un anziano suonatore di cetra che si rifiutava di lasciare Spinalonga e rimanendone il suo unico abitante. Qui, si farà molto più evidente uno degli aspetti tipici del suo cinema: il protagonista in conflitto con la società che viene sconfitto dagli eventi. Un'anticipazione di un lungo elenco di personaggi herzoghiani.
A questi si aggiunge nel 1969 Provvedimenti contro i fanatici, girato prima di un viaggio in Africa e composto da una serie di brevi interviste a fantini che discutono sui mezzi per "proteggere i cavalli dai fanatici". Poi, dopo una lunga pausa, tornerà sporadicamente a questo genere di piccole produzioni, firmando Nessuno vuole giocare con me (1976) e alcuni episodi di progetti più grandi ("Ten Thousand Years Older" del film Ten Minutes Older - The Trumpet del 2002 e "O soave fanciulla" del film Opera Shorts del 2009).
Nel 2025, ritorna al genere con il poetico Ghost Elephants (2025), nel quale segue un branco di elefanti fantasma sulle montagne dell'Angola, conducendoci lungo una presa di coscienza dell'estinzione animale.
Il debutto cinematografico
Il debutto nel lungometraggio è segnato nel 1968 con Segni di vita, ispirato a "Il folle invalido di Fort Ratonneau" dello scrittore settecentesco Achim von Arnim e ambientato su un'isola greca durante la Seconda Guerra mondiale, dove un soldato tedesco (Stroszek) impazzisce dopo essere stato incaricato di sorvegliare da solo un deposito di munizioni in un vecchio castello dell'Isola di Kos.
La critica europea apprezzerà il film per le sue atmosfere, ma soprattutto per la tensione tra immobilità e delirio, nonché per un uso visionario del paesaggio come specchio della mente, anticipando molti temi del futuro come la solitudine, la follia e il rapporto tra uomo e natura.
La Trilogia Africana
Ancora più folgorante sarà Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970), su un gruppo di nani che vivono in una sorta di prigione in una terra lontana e che, stanchi della loro condizione, si ribellano ai loro guardiani. Girato con attori non professionisti, il suo secondo film è un'opera grottesca, in bianco e nero, fortemente politica e di critica sociale, nonché primo tassello di una trilogia tratta da un suo lungo viaggio nel continente africano, avvenuto tra il 1969 e il 1970.
Una triade di opere all'interno delle quali Herzog ci dice che siamo in un microuniverso isolato, a nostra misura, ma animati esclusivamente da azioni disfattiste e ribellioni e, quindi, da un'umanità che sa solo andare contro se stessa e ciclicamente destinata a distruggersi.
Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs al 23° Festival di Cannes, il film non ebbe grande seguito e lo stesso regista fu costretto ad affittare le sale in cui proiettarlo. Oggi, è però considerato un cult, oltre che una delle sue opere più importanti.
A proseguire la trilogia ci sono I medici volanti nell'Africa orientale (1969) e soprattutto Fata Morgana (1971), quest'ultimo diviso in tre capitoli e che si ispira liberamente a un testo sacro guatemalteco. Girato nel Sahara meridionale, in Tanzania, in Kenya, alle Canarie e nel Golfo di Guinea (non senza qualche difficoltà perché Herzog e il suo cameraman, Jörg Schmidt-Reitwein, vennero arrestati più volte), il film (privo di una vera e propria trama) è il risultato di un montaggio documentaristico di sequenze filmate, accompagnate da commenti che non seguono un ordine consequenziale.
Medesimi scenari, quindi, ma configurati come opere radicalmente singolari, refrattarie a ogni classificazione e a ogni decodifica tradizionale. Volutamente, Herzog si sottrae alla linearità narrativa, affidandosi a una struttura ipnotica che lascia lo spettatore immerso in un flusso visivo e concettuale da interpretare autonomamente. Opere punteggiate da sequenze di profonda intensità emotiva e da composizioni visive di rara potenza simbolica, dove il paesaggio e l'umano si confrontano in un dialogo muto e inquietante. L'impressione complessiva è quella di un tre realtà intrise di disincanto, nelle quali si mette in discussione la condizione umana e si condanna con durezza l'agire degli uomini. Da un punto di vista teorico, il film si presenta come una meditazione visiva sull'entropia e sull'illusorietà della civiltà.
I film con Klaus Kinski
Nel 1972, arriva però il suo primo successo commerciale, il bellissimo Aguirre, furore di Dio, incentrato su uno dei suoi primi uomini maledetti. Spinto dal miraggio di El Dorado, Gonzalo Pizarro invia una spedizione oltre le Ande guidata da Don Pedro de Ursua e dal suo vice, Lope de Aguirre, i quali, travolti dalla natura ostile e dalla guerriglia indigena, precipitano nel caos della mente. Un caos nel quale Aguirre, consumato dalla follia e dall'ambizione, prende il comando, si ribella alla corona spagnola, conducendo l'impresa verso una deriva solitaria e delirante. Interpretato da Klaus Kinski (con il quale inaugura una fortunata collaborazione cinematografica, nonostante i furiosi litigi e le difficoltà di produzione), è uno dei suoi film più famosi e importanti, dove la natura ha un ruolo oppressivo e minaccioso fin dalle prime scene, concepite al limite del documentaristico iperrealistico che però, paradossalmente, segna anche uno scollamento della realtà da parte del protagonista.
Epico e tragico, corrosivo contro ogni sovrastruttura, è un titolo sul decadimento, che gli portò un grande successo di critica e fu fonte di ispirazione per Francis Ford Coppola e Terrence Malick. Personalità ammaliate da questa allegoria corrosiva, girata in condizioni estreme nella giungla peruviana, che intende farsi riflessione sulle derive coloniali, sulle ideologie suprematiste e sull'uso distorto della religione, affidandosi quasi esclusivamente alla capacità interpretativa dello spettatore, chiamato a decifrare un saggio visivo di critica storica senza il supporto di un discorso esplicito. Un cult che è cinema della sottrazione, dove il silenzio e l'immagine sostituiscono la parola, e la metafora si fa labirintica.
Nel 1979, sceglierà ancora Kinski per osare l'inosabile: realizzare un remake del Nosferatu di Murnau. Arriva sui grandi schermi Nosferatu, il principe della notte, considerata la pellicola più importante mai prodotta in Germania, simbolico collegamento tra il grande cinema tedesco espressionista e il nuovo cinema tedesco.
Rispettando fedelmente le vicende narrate nel film originale, ma presentando un Conte Orlok più malinconico, il Nosferatu di Herzog è un rifacimento audace e lirico, che si distacca dalla tradizione gotica per abbracciare una visione esistenziale del mito del vampiro. Una meditazione sul distacco e sulla solitudine, accentuata da una regia ipnotica. L'horror, con il suo ritmo contemplativo e la sua recitazione ieratica (magnifica anche Isabelle Adjani), supera i confini del genere e si inserisce nella grande tradizione del cinema europeo d'autore, dove il terrore diventa poesia di oscuro romanticismo.
Lo stesso anno, proporrà anche Woyzeck, rilettura del dramma di Georg Büchner, ispirata a un caso giudiziario ottocentesco. Un'altra vertiginosa discesa nella fragilità mentale e nell'emarginazione sociale. Ambientato in una cittadina tedesca di metà Ottocento, il film segue il soldato Franz Woyzeck, figura mite e riflessiva, costretta a sopravvivere tra umiliazioni quotidiane, esperimenti medici disumanizzanti e tradimenti affettivi. Girato in tempi ristrettissimi, sempre con Klaus Kinski in uno stato di tensione costante e con una Eva Mattes premiata a Cannes per la sua interpretazione, Woyzeck si impone come un'opera di intensa forza drammatica, accentuata nel suo senso di oppressione e smarrimento, per elevare una visione claustrofobica e allucinata, dove l'uomo scivola lentamente verso la confusione mentale. La critica del tempo riconobbe un esempio di cinema psichico e visionario, capace di tradurre la tragedia individuale in una riflessione universale sull'abbandono e sulla perdita di senso.
E quando si pensava che non potesse fare meglio, arrivò Fitzcarraldo nel 1982, una parabola epica sull'ossessione visionaria, ambientata nel cuore dell'Amazzonia, dove il protagonista, Brian Sweeney Fitzgerald, sogna di edificare un tempio lirico nel mezzo della giungla e di inaugurarlo con la voce di Caruso. Ispirato alla figura storica di Carlos Fitzcarrald, è un titolo sul desiderio che sfida il limite, dove il denaro non è fine ma strumento, e l'arte musicale (e non) si configura come viadotto tra civiltà e natura. Il protagonista (Kinski), l'idealista incrollabile al confine con la follia, si contrappone agli altri imprenditori della città, che ostentano ricchezza ma rifiutano il suo sogno. La regia di Herzog, che ha affrontato una lavorazione estenuante durata quattro anni, trasforma l'impresa cinematografica in un atto di resistenza poetica. Come in Aguirre, la giungla è ancora una volta antagonista e teatro dello straordinario, ma qui con l'arte come veicolo di riconciliazione. Un elogio della tenacia creativa, dove il gesto impossibile (far salire una nave su una montagna) diventa traslazione del cinema stesso.
Ma Kinski (al culmine della sua intensità) è ancora presente nella trasposizione del romanzo "Il viceré di Ouidah" di Chatwin Bruce, reintitolato Cobra Verde del 1987, un affresco crudele e barocco sul potere, la schiavitù e la rovina dell'ambizione. Seguendo le gesta di Manoel da Silva, detto Cobra Verde, fuorilegge temuto e manipolatore, che viene incaricato di riattivare il traffico di schiavi in una terra dominata da un sovrano folle, Herzog mette in scena un'apologia sul colonialismo e sull'avidità, dove il protagonista incarna la furia cieca del dominio e del potere. Girato in condizioni estenuanti e segnato da tensioni insanabili tra regista e attore, rappresenta l'ultimo capitolo del loro sodalizio artistico, chiuso tra conflitti e reciproca ossessione. La regia di Herzog, visionaria e spietata, trasforma la storia in un altro rituale di decadenza, dove la magnificenza visiva si intreccia con il disfacimento morale e il paesaggio africano diventa teatro di una tragedia senza redenzione.
I film con Bruno S.
Parallelamente a Kinski, c'è però un altro attore al quale Herzog si affida per un buon numero di film: Bruno S..
Pittore e musicista tedesco, Bruno S. diventa il simbolo di un altro tipo di uomo, polo opposto a Klaus Kinski nella sua antropologia cinematografica. Se da un lato abbiamo la furia prometeica, dall'altro abbiamo la vulnerabilità dell'innocente, l'uomo puro, disarmato, marginale, incapace di comprendere le regole del mondo che lo circonda, e per questo tragicamente esposto alla sua violenza. Un martire silenzioso che subisce la tortura, a cominciare da L'enigma di Kaspar Hauser (1974), una delle opere più intense e meditate del regista tedesco, in cui la vicenda reale di un giovane misterioso ritrovato in una piazza di Norimberga nel 1828 diventa accusa contro la brutalità sociale. Presentato con successo al Festival di Cannes del 1975, il film ripercorre fedelmente la storia di Kaspar Hauser, utilizzando documenti autentici e personaggi storici, e trasforma il protagonista nel primigenio simbolo d'innocenza ferita. La regia sobria, l'uso della musica barocca e la recitazione spiazzante di Bruno S., che visse sul set in uno stato di immedesimazione totale, contribuiscono a creare un'opera che non cerca il realismo psicologico ma una verità più profonda, dove il linguaggio, la pietà e la violenza si intrecciano senza alcuna possibilità di slegarsi. Vertice del cinema d'autore di quegli anni, fu capace di trasformare una cronaca ottocentesca in una meditazione sull'alterità e sull'inesorabile distanza tra l'individuo e la società.
Nel 1976, propose Bruno S. nell'aspro Cuore di vetro, scritto da Herbert Achternbusch e opera herzoghiana fra le più enigmatiche e radicali. Ambientata in una Baviera settecentesca, immersa nella nebbia e nel disfacimento, la storia pone al centro della narrazione un villaggio che ruota attorno a una vetreria ormai in declino, dove la morte del maestro vetraio, che ha portato con sé il segreto della creazione del vetro rubino, ossessiona tutti fino a spingerli alla violenza e al sacrificio umano. Celebre per l'uso dell'ipnosi sul cast (la maggior parte degli attori recita in stato alterato, con dialoghi improvvisati e movenze straniate), usa un linguaggio cinematografico nuovo e perturbante e si configura come una ballata nordica, intrisa perdita di verità. La critica internazionale la interpretò come una riflessione sulla fine del sapere e sull'abisso della coscienza.
Ancora più amaro fu invece La ballata di Stroszeck (1977), industriale e surreale pellicola sull'emarginazione e sul fallimento del sogno americano, costruita attorno alla figura di Bruno Stroszek, un uomo fragile e disadattato che, dopo un periodo in carcere, tenta di rifarsi una vita emigrando negli Stati Uniti con una prostituta e un eccentrico anziano. In un intreccio indistinguibile tra biografia e finzione (dove gli oggetti, gli ambienti e persino i nomi dei personaggi coincidono con quelli degli interpreti, conferendo al film un tono documentaristico e una verità emotiva disarmante), fa leva su una regia asciutta e sull'uso di ambientazioni autentiche per aumentare la sensazione di spaesamento e di deriva. Una visione grottesca e malinconica, dove il viaggio non conduce alla salvezza ma all'assurdo. Il pubblico, così come la critica, riconobbe nel film l'ironia tragica e la capacità di decantare la marginalità epica.
Altri film
Ci sono stati poi film firmati da Herzog che si ricollegano alla sua narrativa cinematografica, amplificandone l'universo audiovisivo, come Dove sognano le formiche verdi (1984), scritto con Bob Ellis, attenta analisi sul conflitto tra civiltà, ambientata nel deserto australiano e ispirata a una storica controversia legale tra una compagnia mineraria e le comunità aborigene. Presentato al Festival di Cannes, si distinse per il suo approccio meditativo sul mito, sul tempo e sull'invisibile, dove la semplicità dei gesti aborigeni rivelava una consapevolezza profonda e misteriosa, in netto contrasto con la superficialità tecnologica dell'Occidente. Elogiato per la sua capacità di elevare un tema politico a visione metafisica, diventa emblema di un sapere arcaico e di una resistenza silenziosa contro l'omologazione. A questo si aggiunge Grido di pietra (1991), dramma alpino che ruota attorno alla scalata del Cerro Torre, vertiginosa vetta patagonica contesa tra due visioni opposte dell'alpinismo: quella eroica e contemplativa e quella spettacolare e agonistica. Ispirato a una vicenda reale e ideato da Reinhold Messner, il film mette in scena una sfida tra orgoglio e ambizione, dove la montagna è teatro di vanità, morte e illusioni. Accolto freddamente dalla critica e contestato dagli ambienti alpinistici per la sua rappresentazione poco credibile del mondo della scalata, Herzog stesso ha dichiarato di non sentirlo come un'opera propria, e in effetti Grido di pietra manca della tensione metafisica e del respiro visionario che caratterizzano i suoi lavori più personali.
Ritornerà al cinema narrativo dopo una lunga parentesi documentaristica con Invincible, diretto nel 2001 e liberamente ispirato alla vita di due figure storiche: il forzuto Siegmund Breitbart e l'illusionista Erik Jan Hanussen. Ambientanto nella Berlino degli Anni Trenta, alla vigilia dell'ascesa nazista, il film racconta la vita di Zishe Breitbart, uomo semplice e dotato di forza straordinaria, che viene trasformato in Siegfried, simbolo ariano e "uomo più forte del mondo", mentre Hanussen (interpretato da un magnetico Tim Roth) lo introduce nel mondo dell'occulto. La vicenda, pur basata su eventi reali, è rielaborata in chiave spirituale. Presentato alla Mostra di Venezia nel 2001, il film si distingue per la sua ambientazione idealizzata degli shtetl ebrei, per l'enfasi sulla dimensione mistica più che politica. La regia abbandona le consuete eccentricità herzoghiane per uno stile più classico e didascalico. La critica ha accolto l'opera con reazioni contrastanti: da un lato ne ha apprezzato la profondità emotiva e dall'altro ha rilevato una certa piattezza visiva e una costruzione narrativa più convenzionale rispetto ai lavori precedenti. Favola tragica sull'identità, il potere e la resistenza, è un emblema archetipico di un mondo sull'orlo del baratro. Pur lontano dalla cifra stilistica più estrema di Herzog, Invincible conserva comunque una tensione sotterranea tra inquietudine e grazia, e arricchisce la sua galleria di outsider con figure potenti e fragili, sospese tra mito e storia.
Nel 2005, presenta alla Mostra del Cinema di Venezia il più audace tra gli organismi cinematografici geneticamente modificati: L'ignoto spazio profondo. Un ibrido radicale con corpo documentario, testa fantascientifica e mente psichedelica, che convivono in un esperimento visivo che sfida ogni convenzione. Narrato da un alieno malinconico (Brad Dourif) che racconta la fuga fallita della sua civiltà e l'impossibile integrazione con gli umani, mentre una navetta spaziale terrestre, condannata all'esilio, cerca un nuovo mondo su cui sopravvivere, L'ignoto spazio profondo costruisce un doppio piano narrativo. Viaggio interstellare degli astronauti (illustrato con immagini reali della missione STS-34 della NASA e da riprese subacquee sotto i ghiacci antartici) e monologo dell'alieno, che si trasforma in una furiosa invettiva contro il consumismo globale e la follia della normalità. Herzog manipola quindi il materiale d'archivio con ironia e potenza visionaria, attribuendo nuovi significati a ciò che era nato come documento scientifico, e crea un fanta-docu che è anche meditazione mistica sul tempo, sulla rovina ecologica e sull'irreversibilità del destino umano. La critica ha oscillato tra entusiasmo e perplessità. Alcuni lo hanno definito un requiem poetico per il pianeta morente, altri un esercizio velleitario e sconnesso, tecnicamente fragile ma concettualmente ambizioso. Lo stesso regista lo ha considerato come la chiusura ideale di una trilogia iniziata con Fata Morgana e Apocalisse nel deserto, accomunata da un linguaggio libero e da una tensione escatologica. In questo film, ogni immagine interfaccia due mondi o più, ogni volo dell'immaginazione è non solo possibile, ma altamente probabile. E se la Terra, ridotta a parco naturale, diventa meta turistica per lavoratori interplanetari, allora l'opera è anche una favola filosofica, un'odissea ecologica, un sogno lucido che Herzog ci consegna con la consapevolezza di chi sa che il cinema può ancora essere poesia, profezia e delirio.
Il periodo americano
L'anno seguente, dirigerà Christian Bale nel dramma bellico ispirato alla vera storia del pilota Dieter Dengler, L'alba della libertà, che segna la prima collaborazione del regista con una produzione hollywoodiana, esperienza che si rivelò conflittuale. Dopo l'uscita, la pellicola fu contestata da familiari e sopravvissuti, in particolare per l'enfasi posta su Dengler come unico artefice della fuga, quando in realtà il piano era già stato elaborato da altri prigionieri. Nonostante queste controversie, L'alba della libertà si impone come una riflessione sulla sopravvivenza e la solitudine dell'eroe, filtrata attraverso lo sguardo di Herzog, che pur operando in un contesto produttivo estraneo, conserva la sua tensione verso l'essenziale, il crudo e il tragico.
Non fece felice Abel Ferrara quando decise di girare il remake del suo capolavoro Il cattivo tenente, Il cattivo tenente - Ultima fermata New Orleans (2009), interpretato da Nicolas Cage ed Eva Mendes. Un noir grottesco e allucinato che reinventa il poliziesco americano attraverso la figura di Terence McDonagh, tenente della Squadra Omicidi di New Orleans, tossicodipendente e moralmente ambiguo, impegnato in un'indagine su un massacro familiare legato al narcotraffico. Sebbene presentato come un rifacimento del film di Ferrara del 1992, Herzog ha sempre negato ogni continuità, rivendicando l'autonomia del suo progetto, ambientato nel sud post-Katrina e privo di ossessioni religiose. La produzione hollywoodiana, favorita dalla reputazione artistica del regista e dal coinvolgimento di Cage a compenso ridotto, ha lasciato che il film si distinguesse per il suo tono parodico e visionario e la regia, pur più convenzionale, conservasse inserti animaleschi e derive surreali. Anche in questo caso, la stampa ha reagito in modo ambivalente. In tanti, hanno visto un capolavoro di umorismo nero e una riflessione sul degrado morale, mentre altri lo hanno giudicato piatto e scolastico, lontano dalla radicalità del cinema di Ferrara. In ogni caso, Il cattivo tenente di Herzog è un'operazione di decostruzione del genere, una fiaba sporca e delirante, dove il thriller diventa macchina culturale e il protagonista un angelo caduto in cerca di redenzione tra cocaina, scommesse e fantasmi. Lo stesso anno, firma anche My Son, My Son, What Have Ye Done (2009), prodotto da David Lynch. Un thriller psicologico ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto a San Diego nel 1979, in cui un giovane attore uccise la madre con una sciabola antica, confondendo il ruolo teatrale con la realtà. Herzog trasfigura questa vicenda in una narrazione frammentata e allucinata, dove uno straordinario Michael Shannon si barrica in casa dopo il matricidio, mentre la polizia cerca di ricostruire le ragioni del gesto attraverso flashback e testimonianze. Il film che non cerca suspense né spiegazioni razionali, ma costruisce un puzzle inquieto che fonde tre piani (psicologico, cronologico e fenomenologico), permettendo a Herzog di mantenere intatta la sua capacità di trasformare ogni ambiente in una mappa mentale, dove anche il mito antico si intreccia con la nevrosi postmoderna. Accolto con reazioni contrastanti, resta un'opera emblematica della doppia anima herzoghiana, dove ogni dettaglio, dai cromatismi messicani alle distorsioni visive, contribuisce a un altro racconto di delirio sul confine.
A chiudere i suoi ultimi lavori sul cinema narrativo ci sono: Queen of the Desert (2015), Salt and Fire (2016) e Family Romance LLC (2019). Il primo, con Nicole Kidman, James Franco, Damian Lewis e Robert Pattinson, è un biopic epico e contemplativo dedicato alla figura di Gertrude Bell, esploratrice, archeologa e diplomatica britannica, attiva in Medio Oriente agli inizi del Novecento. Il film racconta la sua vita con uno sguardo che evita il melodramma hollywoodiano, preferendo una narrazione rarefatta e visivamente sontuosa, dove il paesaggio desertico diventa protagonista/specchio interiore della Bell. La critica europea ha riconosciuto alcuni tratti distintivi dell'autore, pur accusandolo di freddezza emotiva. Il secondo titolo, basato sul racconto "Aral" di Tom Bissell, è un eco-thriller filosofico ambientato nel deserto boliviano, dove la catastrofe ambientale si intreccia con un'ambizione concettuale che trabocca nella bellezza visiva e nella consueta capacità di trasformare il paesaggio in altro, costruendo un racconto rarefatto di visioni e interrogativi esistenziali. Infine, Family Romance, LLC, girato interamente in Giappone con attori non professionisti, è un'opera minimale e perturbante che esplora il confine tra realtà e finzione, affetti e simulazione. Al centro della narrazione c'è un uomo che lavora per un'agenzia specializzata nell'affitto di figure familiari e che rappresenta pienamente lo sguardo discreto e inquieto di Herzog verso un mondo in cui l'amore diventa servizio, la presenza si compra, e la solitudine si colma con la recitazione. Uno stile quasi documentaristico, che riflette sulla natura dei legami umani nell'epoca dei social network e della rappresentazione continua, ponendo domande profonde sulla verità emotiva e sull'identità, dove ogni gesto è duplicabile e ogni ruolo intercambiabile.
I documentari per il piccolo schermo
Tanti anche i documentari televisivi (Futuro impedito, La predica di Huie, Fede e denaro), fino alla serie documentaria prodotta da Cinéma Cinémas e al suo episodio dedicato alla storica, critica e teorica cinematografica Lotte Eisner ("Werner Herzog filme Lotte Eisner" del 1982), che viene intervistata proprio da Herzog e viene descritta come figura centrale nella memoria del cinema europeo, l'ultima "coscienza universale" della Settima Arte, perché testimone diretta di tutta la sua evoluzione (da Méliès a Ejzenštejn, da Chaplin a Lang passando per Murnau) che, nel contesto del Nuovo cinema tedesco degli Anni Ottanta, viene riconosciuta come ponte vivente tra l'epoca d'oro degli anni Venti e la rinascita contemporanea. Non meno importante sarà Gasherbrum - Der leuchtende Berg (1984), documentario intimo e contemplativo sulla spedizione alpinistica di Reinhold Messner e Hans Kammerlander ai Gasherbrum I e II, nel Karakorum. Più che sugli aspetti tecnici dell'impresa (una traversata in stile alpino mai tentata prima) Herzog si concentra sulle dimensioni psicologiche e interiori, in particolare sul vissuto di Messner, segnato dalla morte del fratello sul Nanga Parbat. Il film alterna interviste e riprese paesaggistiche, alcune realizzate dagli stessi alpinisti (poiché Herzog fu costretto a fermarsi a 6500 metri per mal di montagna). Girato in 16 mm, Gasherbrum è un viaggio nell'anima dell'alpinismo, dove la montagna diventa specchio di paure, memorie e desiderio di trascendenza.
Ci sarà poi la denuncia dell'infanzia violata e della brutalità della guerra in La ballata del piccolo soldato (1984), girato in Nicaragua durante la guerra civile e incentrato sulla tragica realtà dei bambini soldato, arruolati nei gruppi Contras in lotta contro il FSLN. Uno sguardo diretto e senza retorica che si trova anche nell'episodio "Les Gauloises" (1988) per la miniserie Le Français vus par, Wodaabe - I pastori del sole (1989) e Jag Mandir: Das excentrische Privattheater des Maharadscha von Udaipur (1991), che descrive lo spettacolo ideato dal regista André Heller su invito del maharajah di Udaipur. Un evento concepito come un inventario vivente della cultura indiana, che intendeva preservare le tradizioni locali minacciate dall'omologazione occidentale.
A questi titoli si aggiunto anche: Lezione di cinema (1991); Die Verwandlung der Welt in Musik (1994); Gesualdo - Morte per cinque voci (1995); la versione accorciata di Little Dieter Needs to Fly, suo documentario del 1997, intitolato Flucht aus Laos (1998); Julianes Sturz in den Dschungel (1998); l'episodio "Demoni e cristiani nel nuovo mondo" (2000) della serie 2000 Jahre Christentum; e il molto citato On Death Row (2012), serie televisiva in quattro episodi che esplora le storie di condannati a morte rinchiusi in carceri di massima sicurezza in Texas e Florida (James Barnes, Hank Skinner, Linda Carty, Joseph Garcia e George Rivas), con il suo stile sobrio e interrogativo, indagando sulla dimensione umana e morale della pena capitale.
I mediometraggi
Un posto speciale tra i mediometraggi documentaristici lo occupano invece opere come La grande estasi dell'intagliatore Steiner (1974), How Much Wood Would a Woodchuck Chuck (1976), La Soufrière (1977) e From One Second to the Next (2013).
La grande estasi dell'intagliatore Steiner è dedicato al campione svizzero di volo con gli sci Walter Steiner, medaglia d'oro nel 1972 e 1977, detentore di un record mondiale imbattuto per cinque anni, nel quale si alternano riprese a velocità variabile e momenti di sospensione sonora; mentre How Much Wood Would a Woodchuck Chuck esplora il mondo delle aste di bestiame negli Stati Uniti con curiosità antropologica, trasformando un evento commerciale in un rituale verbale. Ci sono poi La Soufrière (1977), girato a Guadalupa durante l'imminente eruzione del vulcano La Soufrière, che è stato forse il film più rischioso di Herzog, e From One Second to the Next (2013), breve documentario commissionato per sensibilizzare sul pericolo dell'uso del cellulare alla guida.
I documentari
Un posto a parte occupano i documentari cinematografici, uno dei generi più visitati da Herzog a partire dal 1971 con l'intenso e umanistico Paese del silenzio e dell'oscurità (1971), presentato alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes, che segue una donna sordo-cieca, divenuta tale dopo un trauma infantile, che cerca di comunicare con il mondo e con altri che vivono nella sua stessa condizione attraverso gesti, tatto e memoria. Il regista tedesco entra in contatto diretto con i confini estremi della percezione e della solitudine e medita sulla dignità e sulla bellezza del mondo invisibile, anticipando molte delle tematiche che Herzog svilupperà in opere di altri generi.
Di enorme forza visiva e di coraggioso impatto politico è invece Echi da un regno oscuro (1990) che affronta la figura controversa di Jean-Bédel Bokassa, ex-dittatore della Repubblica Centrafricana. Girato mentre Bokassa era in prigione, avrebbe dovuto includere anche un'intervista diretta, autorizzata sia dall'ex imperatore che dal presidente Kolingba, ma Herzog e la sua troupe furono arrestati ed espulsi prima di raggiungere il carcere. Rimane un ritratto obliquo, dove la realtà storica si fonde con la leggenda e dove il dittatore emerge come figura mostruosa e quasi mitologica, paragonata da Frédéric Strauss a Gilles de Rais.
La Prima Guerra del Golfo è invece immortalata in Apocalisse nel deserto (1992), definito dalla critica europea un poema epico sulla distruzione, nel quale il fuoco, il petrolio e il silenzio compongono un assaggio della fine del mondo, un teatro cosmico della guerra e un vero e proprio requiem per l'umanità. Più mistico Rintocchi dal profondo (1993), sulla religiosità russa, tra miracoli, superstizioni e paesaggi innevati, dove il figlio di Herzog, Rudolph Herzog, collabora come aiuto-regista. C'è poi il già citato Little Dieter Needs to Fly, racconto della prigionia e della fuga del pilota Dieter Dengler, figura centralissima della narrativa herzoghiana, legata all'eroe nietzschiano capace di attraversare l'abisso.
Nel 1999, si dedica invece a un'altra figura centrale del suo cinema, Klaus Kinski, con Kinski, il mio nemico più caro, documentario-confessione con cui Werner Herzog ripercorre il suo tumultuoso rapporto con l'attore geniale e distruttivo, tornando nei luoghi condivisi per raccontare una relazione segnata da furia, estasi e dipendenza creativa. Lodato per la sincerità brutale del racconto, il tono elegiaco e ironico e la capacità del regista di trasformare un conflitto personale in una riflessione sul cinema come spazio di follia, intensità e visione, è un doppio ritratto, dove l'odio diventa amore e la collaborazione un campo di battaglia sacro.
Esce invece nel 2003 il contemplativo Kalachakra, la ruota del tempo sulla cerimonia buddhista del Kalachakra, tenutasi a Bodh Gaya, in India, e a Graz, in Austria, alla presenza del Dalai Lama, un rito di iniziazione, centrato sulla creazione e distruzione di un ma??ala di sabbia, simbolo della transitorietà e della ricerca dell'illuminazione e, quindi, anche riflessione sul vuoto e sull'equilibrio interiore. L'anno successivo, è la volta dell'indimenticabile resoconto dell'avventura del regista e dell'ingegnere aerospaziale Graham Dorrington a bordo del dirigibile White Diamond (per l'appunto White Diamond), con cui hanno sorvolato il Guyana. Un inno alla natura e alla fragilità del sogno umano. Definito un capolavoro, è stato accostato a Grizzly Man (2005), docudramma costruito attorno alla figura di Timothy Treadwell, attivista ecologista e autodidatta, che per oltre un decennio visse tra gli orsi grizzly in Alaska, filmando la sua esperienza fino alla tragica morte, avvenuta nel 2003 insieme alla compagna Amie Huguenard, sbranati da uno degli animali che tanto amava. Attratto dalla natura ossessiva e visionaria del protagonista, perfettamente in linea con gli archetipi di eroi folli e autodistruttivi che popolano il suo cinema, Herzog dimostra qui tutta la sua glaciale professionalità, restituendoci ammonimenti e specchi elegiaci dell'umano.
Nel 2007, si sposta in Antartide con Encounters at the End of the World, affascinandoci con riprese subacquee sotto i ghiacci realizzate dal suo amico Henry Kaiser e indagando geograficamente sull'ecologia, tanto da venire candidato all'Oscar per il miglior documentario. Lavorerà con Dmitry Vasyukov in Happy People: A Year in the Taiga (2010), sulla quotidianità degli abitanti del villaggio di Bakhtia, nella Taiga siberiana, celebrando la semplicità, la resilienza e il rapporto profondo con la natura, mentre tornerà indietro nella storia con Cave of Forgotten Dreams (2010), documentario in 3D con cui esplora la grotta di Chauvet Pont d'Arc, nell'Ardèche francese, che custodisce i più antichi dipinti rupestri conosciuti, risalenti a oltre 30.000 anni fa. Il cineasta, scelto come unico regista autorizzato a visitarla, filma con una cinepresa costruita appositamente per non danneggiare il patrimonio storico-artistico, restituendo la tridimensionalità delle figure che si fondono con i rilievi della roccia. Una vera e propria provocazione poetica: usare la tecnologia più avanzata per catturare l'arte più antica.
Seguiranno: il compassionevole Into the Abyss (2011) su Michael Perry e Jason Burkett, condannati rispettivamente alla pena di morte e all'ergastolo, nei giorni che precedono le loro sentenze; Lo and Behold - Internet: il futuro è oggi (2016), dieci capitoli dentro il mondo digitale contemporaneo, interrogandosi su cosa sia Internet, che ruolo abbia nelle nostre vite e quale futuro ci stia preparando (dalla robotica all'hacking, dalle dinamiche sociali ai nuovi fenomeni psicologici, proponendosi addirittura per una spedizione su Marte); il geologico Dentro l'inferno (2016) dove, affiancato dal vulcanologo Clive Oppenheimer, viaggia nel legame profondo tra l'umanità e i vulcani (dalle origini della specie alle moderne crisi aeree causate dalle nubi di cenere); e il politico Herzog incontra Gorbaciov (2018), co-diretto con André Singer, che tra complicità e umorismo, scava negli angoli meno noti della vita dell'ex presidente russo, umanizzando la sua figura storica; il letterario Nomad - In cammino con Bruce Chatwin (2019) nel quale si rende omaggio all'amico scrittore Bruce Chatwin, partendo dal dono simbolico del suo zaino; e Fireball - Messaggeri dalle stelle (2020), ancora con Clive Oppenheimer, che approfondisce il mistero e l'origine dei meteoriti attraverso un viaggio tra scienza, mitologia e tradizioni ancestrali, intrecciando cosmologia e immaginazione.
A chiudere, arriveranno lo struggente poema dell'amore e del limite umano The Fire Within: Requiem for Katia and Maurice Krafft (2022), sui due storici coniugi vulcanologi uniti nella passione e nella morte, e Theatre of Thought (2022), dedicato alle neuroscienze.
Le regie teatrali
Anche regista teatrale, ha firmato "Doktor Faust" (1986), il "Lohengrin" (1987) di Richard Wagner , la "Giovanna d'Arco" (1989) di Giuseppe Verdi , "Il flauto magico" di Wolfgang Amadeus Mozart (1991), "La donna del lago" (1992) di Gioachino Rossini al Teatro alla Scala e "L'olandese volante" (1993) di Richard Wagner all'Opéra Bastille di Parigi. Seguiranno: "Il Guarany" (1994) di Antônio Carlos Gomes; la "Norma" di Vincenzo Bellini; "Chushingura" (1997) di Shigeaki Saegusa alla Tokyo Opera; e il "Tannhäuser" (1997) di Richard Wagner con il quale girerà i migliori teatri mondiali. Si aggiungono anche "Fidelio" (1999) di Beethoven, il "Parsifal" (2008) di Wagner e "I due Foscari" (2013) di Verdi.
Vita privata
Werner Herzog è stato sposato tre volte e ha avuto tre figli. Nel 1967, sposò l'attrice e sceneggiatrice Martje Grohmann ed ebbero il futuro regista e sceneggiatore Rudolph Herzog. Divorziati nel 1985, il regista iniziò a frequentare l'attrice austro-tedesca Eva Mattes, avendo da lei una figlia, Hanna Mattes (nota artista visiva).
Conclusa questa relazione sposa la collega Christine Maria Ebenberger nel 1987 e ha da questa il suo ultimo figlio, il designer Simon Herzog. Quando poi la coppia divorzierà nel 1997, una volta trasferitosi a Los Angeles, il regista sposerà la fotografa russo-americana Elena Pisetski nel 1999.