Stefania Sandrelli è un'attrice italiana, regista, sceneggiatrice, è nata il 5 giugno 1946 a Viareggio (Italia). Al cinema il 24 ottobre 2024 con il film Parthenope. Stefania Sandrelli ha oggi 78 anni ed è del segno zodiacale Gemelli.
Interprete spontanea, istintiva e a volte sottilmente elegante, fu lanciata giovanissima da M. Sequi in Gioventù di notte (1961) e da P. Germi in Divorzio all'italiana (1961) e Sedotta e abbandonata (1964, di P. Germi). Fu poi diretta da A. Pietrangeli in Io la conoscevo bene (1965), C'eravamo tanto amati (1975, diretto da E. Scola) e da T. Brass in una discussa pellicola, La chiave (1983, dal romanzo del giapponese Tanizaki), affermandosi come attrice versatile, senza mai risultare una diva, S. riesce bene sia in leggere commedie all'italiana sia in prove più difficili, in cui le vengono affidati ruoli di forte difficoltà dal punto di vista psicologico. Più volte a partire dagli anni Ottanta è stata vittima della sua stessa bellezza che l'ha portata ad interpretare fin troppe volte ruoli cliché pseudo-erotici o di donna sexy e maltrattata. Tra le sue numerose interpretazioni si ricordano: Speriamo che sia femmina (1985 di M. Monicelli), La famiglia (1986), Mignon è partita (1987, di F. Archibugi), Il piccolo diavolo (1988), Il male oscuro (1990), Prosciutto prosciutto (1992), Con gli occhi chiusi (1994), Palermo-Milano solo andata (1995), Io ballo da sola (1996, di B. Bertolucci), Matrimoni (1998), L'ultimo bacio (2001). Nel 1993 ha partecipato con successo alla serie televisiva Il maresciallo Rocca insieme a Gigi Proietti e ad un'altra intitolata Il bello delle donne.
Dopo Sofia, Stefania. Dopo la Loren, la Sandrelli. E vien voglia di dire: finalmente. Cominciavamo a temere che la Venezia di Muller fosse avara di sorprese, invece eccone una tutta d’oro: un magnifico leone alla carriera per una delle nostre attrici più sorprendenti e in fondo discrete. Sorprendente per l’enorme numero di ruoli e di sfumature cui ha dato vita, pare incredibile, in 44 anni di lavoro. Discreta perché film dopo film, decennio dopo decennio, Stefania Sandrelli ha rappresentato non solo il nostro cinema ma il nostro paese come nessuna attrice della sua generazione è riuscita a fare. Cambiando, maturando, invecchiando perfino, con disinvoltura e serenità. Per non parlare dell’allegria che l’ha accompagnata anche nei momenti più difficili e che è tutta e solo sua. La lista dei suoi registi sembra l’indice di una Storia del cinema: ci sono Germi e Pietrangeli, i due Bertolucci e Jean-Pierre Melville, Scola, Monicelli e il venerabile Manoel de Oliveira. Ma se guardiamo ai ruoli il suo percorso è ancora più significativo. A 15 anni era una delle tante miss che fiorivano nell’Italia del boom, una bellezza di Viareggio che tentava di fare del cinema. Pochi mesi dopo Luciano Salce e soprattutto Pietro Germi intuiscono il potenziale di quel misto indefinibile di malizia e di ingenuità. Il primo le offre una particina nel Federale , futuro campione d’incassi. Il secondo ne fa la cuginetta che fa perdere la testa al barone Fefè Cefalù alias Marcello Mastroianni in Divorzio all’italiana , uno dei film più amati e premiati del nostro cinema di allora. C’è di che adagiarsi nei panni effimeri ma luminosi della tentatrice, e lo stesso Germi rincara la dose con Sedotta e abbandonata . Ma nel ’65 la Sandrelli è già il rovescio di se stessa nell’inatteso e sconvolgente Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, parabola tutta in discesa di un’attricetta che un poco ancora le somiglia, ritratto al vetriolo del lato oscuro del boom. La ninfetta diventa eroina tragica ancorché inconsapevole, anzi è il volto stesso dell’inconsapevolezza che esalta e insieme mina quegli anni ruggenti. Nessuno la crede capace di sostenere quel ruolo, è Pietrangeli a battersi e imporla. E vede lontano: il salto nel vuoto che chiude quel capolavoro segna la nascita di una nuova Stefania, che nel frattempo ama tempestosamente un altro simbolo di quegli anni, Gino Paoli. Ma siamo ancora all’inizio. Arrivano gli anni 70, Il conformista di Bertolucci, altro capolavoro (quello slow rapinoso con Dominique Sanda...); Alfredo Alfredo di Germi, dove è l’irresistibile moglie isterica di Dustin Hoffman; C’eravamo tanto amati . E qui anche grazie a Scola la Sandrelli si trasforma ancora. L’oggetto del desiderio diventa la donna che tutti amano e che tutti sa amare, la ragazza che Gassman si gioca per troppa ambizione (le fototessera con lei in lacrime sono una delle icone del decennio), la donna semplice che sceglie il semplice Manfredi, insomma l’amica, la sorella, la moglie, magari l’amante ma sempre provvida, generosa, capace di slanci e virtù insospettate. E’ un’immagine che Stefania riprende e varia in una lunga serie di film importanti, da Novecento a La terrazza , da Speriamo che sia femmina a La famiglia , da Mignon è partita a Evelina e i suoi figli (esordi, per inciso, di Francesca Archibugi e Livia Giampalmo, perché la Sandrelli magari rifiuta Il Padrino “per non ripetersi”, ma non resiste a un esordiente di talento). Il ritratto però ancora una volta non sarebbe completo se non contenesse il suo opposto, ed ecco che sulla soglia dei 40 anni l’ex-ragazzina di Divorzio all’italiana cavalca nuovamente (e coraggiosamente) l’onda dell’eros con La chiave di Tinto Brass, 1983. Magari Muller esagera parlando di «musa del cinema sexy-intellettuale» (il Tanizaki citato dai titoli di testa era la solita foglia di fico, i 2 o 3 film sexy venuti in seguito sono da dimenticare), ma è vero che grazie alla Sandrelli il crudo erotismo di Brass trova l’eleganza, la misura, il calore che in seguito cercherà invano. E così Stefania l’arciitaliana lascia ancora tutti con un palmo di naso. Dall’alto dei suoi 107 titoli si è tolta la soddisfazione di fare tutto e il contrario di tutto. E’ stata figlia e madre, nonna e amica, battagliera e sottomessa, svampita e disillusa; ha accompagnato almeno tre generazioni di registi, da Germi a Muccino ( L’ultimo bacio ), da Scola a Bechis ( Figli/Hijos ). Eppure in tutti questi anni non ha collezionato glorie ed onori, non si è fatta il monumento, non ha posato a diva o a “bene culturale”, come avrebbero fatto altre più scaltre (e più pigre), ma ha continuato a lavorare come sempre. Con quel sorriso che scioglierebbe i metalli, con la grazia addolcita dalla goffaggine impalpabile dell’eterna adolescente che la rende irresistibile ma soprattutto irresistibilmente vera. Alternando film ambiziosi a semplici prodotti televisivi o a lavori magari mai visti in Italia ma fatti per il puro gusto di osare, provare, viaggiare. Perché come diceva Mastroianni un attore deve anzitutto cambiare, prima dei film si scelgono le occasioni e i compagni di lavoro, per “esistere” davvero un interprete deve sapersi mettere nelle mani più diverse possibili. E se c’è un’attrice che ha cambiato pelle restando sempre se stessa questa è lei. Come ricordava già diversi anni fa un bel ritratto-mosaico dedicatole da Stefano Consiglio su Raidue, Stefania Sandrelli Story. Titolo che richiamava apertamente la “Storia di un italiano” di Sordi, come se i film della Sandrelli offrissero una sorta di controstoria d’Italia. Sarebbe bello se in occasione del leone veneziano la Rai lo ritirasse fuori. Ma forse conviene non farsi illusioni.
Da Il Messaggero, 6 agosto 2005
«È un bellissimo regalo, spero di essermelo meritata. Ringrazio tutte le persone che ho incontrato e che hanno partecipato a dare forma alla mia carriera». Così, senza false modestie, Stefania Sandrelli, in vacanza nella sua villa all'Argentario, ha commentato il Leone d'Oro alla carriera che le verrà consegnato alla 62ma Mostra di Venezia nel corso della serata del 10 settembre. L'altro Leone alla carriera verrà attribuito al regista giapponese Hayao Miyazaki. Il Cda della Biennale di Venezia, presieduto da Davide Croff, ha accolto quindi la proposta del direttore Marco Müller di attribuire all'attrice italiana Stefania Sandrelli il prestigioso riconoscimento. «Quarantacinque anni di carriera cinematografica, e non li dimostra - ha dichiarato Marco Müller - Così Stefania Sandrelli ha attraversato tutti gli stati del cinema italiano: si afferma lavorando con due degli autori più originali, oggi definitivamente riscoperti, del dopoguerra, Pietro Germi e Antonio Pietrangeli. Accompagna le dinamiche del Nuovo Cinema (un titolo su tutti: «Il conformista» di Bernardo Bertolucci). È stata la musa del cinema-sexy intellettuale. E continua a essere baricentro dei debutti e dei film importanti dei giovani cineasti (dalla morettiana Valia Santella all'«Ultimo bacio» di Muccino). Attrice moderna e mai modernista, Stefania è il cinema italiano contemporaneo al meglio di quello che ha saputo offrire». La Sandrelli, giovanissima vincitrice di un concorso di bellezza a Viareggio, sua città natale, dopo l'esordio ne «Il federale» (1961) di Luciano Salce, viene lanciata nello stesso anno da Pietro Germi, che le affida la parte dell'acerba seduttrice Angela in «Divorzio all'italiana». Per Germi, suo pigmalione, reciterà anche nel ruolo di Agnese in «Sedotta e abbandonata» (1964). Ma è soprattutto con il crepuscolare «Io la conoscevo bene» (1965) di Antonio Pietrangeli, in cui veste i panni di Adriana, ragazza infatuata dall'idea del successo facile, che rivela innate qualità introspettive ed espressive. Nel 1969 vince come miglior attrice al Festival di San Sebastian con «L'amante di Gramigna» di Carlo Lizzani, dove interpreta il ruolo di Gemma. I lineamenti insieme classici e inediti e la fisicità languida e pigra si ritrovano nelle donne che incarna per Bernardo Bertolucci: Clara in «Partner» (1968), Giulia ne «Il conformista» (1970), Anita in «Novecento» (1976). Sono gli anni delle sue interpretazioni più impegnative, che la confermano diva di autori come Ettore Scola, che la vuole protagonista dell'ironico e malinconico «C'eravamo tanto amati», in cui è Luciana, la donna che fa perdere la testa agli ex-partigiani Antonio (Nino Manfredi), Nicola (Satta Flores) e Gianni (Vittorio Gassman). Ancora per Scola, veste i panni dell'amante di un burocrate comunista nel corale «La terrazza» (1980), ruolo che le vale il Nastro d'Argento come miglior attrice non protagonista. Nel corso degli anni Ottanta interpreta ruoli diametralmente opposti tra loro, a partire da «La chiave» (1983) di Tinto Brass, film che le dona nuova e sensuale vitalità: la vivace Lolli di «Speriamo che sia femmina» (1986) di Mario Monicelli lascia il posto alla premurosa Beatrice de «La famiglia» (1987) ancora di Scola, poi alla madre dolce e comprensiva di «Mignon è partita» (1988) di Francesca Archibugi. Di nuovo spregiudicata in «Prosciutto prosciutto» (1992) di Bigas Luna, è ancora con Ettore Scola ne «La cena» (1998). La sua più recente interpretazione la vede nei panni di una cantante in crisi in «Te lo leggo negli occhi» (2004), esordio al lungometraggio della giovane Valia Santella, presente lo scorso anno a Venezia. In Tv ottiene grande successo al fianco di Gigi Proietti nella fiction «Il maresciallo Rocca».
Da Il Tempo, 6 agosto 2005
Dal Federale a Te lo leggo negli occhi, la carriera di Stefania Sandrelli, ancora in piena espansione, è un susseguirsi di sfide, personaggi emblematici, scelte coraggiose, svolte improvvise, fermate e ripartenze, amori e separazioni. È unica l’attrice viareggina, per quella sua aria che stas empre da un’altra parte, per quel non prendersi mai sul serio, per quello sguardo disincantato e (dis)illuso che ha fatto innamorare di brutto Gino Paoli e Giovanni Soldati e, soprattutto, almeno tre o quattro generazioni di spettatori. Corpo imprevedibile e stupefatto nel dittico siciliano di Germi, Divorzio all’italiana e Sedotta e abbandonata; e, in La bella di Lodi, giovane provinciale in grado di far perdere la testa anche al più restio dei richiami della carne e del cuore. Meravigliosa, simbolica, anticipatrice in Io la conoscevo bene, ovvero sintesi di femminismi ed emancipazioni. E sbarazzina in L’avventuriero di Tahiti, con Belmondo in vacanza premio dalla Nouvelle Vague, divertito e incredulo dinanzi a cotanto sprigionamento di umori. E ancora, Amante di Gramigna e in Brancaleone alle crociate. E poi, nel Conformista, che la rilancia attrice feticcio di un cinema che vuole fortissimamente fare l’Autore, e svincolarsi. È lei, sempre lei, con quella sua voce erotica e sottile, e quegli occhi che vanno negli angoli nascosti, che sia in un film di genere (La tarantola dal ventre nero, Il diavolo nel cerve o...) o icona i un tempo e oggetto desiderato da più uomini contemporaneamente (C’eravamo tanto amati, Novecento...). È credibile, quando piange lacrime dal cuore nel dimenticato e bellissimo Delitto d’amore. Ed è ancora lei in Alfredo Alfredo, Dove vai in vacanza?, persino in Io sono mia, che non le si addice ma va bene ugualmente e che solo per abbaglio pare il seguito ideale di Io la conoscevo bene. Quasi cancellata alla fine degli anni ‘70, ha la forza - sfrontata - di farsi dirigere da Tinto Brass nella Chiave ai limiti dell’hard, perché il suo corpo le appartiene e chissenefrega delle critiche.
Da lì a qualche anno, una sequela di soft, dalla Disubbidienza all’Attenzione, da Una donna allo specchio a Desideria la vita interiore. Incurante, incredula, forte della sua fragilità e consapevole del proprio fascino. Mignon è partita la rimargina, piazzandola nella mezza età, madre ma ancora amante e piacente. E allora Io ballo da sola, Volavérunt, L’ultimo bacio, Te lo leggo negli occhi. Tutti i gran i registi anno lavorato con lei e per lei, l’hanno chiamata e “avuta”, sì tra virgolette, perché Stefania Sandrelli - da sempre - si manifesta e illude, si materializza e scompare. Dietro a quello sguardo, a quella voce, a quel corpo - sempre, sempre - da un’altra parte.
Da Film Tv, n. 32, 2005
Era fatale che arrivassi a parlare della Sandrelli prima di rivedere i miei amici, e soprattutto la signora milanese, che ci teneva tanto a sapere che cosa ne pensavo. Affrontiamo dunque subito l'argomento della Sandrelli. E Germi, che, nel Divorzio, l'ha lanciata, mi perdoni il ritardo con cui affronterò lui stesso.
Ho visto la Sandrelli in tre film. Non sono tutti quelli in cui lei ha lavorato; ma sono, certamente, i tre più importanti: il Divorzio, La bella di Lodi, e Sedotta e abbandonata. Impossibile negare che sia bella, che sia fotogenica, che sia simpatica, civettuola, sorniona, che abbia sex-appeal, che sappia piangere e ridere da vera attrice, che si muova con grazia e disinvoltura, e che corra (sì, la signora milanese aveva ragione) che corra in un modo meraviglioso. Basterebbe, per avere una prova dell'eccezionale potenza comunicativa della Sandrelli, ricordare quel suo lunghissimo primo piano nella Bella, sul piazzale della stazione di Lodi, quando si vendica del ragazzetto, che l'ha portata a letto e poi l'ha derubata, denunziandolo e aiutando personalmente i carabinieri ad arrestarlo. Lei si reca all'appuntamento. I carabinieri, avvertiti, attendono nascosti. Quando il ragazzetto appare, saltano fuori e lo ammanettano «sotto i suoi occhi»: e il lunghissimo primo piano della Sandrelli, che, assistendo crudelmente all'arresto, gode e soffre nello stesso tempo, e si accorge di sapere amare, ma di sapere amare soltanto da padrona, è un pezzo di cinematografo indimenticabile: anche se nessuno, a quanto pare, lo ha notato: e anche se la stessa Sandrelli lo ignora e afferma di aver fatto tutto il film «con incoscienza».
Il guaio della Sandrelli è semplicemente questo: che non è ancora apparso un film con la sua vera voce. Nella Bella è stata doppiata, stupendamente, da Adriana Asti, la quale, scopro adesso, ha doppiato anche la Bloom nel Maestro di Vigevano. Secondo il mio gusto personale, se voglio essere sincero con me stesso, devo riconoscere che almeno la metà del mio entusiasmo per le due «donne lombarde», per la Sandrelli della Bella e per la Bloom del Maestro, va riferita alla perfezione dei due relativi doppiaggi. Propongo ufficialmente che, se non altro in alcuni casi-limite, nel titolo di testa il nome della doppiatrice o del doppiatore sia affiancato al nome dell'interprete. Sarà un incentivo a persuadere alcune nostre bellissime dive a studiare recitazione e a includere nei loro contratti, come fanno tutte le attrici che si rispettano, una clausola che proibisce nella loro lingua materna di doppiarle. Sia la Lollobrigida sia la Loren hanno fatto in un film da me diretto il loro primo lungometraggio interamente parlato con la loro propria voce. Sofia, o per sua intelligenza o perché consigliata da Ponti o per tutte e due le ragioni insieme, non esitò a seguire la mia idea: si gettò nell'impresa come sa fare lei, con strenua volontà di riuscire: parlò addirittura imitando l'accento ferrarese, e mentre Giorgio Bassani, accanto al leggìo, le indicava le E e le O aperte o chiuse secondo leggi ignote, non diciamo a un fiorentino o a un romano, ma perfino a un bolognese. Gina, invece, com'è nella sua natura cauta e diffidente, temeva di fare fiasco: e di rovinare la propria fama che proprio allora cresceva. Mi ci volle del bello e del buono a persuaderla. Poi fece benissimo. E, naturalmente, da allora in poi, né lei né Sofia recitarono più in italiano senza la propria voce. Dopo qualche anno, recitarono anche in inglese e in francese.
Ho già detto che l'autentica voce della Cardinale, nella Ragazza di Bube , è stata per me una rivelazione: proprio quella voce, apparentemente sgradevole, ha, secondo me, approfondito moltissimo le qualità artistiche di un'attrice, il cui effetto sensuale, nonostante l'estrema evidenza e violenza, restava sempre un po' generico, si portava dietro il peso di una certa inerzia. Nella Ragazza con la valigia, per esempio, la voce della Cardinale era, sempre, della Asti. Stupendo doppiaggio anche quello. Ma è davvero possibile che qualcosa di convenzionale e artificioso non risulti da tali sovrapposizioni, per quanto intelligenti e minuziose e curate?
Senza che ce ne rendiamo conto, ciò che, a volte, in certi personaggi, in certi film, non convince, è proprio il fatto che l'immagine e la voce non provengono dalla stessa persona. E questo segreto difetto è più grave quando mina l'integrità di uno solo degli interpreti: quando, cioè, tutti, o la maggioranza degli altri, parlano con la propria voce, e uno solo è doppiato. Nei film stranieri e doppiati, non ci sono scompensi: tutto è trasferito omogeneamente nel doppiaggio: quasi leggessimo un libro in traduzione, sappiamo fare i nostri calcoli.
È noto che in Inghilterra e in America un film «doppiato» è automaticamente declassato, davanti a qualunque pubblico, in confronto di un film in parlato originale. E memorabile resterà l'esempio di La strada di Fellini, che ebbe in America un enorme successo finché lo ascoltarono in italiano, coi sottotitoli, e invece fece fiasco quando fu doppiato. Il caso è sintomatico soprattutto se si considera che il protagonista Anthony Quinn doppiò se stesso: e che, quindi, almeno per quanto riguardava il protagonista, la versione americana era più «originale» della nostra. Ma si vede che le cose non vanno così: che la sensibilità sonora di un pubblico anglosassone è giustamente profonda e globale. Un mio amico di New York, persona molto pratica del mercato cinematografico americano, mi diceva che Il Gattopardo avrebbe laggiù avuto un successo migliore se fosse stato presentato in versione originale.
Ho riflettuto sulle ragioni che possono produrre questa fondamentale differenza tra il gusto del nostro pubblico e il gusto del pubblico anglosassone, e anche del francese. Primissima ragione, certo, è la seria e secolare cultura teatrale di tutti i popoliche parlano l'inglese e il francese. Le suore francesi di Casablanca facevano, e forse fanno ancora, rappresentare Esther di Racine alle bambinette delle loro scuole. Lo stesso credo che si possa dire per certe opere di Shakespeare nei regolari istituti britannici di Tauranga, Calvinia o Cochrane. Una seconda ragione che possiamo supporre, nei popoli di lingua inglese e francese, è l'innato bisogno di esattezza, o perfino la mancanza di fantasia: mentre gli italiani di fantasia abbondano, o credono di abbondare, al punto di immaginare quanto per definizione non è mai immaginabile, ossia l'esattezza. Ma la ragione più forte, sebbene collegata alla precedente, crediamo sia ancora una terza.
Un altro prodotto che in Italia non manca mai è la «personalità». Ogni italiano si sente profondamente diverso da tutti gli altri, e si crede, perciò, in diritto di infischiarsene il più possibile di tutti gli altri, e in dovere di pensare soltanto a se stesso e alla propria famiglia. Un aspetto come un altro, con tutto il suo bello e il suo brutto, della nostra costituzionale anarchia: onde la maggioranza degli italiani ancor oggi non riesce a parlare la stessa lingua, né a darsi governi che la esprimano davvero. Noi ci crediamo cinquanta milioni di personalità. È naturale, quindi, che rinunciamo, senza neanche farci caso, a pretendere che la personalità di un attore viva sullo schermo nella sua integrità fisiologica. Accade il contrario dove cultura e costume sono dei francesi e degli inglesi, popoli da secoli abituati a un certo livellamento, a un certo grigiore, a una certa autodisciplina sociale: presso di loro, la personalità è rara, è un piccolo nome, è tutto ciò a cui aspirano e più amano: il resto lo hanno. Che un essere umano, e tanto più un attore, cioè un individuo in qualche modo rappresentativo dell'umanità, parli con la voce di un altro: be', questo fatto pare loro assurdo, mostruoso e ridicolo.
Tra i pregi del carattere anarchico degli italiani, non possiamo, in ogni caso, annoverare questo disprezzo della personalità dovuto a un surplus di personalità. Faremmo la figura di un padre il quale, accorgendosi che un suo bambinetto di cinque anni è molto intelligente, reputasse inutile e dannoso mandarlo a scuola.
La Sandrelli è straordinaria, ha tutte le doti. Ma deve andare a scuola anche lei: e imparare a parlare con la sua voce, così come corre con le sue spettacolose gambette.
8 marzo 1964
Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 2006