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Cinema sui migranti: un genere

L'auspicio che si vada oltre Lampedusa. Di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti


lunedì 19 settembre 2011 - Focus

Il villaggio di cartone di Olmi, Terraferma di Crialese, Là-bas di Lombardi, Cose dell'altro mondo di Patierno, Io sono li di Segre. Sono titoli presenti al festival di Venezia che raccontano vicende di migranti. Userò questo unico termine per praticità, altri possono essere extracomunitari, illegali, diversi. Il cinema se ne è appropriato. Nell'era recente sappiamo quanti siano stati i film sull'argomento e sappiamo anche che saranno molti, nell'era futura. L'argomento è un codice, una chiave, una tendenza, un'opportunità: possibilità vaste ed efficaci, sulle quali puoi costruire un genere.

Spettro
Gli aspetti narrativi, l'esempio, naturalmente sono complessi e offrono uno spettro molto largo e delle prospettive altrettanto larghe. Cito un altro titolo "veneziano" che vale in queste chiavi: Wuthering Heights (Cime tempestose), dal romanzo della Brontë. Il protagonista è Heathcliff, un trovatello, un estraneo, quasi un selvaggio, non è capito ed è emarginato da quella comunità inglese. A dare corpo e volto a quel personaggio era stato nientemeno che Laurence Olivier e poi Timothy Dalton. Nel film presentato a Venezia, diretto da Andrea Arnold è un nero. Se vogliamo è un migrante, seppure con le virgolette. La differenza, il salto in avanti, offrono la possibilità di una maggiore intensità nel contrasto fra i rapporti. È un artificio che il cinema mette in campo e che può starci, anche perché il cinema non va tanto per il sottile nelle metafore. Può certo permetterselo. L'unica ostruzione da affrontare sarebbe la reazione dei puristi, ai quali non devi toccare la maestà del testo letterario, che diventa sacralità se si tratta di un titolo mitologico come "Wuthering Heights".

Inserto
Un altro recente inserto di migrante lo dobbiamo a uno di noi, Pasquale Scimeca che nel suo film Malavoglia, tratto dal romanzo di Verga, inserisce un migrante, salvato da un giovane della famiglia, che si integra perfettamente nel tessuto, si fidanza con la più bella, trova lavoro e casa. È un modello, umano, diligente e intelligente. Nel suo Lettere dal Sahara, il regista Vittorio De Seta ha raccontato la storia di Assane, uno studente senegalese che arriva in Italia, trova lavoro, si integra, anche lui è intelligente e umano. È il migliore di tutti. E questo è uno dei nodi. Il migrante viene quasi sempre "usato" dal cinema come carattere di confronto con chi lo accoglie. È un catalizzatore che mette a nudo la società che lo ospita. Come ho scritto sopra diventa uno strumento molto efficace di lettura e di critica sociale. In sostanza si parla di lui ma si parla soprattutto di noi. Recensendo Lettere dal Sahara, Giancarlo Zappoli ha scritto: "... la storia del senegalese Assane si rifà indubbiamente a situazioni reali di migranti che subiscono nel nostro Paese discriminazioni inaccettabili. Il problema è che del protagonista si fa una sorta di icona di bontà assoluta che ha tutti i tratti della retorica... È didascalismo allo stato puro che purtroppo rischia di ottenere l'effetto contrario al voluto. Senza bisogno di vivere situazioni estreme, tutti sappiamo che l'integrazione richiede sforzi da ambedue le parti. Questo film è invece troppo schematico per risultare credibile ed efficace. Gli extracomunitari che vengono nel nostro Paese con il solo scopo di trovare un lavoro decente sono la stragrande maggioranza. Ma non è raccontandoli in forma idilliaca che se ne difendono al meglio i diritti".
La lettura di Zappoli è davvero corretta. Ed è trasversale, valeva qualche anno fa come adesso.

Motore
Il primo motore, del nero, del diverso, che si segnala e si impone, che ha fatto e che continua a fare storia, è un titolo che fa parte della spina dorsale del cinema, Indovina chi viene a cena. Con Katharine Hepburn e Spencer Tracy. La storia è conosciuta, una giovane, bella, ricca ragazza bianca si innamora di... Sidney Poitier. Non era così semplice, nel 1967. I genitori della ragazza, assolutamente progressisti, liberal, non sono all'inizio proprio contenti. Alla fine sì. Va detto che Poitier non era proprio un "migrante", ma un medico, docente, autore di testi importanti, quasi un premio Nobel. Questo eccesso di qualità in un certo senso azzeravano la "differenza". Comunque, in quell'epoca, lo ribadisco, era già una bel passo avanti. Erano contenuti hollywoodiani, patinati, con indicazioni trasmesse da divi, sì semidei, dunque lontani dal braccio pur teso dell'uomo dello spettatore. Tuttavia l'America registrò un incremento importante di matrimoni misti. Era una storia felice, e i genitori Spencer e Katharine non erano inadeguati rispetto alle qualità del "diverso".
Un'indicazione a chi sta per scrivere un copione o a chi sta per produrre un film: sono molti i film sui migranti, ed è complessa la cultura coinvolta, così come il sentimento, così come il sociale e il dolore. Dunque attenzione alla demagogia, e all'instant.
L'auspicio è che si vada oltre Lampedusa.

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