Il manifesto con Leopardi capovolto non è solo una trovata pubblicitaria, peraltro di grande effetto, ma anche il preavviso che la figura del Giovane favoloso firmato Martone contraddice sia l’iconografia classica del poeta, ancorata a tutt’oggi al ritratto-disegno, accademico e senz’anima, eseguito da Luigi Lolli e ripreso da tutti i libri di letteratura e di studi leopardiani, sia l’impostazione del racconto in termini stilistici e di messa in scena.
Martone sviluppa il tracciato narrativo secondo diverse direttrici: la liberazione dalla gabbia di Racanati, -centro culturalmente polveroso dello Stato pontificio governato da prelati e istitutori ligi ai dettami delle gerarchie ecclesiastiche- prima attraverso l’evasione mentale verso un fuori immaginario conseguita con l’esplorazione bibliotecaria a lume di candela di quasi tutto lo scibile umano, poi mediante la fuga fisica verso le grandi città piene di nuovi fermenti intellettuali, sociali, letterari come Roma, Firenze, Napoli; la delusione verso i circoli portatori di innovative correnti di pensiero come la teoria dell’utile in economia, i fervori liberali, il romanticismo letterario e lo scetticismo nei confronti di dogmi propalati dalle elite preminenti come la riduzione della sommità del sapere umano al “saper la politica e la statistica”, nonché verso la religione e le sue serrature arrugginite; l’uso e l’affinamento della poesia come antidoto a tutto questo e come “illusione che non disillude”di una felicità oltre la storia, oltre le barriere dell’immaginario comune, oltre la crudeltà della natura perfida e spietata, che si è accanita senza tregua sul suo corpo; la ricerca inflessibile, nell’apparente dissintonia tra la sua visione senza speranza della vita e la spinta di un’inesauribile vitalità, dei piaceri minimi o sublimi, della bellezza in tutte le sue forme, dell’amore o comunque della sua idea, delle amicizie sincere, fruibili lontano dalla ricchezza, dalle elite borghesi, dalle più trite convenzioni sociali.
Il Leopardi del regista napoletano sfugge alla immobilità della rassegnazione, cade e si rialza sotto il peso crescente di malanni dovuti alla sua divorante precocità, di un sapere che aveva prosciugato nei pochi anni dell’infanzia e dell’adolescenza l’intera biblioteca di famiglia, e ne aveva fatto ben presto un abile filologo, filosofo, poeta, prosatore, traduttore in poesia di classici greci. Leopardi non vive la storia, proprio perché l’invincibile infelicità umana rende inutile ogni sforzo dei contemporanei verso il progresso delle idee, della politica, della società, ma è interessato a vivere i singoli sprazzi vivificanti come le bicchierate con i popolani, gli accessi trasgressivi negli antri infernali dei bordelli, gli affetti veri o (di)sperati, in attesa della fine (“invidio i morti, e solo con loro mi cambierei”, da Operette morali). La storia si affanna a scorrere, segue i suoi tracciati nella vana illusione di prospettive irreali ma non si eleva. Solo la poesia, cambiando dimensione, s’innalza e spazia nell’”oltre” senza limiti e senza disillusioni. Infatti Martone non fornisce riferimenti storici precisi, se non indirettamente (la pestilenza a Napoli) e sorvolando sugli eventi politici di quel periodo, per rimarcare il distacco del poeta dagli avvenimenti contemporanei. Il suo Leopardi scrive ininterrottamente, s’immerge nell’estro senza limiti della sua poesia che prorompe in tutta la sua potenza espressiva come se fosse un’eruzione di pensiero nel suo istantaneo traboccare, battibecca con gli intellettuali infastiditi dal suo catastrofismo umano ironizzando sulle loro contraddizioni (come può un popolo essere felice senza la felicità dei singoli individui?). Il suo Leopardi contempla l’ossimoro permanente di Madre natura che impone la sua ferocia (immaginata come un’enorme statua d’argilla con i tratti del volto della propria madre che si sgretola) ma offre anche una sconfinata ingannevole bellezza: i boschi, i laghi, il mare, la lava rossa del Vesuvio, il firmamento in una notte trapuntata di luci possono dare una felicità illusoria, ma è per questa consapevolezza che Leopardi è infelice pur assorbendo l’assorbibile. In questa ottica di lotta per la vita ma contro la sua inanità, il malfermo Leopardi assume una grandezza granitica, eroica, epica, che sfida l’insidia del tempo.
La poesia dei versi leopardiani “detti” (la “colonna poetica” che costituisce la spina dorsale emozionale del film), delle immagini piene di rumori, di autenticità, di vita, magnificamente ideate dagli autori, dell’alternarsi delle musiche moderne di Sasha Ring, morbidamente malinconiche,e quelle scolpite del classico Rossini, che accompagnano i due registri della dolorante vitalità e della mestizia, si espande in ogni angolo dell’opera dandole una preziosità luccicante a tutto campo, corroborata anche da un cast di altissimo pregio grazie alla perizia registica di un maestro che non manca mai di stupire, di sorprendere, di reinventare ed affascinare. Un’autentica grande bellezza.
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