L’opera di Mario Martone ha il nobile pregio di scollare le parole di Giacomo Leopardi dalle pagine delle antologie liceali per farcele riscoprire eternamente vive. Il suo sentire profondo, la lirica musicalità dei suoi componimenti, la ricerca di una verità che sempre per l’uomo è approdo al pulsante buio del dubbio.
La musica scorre nelle poesie di Leopardi grazie alle intense note vibrate dal tedesco Sascha Ring “Apparat”, che ogni volta sa disegnare suoni come un pittore farebbe col pennello, restituendoci la sublime sensazione di essere dentro alle stanze dei canti Leopardiani.
Mario Martone ci regala una prospettiva di Giacomo Leopardi che trova in Elio Germano il miglior interprete possibile; e pare che d’ora innanzi l’immagine del giovane Giacomo non possa che legarsi alle sue movenze ed espressioni. Egli sprofonda dentro l’animo di Leopardi e fa tutt’uno con il suo crescendo di dolori e afflizioni che giorno dopo giorno, anno dopo anno ne fiaccano il corpo, accartocciato come emblema di una onnipossente forza naturale ch’è trama ineludibile dell’esistenza umana (e delle sue poesie).
Ma più di tutto è l’animo a essere schiacciato: dall’intransigenza del conte Monaldo Leopardi (Massimo Popolizio), dalla pedante evanescenza della madre Adelaide Antici Leopardi (Raffaella Giordano) e da quella biblioteca immensa che lo nutre e lo stritola al medesimo tempo come fa una Recanati così cara ai suoi ricordi d’infanzia eppure divenuta insopportabile prigione dalla quale fuggire, con la forza delle parole e di amici come Pietro Giordani (Valerio Binasco).
E amici come l’aitante Antonio Ranieri (Michele Riondino), colonna portante e spalla fiduciosa sulla quale il flebile Giacomo può sempre trovare conforto. O se non altro sollievo a quella malinconia che trasuda da ogni catena di sillabe che inchiostra sulla pagina, da quel suo verseggiare osteggiato in maniera crescente dai letterati che gli sfilano accanto e lo definiscono fuori tempo per un’epoca che desidera essere romantica, che intende rivolgersi alla società con passione, che vuole guardare alle “magnifiche sorti e progressive” del secolo che incalza. Giacomo è l’escluso, sia nella camera chiusa degli intellettuali a Firenze sia nel caffè che si affaccia in piazza del Plebiscito a Napoli, dove ancora una volta una tronfia borghesia s’infila nel facile cunicolo del (pre)giudizio, additandolo come pessimista.
“Non attribuite al mio stato quello che si deve al mio intelletto” tuona Giacomo Leopardi ai suoi detrattori. La sua condizione di estraneo è sprone a quei versi d’indefinita dolente malinconia, ma quel che i più non afferrano è come tutta la condizione umana sia fulcro passivo della possanza della Natura. E noi sentiamo come nei versi di Leopardi/Germano stia accoccolata una vitalità ch’è controcanto innato e invisibile alle stesse parole del poeta: a dirci di sottecchi che forse solo l’amore può esserci d’aiuto nella ricerca di sottili, transitorie felicità.
Quelle felicità intraviste dal suo ciglio furtivo nelle avventure romantiche dell’amico Ranieri con Fanny Targioni-Tozzetti (Anna Mouglalis), frammenti nel dialogo ininterrotto tra l’infinito dello spazio-tempo e la percezione del nostro tempo umano. Ed è dolce perdersi nell’indefinito vagare delle parole di un Giovane favoloso che su una terrazza di Torre del Greco chiude lo sguardo sotto un cielo stellato e ci lascia negli occhi l’immagine più potente della poetica Leopardiana: il renitente capo di una piccola ginestra.
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