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Rapporto sado-maso in nome dell’arte. E’ giusto, è lecito, è approvabile spingere la disciplina di un istruttore di musica oltre quella soglia al di là della quale c’è la violenza psichica, verbale, fino alla brutale umiliazione per ottenere non il massimo perfettibile ma la perfezione assoluta, non importa a quale costo? E dall’altra parte si può negli stessi termini spingere il talento di un giovane allievo a superare ogni limite raggiunto spremendo la propria ambizione oltre il più spudorato narcisismo verso una missione pressoché impossibile, dove quel “pressoché” è l’unico spazio di riuscita? Queste le domande che affiorano quando la vicenda prende corpo. Non c’è una teoria del tutto, ma due tendenze contrapposte ma allineate da sperimentare sul campo. L’incontro è infatti una disfida all’ultimo insulto ed all’ultimo sangue versabile, in cui conta più il distruggere le certezze dell’altro che il comune obiettivo musicale: imporre il massimo perché la controparte esegua al massimo, ma come abbiamo visto il massimo è estremizzato. La posta in gioco, ed il banco di prova, è un pezzo di jazz, Whiplash, che vuol dire frustata, cioè dolore, sofferenza, sangue e, come ogni rito di fustigazione, ripetizione fino a livelli imprevedibili, mortificazione fino alla purificazione necessaria per l’elevazione suprema, quasi un autodafé in nome di una meta divina. Il punto del contendere è il tempo: nel jazz, in quel pezzo che pochi batteristi sono riusciti ad eseguire in modo esemplare, non conta tanto l’armonia quanto la velocità. Almeno per lo strumento che segna il tempo, l’insieme integrato di suoni diversi che regge la struttura intera dell’orchestra, dove lo scostamento infinitesimale delle battute dallo standard richiesto può compromettere la resa generale. L’attimo in ritardo azzera la prova e tutto ricomincia infinite volte. L’umiliazione gira, espelle darwinianamente i più deboli per concentrarsi sul più resistente. E’ lui, il Talento, che prevale, ma un incidente casuale interrompe la spirale, il narciso si affloscia, come l’onda d’urto della controparte, e inizia un’altra sfida, l’ultima. La schermaglia riprende, l’aguzzino non colpisce direttamente ma per vie traverse, la vittima, ormai inorgoglita da tanta prova, trova il piglio dell’’ultimo spasimo e finalmente inanella gli attimi giusti in un vortice di battute frenetiche ma impeccabili e agli occhi dell’altro inaspettatamente sconfitto, incastonati in una faccia solcata da un delta di uadi, non rimane che contemplare l’altrui trionfo e rendersene complice per godere appieno dell’opera perfetta. E’ l’apoteosi in cui sembra riecheggiare il ghigno soddisfatto del fantasma di Buddy Rich.
Forte dell’esperienza musicale di tutti i protagonisti (attori e regista), Whiplash è un prodotto colto, infarcito di riferimenti tecnici ignoti al grande pubblico ma su cui si sorvola volentieri lasciandosi andare alla frenesia di battute ed ai virtuosismi della batteria, alle asperità del rapporto tra i due contendenti, agli stop and go continui imposti per affinare sempre più l’esecuzione, alla tensione spessa e a tratti insopportabile (anche per noi) che in crescendo aleggia nella sala prove, all’allineamento delle immagini con i ritmi forsennati e ai flash sui dettagli rilevanti, alle invenzioni di ripresa del giovane regista. Solo una tregua, dopo la rottura esplosiva del clima seguita ad un oltre non sostenibile, per poi assistere al riavvio della contesa in toni più morbidi, tra mosse e contromosse fino al tripudio finale che risolve lo scontro: è fatta, le acque si acchetano.
Damien Chazelle compone il quadro esasperando ogni elemento: tutto è sopra le righe, tanto i toni aggressivi sulla mente quanto gli effetti sul corpo (la “frustata” ed il sangue), in una linea che si dipana succhiando qualcosa a Kubrik (direttamente citato nel famoso epiteto “palla di lardo”) ed a Tarantino in certi estremismi ad effetto, ma senza prendere una posizione. Kubrik risolve il conflitto (ed il giudizio) con la doppia tragedia dell’epilogo, Tarantino estremizza per stemperare la verità, Chazelle colpisce duro ma smussa e distrae con il dettaglio, accentua la violenza degli attacchi, il narcisismo, la competizione (usuali nel mondo dello spettacolo americano), ma il finale catartico rimette in discussione ogni orientamento. Chazelle ci invita ad una cena con piatti variegati e dai sapori forti. La parola ai commensali, che a fine pasto non possono sottrarsi agli interrogativi in premessa.
Resta il fatto che la perfezione del prodotto, l’eleganza della confezione, l’alternarsi fluido dei pezzi musicali, il fascino della ricerca del ritmo aureo pur nelle sue spezzettature, oltre alla bravura del cast dànno al film un marchio di alta qualità e di memorabilità difficilmente riscontrabili.
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