Timbuktu

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Un film di Abderrahmane Sissako. Con Ibrahim Ahmed, Toulou Kiki, Abel Jafri, Fatoumata Diawara.
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Titolo originale Le chagrin des oiseaux. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 97 min. - Francia, Mauritania 2014. - Academy Two uscita giovedì 12 febbraio 2015. MYMONETRO Timbuktu * * * 1/2 - valutazione media: 3,54 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

violenza, poesia, bellezza: gli ingredienti magici Valutazione 4 stelle su cinque

di pepito1948


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martedì 24 febbraio 2015

Succede da sempre che un Potere irrompa e si insinui in un territorio imponendo proprie regole, attraverso la persuasività della forza, ad una popolazione debilitata da condizioni avverse. Se le regole sono legate ad una religione, e se la religione è la sharia, le regole diventano la legge di Dio , quindi sono assolute ed inderogabili. Chi agisce in nome del potere (religioso), è guidato da Dio e da questo legittimato  in ogni suo gesto politico. In tale ottica il Potere proibisce, impone obblighi di fare e soprattutto di non fare, non parla mai di diritti; vieta rigorosamente tutto ciò che si identifica con i nemici di Dio o che è sintomo di corruzione, quindi in prima linea tutto ciò che è antitesi culturale (l’empio Occidente): non fumare, non giocare a pallone, non fare o ascoltare  musica, salvo essere indulgente verso questi reati-peccati se è il potere stesso a commetterli. L’imposizione attraverso la jihad (guerra santa) della sharia (legge coranica), come missione ispirata da Dio che riecheggia il ”Dio lo vuole!” dei crociati cristiani, richiede l’uso della forza da parte del Potere che non ammette rifiuti o dinieghi: ogni resistenza, in quanto ostacolo alla sharia, è sacrilega quindi merita il castigo. Il Potere, ispirato dalla sharia, vuole la donna vincolata alla rete di obblighi propri del suo ruolo, che la confinano entro un ristretto recinto operativo a difesa della moralità degli uomini: la sua pelle e i suoi movimenti devono essere sfumati al massimo alla vista degli altri. Perfino le sue mani, principali artefici dei gesti quotidiani di sopravvivenza, devono essere coperte dai guanti. Il Potere, ispirato dalla sharia, dà diritto ad ogni buon jihadista di scegliere una donna tra la popolazione, a prescindere dal suo consenso o da quello della madre. Il Potere, ispirato dalla sharia, in caso di reato-peccato, emette sentenze inappellabili, attraverso proprie corti di giustizia che applicano pene anche estreme ritenute in linea con i principi coranici. Il Potere, fortificato dalla sharia, si espande in modo tentacolare e vigila anche nei luoghi sperduti in pieno deserto, portando il verbo intransigente di Dio in qualsiasi posto sia alla sua portata.
Il Potere insegue gli avversari, li tallona e li sfianca come una preda che fugge  zig-zagando dovunque intraveda una possibilità di salvezza.
Le vittime del Potere sono le donne che si ribellano ad un matrimonio forzato o ai guanti che impediscono di pulire il pesce. Sono i ragazzi che cercano di giocare squarciando il velo di severità immanente e, per difendersi dagli artigli del Potere, ricorrono all’immaginazione. Sono gli uomini, quasi assenti, costretti al silenzio ed a decolorare il proprio vissuto di individui per la paura di articolare il pensiero. Perfino l’altro potere, quello tradizionale e pacifico di un imam, nulla può contro il Potere, ispirato da Dio, del fondamentalismo dominante. Le vittime sono il libero pensiero, l’arte, l’autodeterminazione, le tradizioni radicate e seguite sul territorio, la parola e il linguaggio degli avi.
Dall’immane forza disgregatrice di tutto questo viene investita una famiglia felicemente raccolta sotto una tenda nel deserto, i cui componenti, travolti dall’onda d’urto, si avvieranno a destini diversi.
L’africano A. Sissako, uno dei più eminenti registi del continente nero, prende spunto dalla recente invasione del Nord del Mali (ma il film è girato in Mauritania) da parte dei fondamentalisti islamici, per imbastire un racconto sulla disumanità di una guerra e di uno scontro senza senso, e per estensione sui rischi di un conflitto che trascende i confini territoriali e che, ispirato da un credo inflessibile, corrobora e moltiplica forze, risorse e spinte difficilmente arrestabili. Lo fa con una sensibilità (e una cautela) tutta africana (come lo scomparso Sembene con il suo Mooladè), coniugando violenza e poesia, elementi apparentemente antitetici ma abilmente mescolati dalle mani esperte del regista. La violenza non è narrata nei suoi aspetti più feroci, sanguinari ed appariscenti, ma si insinua sottilmente in un agire dove l’apparire nasconde come una fitta rete (ma pur sempre rete) il reale essere: uomini stimolati da una profonda fede, motivazioni granitiche, processi con contraddittorio, interazioni dialoganti  che sembrano fluire ma che sottendono una realtà precostituita, immobile e perciò immodificabile e mortificante. La violenza (non l’Islam che Sissako rispetta come si evince dal dialogo tra imam e integralista) non è avvertita come una sciabolata ma come una sequela di penetranti stilettate. La poesia dei visi di tutte le donne coinvolte mette in risalto il contrasto con la brutalità fasciata dei fondamentalisti, i loro abiti pluricolorati rivelatori di ricchezza interiore confliggono con l’arido vestiario degli uomini dominanti che quasi non si distingue dal desertume circostante. Sembra quasi di scorgere una doppia valenza nell’uomo della tenda nel deserto che sembra correre sulle acque del fiume verso un destino tragico,  come un Cristo consapevole di andare verso il proprio martirio.
La difficoltà di comunicare, rimarcata dalla pluralità di dialetti che non si incontrano, sottolinea l’incomprensibilità tra visioni diverse nonostante il comune credo, che evidenzia l’assurdità di un conflitto così profondo tra fratelli di fede.
Una grande opera densa e spessa in cui il dolore, la sofferenza e la sopraffazione sono filtrati paradossalmente dalla bellezza: delle immagini, delle donne, dei paesaggi, dell’innocenza, quasi per lenire l’assorbimento da parte di chi osserva della durezza di una realtà, che inevitabilmente evoca scene recenti di sagome arancioni inginocchiate o chiuse in stie metalliche ripetute in mondovisione in un crescendo senza fine. Peccato per un doppiaggio  troppo occidentale per rendere al meglio atmosfere e pensieri di culture lontane dalla nostra; ma è l’unica dissonanza in una splendida sinfonia.

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