Anno | 2023 |
Genere | Western |
Produzione | Italia, Francia |
Durata | 60 minuti |
Regia di | Francesca Comencini |
Attori | Matthias Schoenaerts, Noomi Rapace, Nicholas Pinnock, Lisa Vicari, Tom Austen Benny O.-Arthur, Slavko Sobin, Michela De Rossi, Tiberiu Harsan, Jyuddah Jaymes, Eric Kole, Emeline Lambert. |
MYmonetro | Valutazione: 1,50 Stelle, sulla base di 1 recensione. |
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Ultimo aggiornamento venerdì 3 marzo 2023
Il classico del cinema western Django rivisitato in una serie internazionale liberamente tratta dal film di Sergio Corbucci.
CONSIGLIATO NO
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Ambientata nel 1872, sette anni dopo la Guerra di Secessione, la serie segue le vicende di Django (Matthias Schoenaerts), un ex soldato confederato che si muove alla ricerca della verità sul massacro che ha totalmente distrutto la sua famiglia. Nelle sue peregrinazioni l'eroe raggiungerà New Babylon, una comunità utopica nata dalle ceneri della guerra, in seguito alla vittoria degli Stati Uniti contro gli Stati Confederati d'America: una vera e propria oasi di libertà, fondata dall'enigmatico John Ellis (Nicholas Pinnock), un uomo di colore, quindi da poco un uomo libero - seppure gli afroamericani vivano ancora sulla loro pelle discriminazioni e soprusi. Nella comunità risiede anche Sarah (Lisa Vicari) il cui passato si intreccia amaramente con quello del protagonista, la quale dovrà fronteggiare la signora - e guida spirituale - della città rivale di Elmdale, Elizabeth Thurmann (Noomi Rapace), donna tanto potente quanto crudele.
La serie nasce come omaggio a uno dei film cult più importanti nella storia dello Spaghetti Western: Django di Sergio Corbucci sconvolse le sale internazionali nel 1966 per via della sua aspra violenza, per il cinismo che colora l'intero percorso del protagonista e dei suoi avversari, e per una crudeltà che fino ad allora raramente aveva sfiorato non solo il genere americano di riferimento ma il cinema stesso.
La potenza del film di Corbucci determinò il successo dell'attore-feticcio Franco Nero, ridefinì il genere, stravolse - insieme alla produzione di Sergio Leone e degli altri non-americani del Western - tanto i rapporti tra l'industria cinematografica americana con quella europea, quanto la considerazione del passato americano, in un'operazione di contro-revisionismo che abbatté gli stereotipi assodati e stolidi ingenerati nel genere cinematografico "più americano" di sempre.
Un successo che si ripercosse in una quantità smisurata di sequel non ufficiali (e spesso semplicemente contenendo il solo "brand" Django nel titolo) e operazioni citazionistiche da parte di alcuni dei cineasti più importanti all'inizio degli anni Duemila - Django Unchained di Quentin Tarantino, nel 2012, e prima ancora il pop Sukiyaki Western Django di Takashi Miike, nel 2007, a cui partecipò lo stesso Tarantino con un cameo.
La miniserie, prodotta da Sky e Canal+ su sceneggiatura di Maddalena Ravagli (Bianco e nero) Leonardo Fasoli e Max Hurwitz (ZeroZeroZero), vede in primo piano la partecipazione alla regia (dei primi quattro episodi) di Francesca Comencini, che da subito testimonia - sia per sua dichiarazione e come è ben evidente nell'incipit della serie - il forte riferimento alla produzione western americana conseguente all'impatto dello Spaghetti Western, e in particolare a Il mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckinpah, di cui possiamo scorgere i toni crepuscolari che tingono tutti i dieci episodi della miniserie Django. Ma questo è sufficiente? Basta ripiegare su questi riferimenti per parlare di un vero e proprio adattamento, ovvero di una rinascita - come venne anticipato ed è stato confermato da alcune recensioni - del personaggio? A nostro parere no.
È sicuramente interessante la piega riflessiva che questa miniserie prende sin dal suo incipit: la violenza e la crudeltà che caratterizzano il testo originario sembrano, all'inizio del primo episodio, essere garantite; da subito, però, ci accorgiamo di un particolare "appesantimento" tragico. Un esempio: la scena dell'uccisione di un bisonte - un'attività necessaria per la sopravvivenza familiare - diventa, qui, rito di iniziazione e strumento narrativo per collegare le linee temporali - che si sviluppano su altrettanto appesantiti flashback volti a "psicanalizzare" i personaggi in un andirivieni fin troppo didascalico. Assistiamo pian piano a un processo di trasfigurazione di Django: non più un uomo alla ricerca della verità e di vendetta, ma un padre che, pur avendo perso la sua famiglia, cerca redenzione per il suo passato, per gli errori commessi e per le scelte di posizionamento nel contesto politico dell'epoca. Sebbene l'attore belga Matthias Schoenaerts sia particolarmente azzeccato per riproporre l'iconicità del personaggio - e la comparsata di Franco Nero nella serie lo testimonia - il nostro protagonista appare, nel corso degli episodi, come un uomo a pezzi, e spesso in maniera forzata viene relegato a un ruolo secondario.
Nuovamente, è interessante l'attenzione posta da Comencini (e da David Evans ed Enrico Maria Artale, alla regia degli episodi successivi) ai personaggi femminili, trasformando in ruoli primari - e più evidenti - Elizabeth Thurmann (una splendida Noomi Rapace), potente signora e leader della città rivale di Elmdale, un'antieroina ambigua ed emotivamente grigia, e Sarah (Lisa Vicari), eroina che molto più del personaggio che intitola la serie funge da destinataria dei caratteri del Django storico.
In questo, la miniserie Django è un'interessante operazione di "revisionismo": d'altronde di questo dobbiamo parlare se inseriamo all'interno di una trama originariamente caratterizzata per la sua violenza e ambientata in un periodo storico del tutto respingente le contemporanee politiche "di piattaforma". Politiche che - à la Boris - obbligano gli sceneggiatori a inserire la linea narrativa LGBT e quella del divario di genere, trasformando l'oggettivamente interessante caratterizzazione dei ruoli femminili, e la loro prospettiva narrativa, in - purtroppo - una sorta di quota rosa nel selvaggio West. O che, in maniera ancor più artefatta, raccontano una libertà impossibile per la comunità afroamericana alla fine del Diciannovesimo secolo, trasformando il racconto western in un divertissement fantascientifico (o, meglio, ucronico): un episodio what-if lungo dieci puntate.
Una rivisitazione del West molto interessante, ma altrettanto dispersiva e controproducente, dal momento che si perdono totalmente le affinità col prodotto originario - rendendo la miniserie solo l'ennesimo sequel ufficioso del brand "Django" - di cui si trascurano la durezza e la violenza - che non erano mai gratuite, semmai metanarrative (e perciò gustate e ri-amalgamate, quindi vomitate e ricostruite, ricontestualizzate e "ri-significate" tanto da Tarantino quanto da Miike) - e trasformando non solo Django in un personaggio comprimario (a nostro parere addirittura secondario, o trascurabile) ma la stessa storia in un frammentato miscuglio di istanze contemporanee.
Un mash-up dove la violenza che (solo a tratti) rivive sullo schermo è una violenza posticcia, o dovuta. Peggio ancora: obbligata. Ecco che, allora, il problema della miniserie sta nel titolo (e quindi a monte): Django si racconta come un sequel, ma non lo è affatto; e se invece l'intento era di rendere omaggio, in questi termini assomiglia più a un insulto. Sì, compare l'iconica bara, compare Franco Nero (che torna, di nuovo, come cameo) e, come per Corbucci, compare una nuova donna del west, ma tra tutte queste apparizioni scompare, purtroppo, proprio Django.