lore64
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lunedì 21 novembre 2016
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serio e poetico quanto unilaterale e pesante
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Film serissimo e certamente da vedere, dotato di una sua profonda vena poetica. Purtroppo, oltre a procedere a salti, si concentra esclusivamente sul difficile ambiente familiare e soprattutto sulla malattia del poeta. I pochi brani letti vengono fatti emergere di lì, giustificando l'opinione assolutamente e quasi rabbiosamente respinta da Leopardi, secondo cui la sua filosofia pessimistica era frutto diretto delle sue difficoltà di salute. In più la seconda e terza parte sono estremamente lente e strascicate, con scene volutamente protratte oltre il necessario e un approccio stereotipato (sembra che ogni singolo istante della sua vita sia stato una lotta affannosa contro la famiglia prima e contro la malattia poi) e sopra le righe (in confronto al Leopardi del film il gobbo di Notre Dame era un atleta professionista).
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Film serissimo e certamente da vedere, dotato di una sua profonda vena poetica. Purtroppo, oltre a procedere a salti, si concentra esclusivamente sul difficile ambiente familiare e soprattutto sulla malattia del poeta. I pochi brani letti vengono fatti emergere di lì, giustificando l'opinione assolutamente e quasi rabbiosamente respinta da Leopardi, secondo cui la sua filosofia pessimistica era frutto diretto delle sue difficoltà di salute. In più la seconda e terza parte sono estremamente lente e strascicate, con scene volutamente protratte oltre il necessario e un approccio stereotipato (sembra che ogni singolo istante della sua vita sia stato una lotta affannosa contro la famiglia prima e contro la malattia poi) e sopra le righe (in confronto al Leopardi del film il gobbo di Notre Dame era un atleta professionista). Film buono più per chi voglia lasciarsi fascinare da una dolente poesia esistenziale che non per chi cerchi informazioni chiare e un quadro obbiettivo della personalità e dell'opera leopardiane.
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lbavassano
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giovedì 17 marzo 2016
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contaminazioni pericolose
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Si lascia forse prendere un po’ troppo la mano, Mario Martone, nel terzo atto della tragedia leopardiana, ambientato nella sua Napoli, a rischio di qualche bozzettismo folcloristico di troppo, ma indubbiamente riesce splendidamente a comunicare un senso di liberazione, dopo la claustrofobia della sterminata quanto opprimente biblioteca paterna della prima parte, del matto e disperato studio volto a liberarsi dalle angustie di una mentalità comunque provinciale. Dopo la disillusione, nella seconda, derivata dalla conoscenza diretta della realtà dei salotti e delle accademie fiorentine, delle grandezze e miserie delle consorterie intellettuali. Un senso di liberazione che coincide con l’acme della tragedia, e con una discesa agli inferi nella carnalità popolaresca, e proprio qui, certo volutamente, il sublime poetico viene a coincidere con quel troppo di bozzettistico di cui dicevo, nella rischiosa contaminazione di Mann e Malaparte, del mito dell’ermafrodito con il folclore dei bassi e del femminiello.
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Si lascia forse prendere un po’ troppo la mano, Mario Martone, nel terzo atto della tragedia leopardiana, ambientato nella sua Napoli, a rischio di qualche bozzettismo folcloristico di troppo, ma indubbiamente riesce splendidamente a comunicare un senso di liberazione, dopo la claustrofobia della sterminata quanto opprimente biblioteca paterna della prima parte, del matto e disperato studio volto a liberarsi dalle angustie di una mentalità comunque provinciale. Dopo la disillusione, nella seconda, derivata dalla conoscenza diretta della realtà dei salotti e delle accademie fiorentine, delle grandezze e miserie delle consorterie intellettuali. Un senso di liberazione che coincide con l’acme della tragedia, e con una discesa agli inferi nella carnalità popolaresca, e proprio qui, certo volutamente, il sublime poetico viene a coincidere con quel troppo di bozzettistico di cui dicevo, nella rischiosa contaminazione di Mann e Malaparte, del mito dell’ermafrodito con il folclore dei bassi e del femminiello. Ma un senso di liberazione che coincide anche con la piena espressione della parola poetica, limpidamente scandita, cui giustamente è affidato il finale.
Rivisto ad un anno e mezzo di distanza, grazie alla riproposizione della Sala Pastrone e del Circolo Vertigo, a conclusione dell’ottima rassegna dedicata allo strepitoso Elio Germano, il film di Martone conferma gran parte dei propri meriti, a partire dal non aver preteso di spiegare il mistero del genio, a differenza di troppe, fin troppo celebrate, opere consimili, di non averlo voluto ridurre alla dimensione miseramente umana del pettegolezzo, del sublime visto attraverso il buco della serratura, in mutande. Ed il merito, difficilmente conciliabile con queste premesse, di aver saputo rendere vivo tale genio, nonostante la scelta di non sminuirlo, anzi, e nonostante lo scrupoloso rispetto nei confronti del dettato delle sue parole, rifuggendo da attualizzazioni banalizzanti. Mostra però anche qualche limite, oscurato dall’entusiasmo della prima visione, ma si tratta comunque di scelte precise, perseguite con coerenza mirabile anche se personalmente non pienamente condivisibili.
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andrejuve
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lunedì 28 dicembre 2015
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il ritratto di un genio perennemente insoddisfatto
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“Il giovane favoloso” è un film del 2014 diretto da Mario Martone. Giacomo Leopardi è un giovane ragazzo di Recanate appartenente ad una famiglia benestante. Giacomo vive in una lussuosa casa in questo paesino delle Marche assieme al fratello Carlo, alla sorella Paolina, alla madre e al padre Monaldo, il quale nutre nei confronti del figlio una grandissima ammirazione che tende addirittura ad un’idolatrazione. Questo perché Giacomo è dotato di una mente brillante che riesce ad esprimersi al meglio attraverso la sua vena poetica. Lo zio di Giacomo, il quale lavora all’interno del mondo ecclesiastico di Roma, spera in una carriera che sfoci nell’investitura di cardinale, mentre il padre vede per il figlio un futuro come filologo.
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“Il giovane favoloso” è un film del 2014 diretto da Mario Martone. Giacomo Leopardi è un giovane ragazzo di Recanate appartenente ad una famiglia benestante. Giacomo vive in una lussuosa casa in questo paesino delle Marche assieme al fratello Carlo, alla sorella Paolina, alla madre e al padre Monaldo, il quale nutre nei confronti del figlio una grandissima ammirazione che tende addirittura ad un’idolatrazione. Questo perché Giacomo è dotato di una mente brillante che riesce ad esprimersi al meglio attraverso la sua vena poetica. Lo zio di Giacomo, il quale lavora all’interno del mondo ecclesiastico di Roma, spera in una carriera che sfoci nell’investitura di cardinale, mentre il padre vede per il figlio un futuro come filologo. Giacomo, oltre ai gravi problemi fisici legati ad una malformazione delle ossa e a forti bruciori agli occhi che ne condizionano la vista, soffre questa situazione che lo condiziona psicologicamente e lo porta ad un perenne stato di depressione e tristezza causato anche dall’incessante e irrefrenabile studio che l’ha sempre accompagnato nel corso dell’esistenza. L’ambiente di Recanati è troppo stretto per Giacomo e non riesce più a sopportare le convenzioni, le restrizioni e la staticità delle idee del padre e, dopo l’incontro col letterato Pietro Giordani avvenuto a seguito di un’intensa corrispondenza epistolare, decide di partire per Firenze nonostante le forti opposizioni del padre. Giacomo infatti vuole scoprire il mondo a lui circostante nella speranza di un futuro per lui più roseo e ricco di scoperte. A Firenze abita assieme al suo grande amico Antonio Ranieri, di origine napoletana, il quale instaurerà un rapporto sentimentale con la borghese Fanny Targioni Tozzetti della quale Giacomo è innamorato ma, suo malgrado, l’amore non viene corrisposto e il protagonista ne soffrirà parecchio. Leopardi acquisisce una fama sempre maggiore grazie alle sue poesie inizialmente osannate ma che col tempo sono diventate oggetto di critica perché, a detta di alcuni, sono monotematiche e sempre incentrate sulla malinconia. Dopo qualche anno, a seguito dell’insistenza di Ranieri, Giacomo accetta di trasferirsi a Napoli. Nella città campana Giacomo sembra apparentemente aver trovato degli sprazzi di felicità, ma purtroppo non sarà realmente cosi. Nel frattempo i problemi fisici lo rendono sempre più gobbo e gli provocano evidenti difficoltà nei movimenti. Il regista attraverso questa pellicola focalizza brillantemente l’attenzione sulla figura di Giacomo Leopardi soprattutto dal punto di vista psicologico, riuscendo a fornire una dettagliata analisi di uno dei migliori poeti della storia italiana. Leopardi sin da piccolo è stato indirizzato dal padre ad una vita incentrata sullo studio e sull’apprendimento quasi maniacale che ha contribuito al suo sviluppo intellettivo e alla sua capacità di comporre versi poetici. Leopardi è sempre stato pervaso da un forte pessimismo e da un senso di insoddisfazione totale che, se inizialmente sembrava essere esclusivamente frutto dell’insofferenza e delle restrizioni imposte dal padre, successivamente si è rivelato essere conseguenza di una generale repulsione nei confronti dell’umanità e della natura. Sicuramente la salute precaria ha contribuito a maturare questi sentimenti di avversità ma, accanto a ciò, ha avuto un peso enorme l’incapacità del protagonista di relazionarsi con le altre persone e di socializzare. Leopardi è sempre stato ancorato ai ricordi di un passato corrispondente agli anni della giovinezza caratterizzati dalla spensieratezza e dalla voglia irrefrenabile di vivere e di gioire quotidianamente. Col passare del tempo ha preso il sopravvento il mal di vivere e con esso anche la timidezza, l’inquietudine e il tormento interiore. Sicuramente la forte sensibilità di Leopardi ha causato in lui una rassegnazione nei confronti di una società egoista e spesso disinteressata a tutto quello che le accade attorno. Questo disagio è giustificabile ma è necessario reagire e a mio avviso il Leopardi descritto nel film è un ragazzo che, nonostante nutra la volontà di reagire, in concreto non attua alcun cambiamento. Di conseguenza non ha saputo godere a pieno dei piaceri della vita e non è riuscito ad apprezzare pienamente coloro che gli sono stati accanto a partire dal padre, col quale si era instaurato un rapporto controverso di amore e odio, sino ad arrivare ad Antonio Ranieri. Leopardi aveva bisogno di amore a qualsiasi livello però il suo atteggiamento lo ha portato ad una sorta di distacco con la realtà. Anche l’incapacità di avere contatti col mondo femminile non ha contribuito ad un miglioramento della sua situazione esistenziale. Ma nonostante questo le persone che lo hanno accompagnato nella vita hanno sempre nutrito nei suoi confronti un sentimento di ammirazione e hanno dato dimostrazione di tutto il bene che hanno provato per lui. La poesia ha rappresentato l’unico mezzo per esternare tutte le sensazioni negative, anche quelle più difficili da esprimere. Leopardi è stato un genio spesso incompreso a causa della sua intelligenza superiore e dell’incredibile capacità di analizzare la realtà esterna ma, allo stesso tempo, è stato lui stesso l’artefice dell’inesorabile declino per via del suo atteggiamento di accettazione nei confronti della condizione in cui versava. Un bel film reso tale grazie alla capacità del regista Martone di trasmettere allo spettatore quella costante sensazione di sofferenza e insoddisfazione che pervadono il protagonista, riuscendo ad immedesimarsi in lui. Eccezionale e di alto livello la prova di Elio Germano nella parte di Leopardi, in quanto riesce ad interpretare un ruolo a dir poco complesso a causa delle variegate sfaccettature all’interno della mente di un personaggio tanto geniale quanto psicologicamente instabile. Un film da vedere.
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andrea alesci
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giovedì 22 ottobre 2015
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le felicità celate nell'indefinitezza di leopardi
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L’opera di Mario Martone ha il nobile pregio di scollare le parole di Giacomo Leopardi dalle pagine delle antologie liceali per farcele riscoprire eternamente vive. Il suo sentire profondo, la lirica musicalità dei suoi componimenti, la ricerca di una verità che sempre per l’uomo è approdo al pulsante buio del dubbio.
La musica scorre nelle poesie di Leopardi grazie alle intense note vibrate dal tedesco Sascha Ring “Apparat”, che ogni volta sa disegnare suoni come un pittore farebbe col pennello, restituendoci la sublime sensazione di essere dentro alle stanze dei canti Leopardiani.
Mario Martone ci regala una prospettiva di Giacomo Leopardi che trova in Elio Germano il miglior interprete possibile; e pare che d’ora innanzi l’immagine del giovane Giacomo non possa che legarsi alle sue movenze ed espressioni.
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L’opera di Mario Martone ha il nobile pregio di scollare le parole di Giacomo Leopardi dalle pagine delle antologie liceali per farcele riscoprire eternamente vive. Il suo sentire profondo, la lirica musicalità dei suoi componimenti, la ricerca di una verità che sempre per l’uomo è approdo al pulsante buio del dubbio.
La musica scorre nelle poesie di Leopardi grazie alle intense note vibrate dal tedesco Sascha Ring “Apparat”, che ogni volta sa disegnare suoni come un pittore farebbe col pennello, restituendoci la sublime sensazione di essere dentro alle stanze dei canti Leopardiani.
Mario Martone ci regala una prospettiva di Giacomo Leopardi che trova in Elio Germano il miglior interprete possibile; e pare che d’ora innanzi l’immagine del giovane Giacomo non possa che legarsi alle sue movenze ed espressioni. Egli sprofonda dentro l’animo di Leopardi e fa tutt’uno con il suo crescendo di dolori e afflizioni che giorno dopo giorno, anno dopo anno ne fiaccano il corpo, accartocciato come emblema di una onnipossente forza naturale ch’è trama ineludibile dell’esistenza umana (e delle sue poesie).
Ma più di tutto è l’animo a essere schiacciato: dall’intransigenza del conte Monaldo Leopardi (Massimo Popolizio), dalla pedante evanescenza della madre Adelaide Antici Leopardi (Raffaella Giordano) e da quella biblioteca immensa che lo nutre e lo stritola al medesimo tempo come fa una Recanati così cara ai suoi ricordi d’infanzia eppure divenuta insopportabile prigione dalla quale fuggire, con la forza delle parole e di amici come Pietro Giordani (Valerio Binasco).
E amici come l’aitante Antonio Ranieri (Michele Riondino), colonna portante e spalla fiduciosa sulla quale il flebile Giacomo può sempre trovare conforto. O se non altro sollievo a quella malinconia che trasuda da ogni catena di sillabe che inchiostra sulla pagina, da quel suo verseggiare osteggiato in maniera crescente dai letterati che gli sfilano accanto e lo definiscono fuori tempo per un’epoca che desidera essere romantica, che intende rivolgersi alla società con passione, che vuole guardare alle “magnifiche sorti e progressive” del secolo che incalza. Giacomo è l’escluso, sia nella camera chiusa degli intellettuali a Firenze sia nel caffè che si affaccia in piazza del Plebiscito a Napoli, dove ancora una volta una tronfia borghesia s’infila nel facile cunicolo del (pre)giudizio, additandolo come pessimista.
“Non attribuite al mio stato quello che si deve al mio intelletto” tuona Giacomo Leopardi ai suoi detrattori. La sua condizione di estraneo è sprone a quei versi d’indefinita dolente malinconia, ma quel che i più non afferrano è come tutta la condizione umana sia fulcro passivo della possanza della Natura. E noi sentiamo come nei versi di Leopardi/Germano stia accoccolata una vitalità ch’è controcanto innato e invisibile alle stesse parole del poeta: a dirci di sottecchi che forse solo l’amore può esserci d’aiuto nella ricerca di sottili, transitorie felicità.
Quelle felicità intraviste dal suo ciglio furtivo nelle avventure romantiche dell’amico Ranieri con Fanny Targioni-Tozzetti (Anna Mouglalis), frammenti nel dialogo ininterrotto tra l’infinito dello spazio-tempo e la percezione del nostro tempo umano. Ed è dolce perdersi nell’indefinito vagare delle parole di un Giovane favoloso che su una terrazza di Torre del Greco chiude lo sguardo sotto un cielo stellato e ci lascia negli occhi l’immagine più potente della poetica Leopardiana: il renitente capo di una piccola ginestra.
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aristoteles
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martedì 20 ottobre 2015
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germano leopardi
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Coraggiosa e apprezzabile la scelta di portare Leopardi sul grande schermo.
Tuttavia il film,sebbene sostenuto da un'ottima fotografia e da una più che discreta interpretazione di Germano,non incanta.
C'è troppa lentezza,ci si sofferma troppo sulla cagionevole salute del poeta,anche se era doveroso farvi riferimento, e ci si emoziona davvero poco.
I dialoghi vorrebbero essere raffinati ma si rilevano spesso prolissi e noiosi.
Credo che si sia trascurata troppo la vena creativa e poetica dell'artista,magari raccontandoci questa e soffermandosi di meno sulle gobba,la pellicola ne avrebbe beneficiato.
Anche il pessimismo,in fondo non è raccontato con profondità,pur accennando al fatto che sia intellettivo e non fisico.
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Coraggiosa e apprezzabile la scelta di portare Leopardi sul grande schermo.
Tuttavia il film,sebbene sostenuto da un'ottima fotografia e da una più che discreta interpretazione di Germano,non incanta.
C'è troppa lentezza,ci si sofferma troppo sulla cagionevole salute del poeta,anche se era doveroso farvi riferimento, e ci si emoziona davvero poco.
I dialoghi vorrebbero essere raffinati ma si rilevano spesso prolissi e noiosi.
Credo che si sia trascurata troppo la vena creativa e poetica dell'artista,magari raccontandoci questa e soffermandosi di meno sulle gobba,la pellicola ne avrebbe beneficiato.
Anche il pessimismo,in fondo non è raccontato con profondità,pur accennando al fatto che sia intellettivo e non fisico.
Sufficiente,ma si poteva scavare più a fondo, il personaggio e l"uomo lo avrebbero meritato.
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dario
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domenica 11 ottobre 2015
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didascalico
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Il film è bloccato su una descrizione convenzionale, non su una interpretazione del personaggio: Leopardi è trasformato in un santino. Tutti parlano con la patata in bocca e anzichè dire cose esprimono oracoli. Un mare di frasi fatte, di atteggiamenti già visti, con la novità, si fa per dire parlando di cinema italiano, degli atteggiamenti e dei movimenti a capocchia, spesso sfasati, innaturali. Ogni attore è una figura prefissata, ogni scena una maessa in scena. Si salvano la fotografia e le ricostruzioni ambientali, a volte entrambe strraordinarie. L'impostazione è didascalica, manca totalmente il crescendo, annoia. Spiritato il protagonista.
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Il film è bloccato su una descrizione convenzionale, non su una interpretazione del personaggio: Leopardi è trasformato in un santino. Tutti parlano con la patata in bocca e anzichè dire cose esprimono oracoli. Un mare di frasi fatte, di atteggiamenti già visti, con la novità, si fa per dire parlando di cinema italiano, degli atteggiamenti e dei movimenti a capocchia, spesso sfasati, innaturali. Ogni attore è una figura prefissata, ogni scena una maessa in scena. Si salvano la fotografia e le ricostruzioni ambientali, a volte entrambe strraordinarie. L'impostazione è didascalica, manca totalmente il crescendo, annoia. Spiritato il protagonista. Leopardi era tutt'altro.
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dejan t.
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sabato 10 ottobre 2015
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l'immensità del cosmo, la fragilità dell' uomo
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Ci vuole abilità e talento per scegliere di narrare, di analizzare attraverso l'arte cinematografica la vita è il pensiero di grandi figure del passato, che hanno segnato la cultura e la società in modo permanente. Capacità che sicuramente non manca al regista Mario Martone, che ha trovato in Giacomo Leopardi (uno dei più grandi poeti lirici italiani) il soggetto ideale per questa sua pellicola.
La vicenda presenta gli eventi biografici e lo sviluppo del pensiero del poeta, vissuto nella prima metà dell'Ottocento. La scelta di associare particolari momenti della vita di Leopardi alla produzione letteraria legata a quei periodi permette di ottenere un'efficace contestualizzazione delle sue opere: nel film infatti sono presenti i canti "La sera del dì di festa", "L'infinito", "A Silvia" e la poesia che chiude la scena finale: "La ginestra".
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Ci vuole abilità e talento per scegliere di narrare, di analizzare attraverso l'arte cinematografica la vita è il pensiero di grandi figure del passato, che hanno segnato la cultura e la società in modo permanente. Capacità che sicuramente non manca al regista Mario Martone, che ha trovato in Giacomo Leopardi (uno dei più grandi poeti lirici italiani) il soggetto ideale per questa sua pellicola.
La vicenda presenta gli eventi biografici e lo sviluppo del pensiero del poeta, vissuto nella prima metà dell'Ottocento. La scelta di associare particolari momenti della vita di Leopardi alla produzione letteraria legata a quei periodi permette di ottenere un'efficace contestualizzazione delle sue opere: nel film infatti sono presenti i canti "La sera del dì di festa", "L'infinito", "A Silvia" e la poesia che chiude la scena finale: "La ginestra".
Per quanto riguarda le ambientazioni, le scene della biblioteca del padre di Giacomo sono girate nelle stanze originali del palazzo del conte Monaldo; la presenza a Recanati (la città natale di Leopardi) di borghi e vicoli testimoni del tempo passato ha premesso a Martone di trasportare lo spettatore direttamente nel contesto storico e cittadino cui venne a contatto anche il poeta. La scenografia, quindi, così come i costumi di scena di ottimo livello, contribuiscono al pregevole esito finale.
La colonna sonora guida lo spettatore attraverso i sentimenti e le emozioni del protagonista.
Martone dispone inoltre di un magnifico gruppo di attori: l' interpretazione del giovane Giacomo è affidata all'esperienza di Elio Germano, che riesce ad entrare con un'impressionante abilità recitativa nelle vesti del protagonista.
Elio è capace di farci conoscere il personaggio di Leopardi in tutte le sue sfumature psicologiche: un uomo angoscioso e triste di fronte al fatale destino umano, ma allo stesso tempo estasiato di fronte all'immensità del cosmo; una grandezza che ci fa percepire così piccoli e fragili, solo un infinitesimo bagliore in un universo di stelle...
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dana scully
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mercoledì 9 settembre 2015
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grande delusione
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Peccato. Germano (probabilmente uno dei migliori attori italiani, al momento, se non il migliore) con questo ruolo non c'azzecca nulla. Manca l'empatia, il ruolo non è 'sentito' e il risultato quindi molto deludente.
Più che discreto Popolizio, ma il resto del cast è si e no da fiction tv, compresa una regia fin troppo da cartolina.
Il film è lento e tendente al noioso, diventa macchiettistico nella parte napoletana, fin troppo 'calorosa', quanto era stato pressochè inespressivo nella parte fiorentina.
Personalmente, dopo le grandi aspettative, una grande delusione.
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cress95
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giovedì 16 luglio 2015
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l'infinito leopardi di martone
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Breve quanto fondamentale premessa: "Il giovane favoloso", ultima fatica del regista di "Noi credevamo" Mario Martone si presenta come un'opera più poetica che cinematografica, la quale non è, e non vuole essere, accessibile ai più.
La pellicola ripercorre la vita del "sommo poeta italiano" (con buona pace dell'Alighieri) dalla spensierata gioventù fino agli anni dello studio "matto e disperatissimo".
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Breve quanto fondamentale premessa: "Il giovane favoloso", ultima fatica del regista di "Noi credevamo" Mario Martone si presenta come un'opera più poetica che cinematografica, la quale non è, e non vuole essere, accessibile ai più.
La pellicola ripercorre la vita del "sommo poeta italiano" (con buona pace dell'Alighieri) dalla spensierata gioventù fino agli anni dello studio "matto e disperatissimo". In un così lineare contesto spiccano grandi nomi del calibro di Massimo Popolizio (Monaldo Leopardi, severo padre del poeta), Raffaella Giordano (nella parte di Adelaide Antici, l'inflessibile madre del poeta) e, ovviamente, del grande Elio Germano, la cui evocativa recitazione da nuova vita a Leopardi, attualizzandone il pensiero senza per ciò snaturarlo.
L'andamento del film rende lo spettatore partecipe in prima persona dell'angoscia e della cupa disperazione dell'anima del poeta, il cui estro è protagonista assoluto della pellicola. Nonostante siano numerosi, i momenti di stanca vengono messi in ombra dalla stupefacente attualità dei versi del poeta, che intervenendo quasi in modo salvifico, catturano lo spettatore in un magico giogo.
Forse un po' troppo repentini i tentativi di alternare il "Leopardi poeta" al "Leopardi uomo", mediante il susseguirsi di scene squisitamente poetiche ed erudite e di contesti più umani, diciamo di ricerca del bello: insomma un passaggio dall'"erudito al bello" (al quale segue un inevitabile cambiamento "dal bello al vero", saggiamente rappresentato dal regista nelle scene del finale declino fisico del poeta).
La colonna sonora, firmata Sascha Ring, fa il suo dovere nell'accompagnare l'andamento malinconico e quasi claustrofobico della vicenda, pur restando lontana, a mio avviso, dagli apici dell'eccellenza.
In conclusione "Il giovane favoloso" si presenta, agli occhi del sottoscritto, non certo come un capolavoro, ma sicuramente come la (attuale) migliore pellicola ispirata all'immortale poeta di Recanati: un film più onirico che materiale, più trascendente che immanente.
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mauro
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domenica 21 giugno 2015
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leopardi non si racconta si emoziona.
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Leopardi era un uomo, non era un Dio pur nella sua estrema sapienza ha sempre mescolato nelle proprie opere, come tutti fanno del resto acciacchi, sogni, debolezze e contraddizioni, com'è naturale che sia per un essere umano e dimostrare che questo non sia vero attraverso la presentazione di un Giacomo trasfigurato e quanto mai di più falso ci possa essere è ciò che viene insegnato nelle scuole, quello che la gente vuole credere: nell'artista iconico schiavo e padrone del proprio genio e della propria arte, non è mai così, ripeto, abbiamo sempre di fronte un uomo, per quanto grande sia. Elio Germano è bravissimo ed è insieme alla fotografia è l'unica cosa che salvo del film.
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Leopardi era un uomo, non era un Dio pur nella sua estrema sapienza ha sempre mescolato nelle proprie opere, come tutti fanno del resto acciacchi, sogni, debolezze e contraddizioni, com'è naturale che sia per un essere umano e dimostrare che questo non sia vero attraverso la presentazione di un Giacomo trasfigurato e quanto mai di più falso ci possa essere è ciò che viene insegnato nelle scuole, quello che la gente vuole credere: nell'artista iconico schiavo e padrone del proprio genio e della propria arte, non è mai così, ripeto, abbiamo sempre di fronte un uomo, per quanto grande sia. Elio Germano è bravissimo ed è insieme alla fotografia è l'unica cosa che salvo del film. Il resto è noia, inutilità, ritagli di biografie scolastiche poco interessanti. Paradossalmente con la pellicola si è dimostrato quanto sia impossibile fare un film su Giacomo leopardi, è il caso tipico nel quale la ricerca dell'uomo nell'artista non abbia molto senso se non soddisfacimento di un gusto voyeristico per qualcosa di diverso, come si faceva con i fenomeni da circo. Il poeta bisogna accontentarsi di studiarlo e godere di ciò che la sua mente sapesse fare, credo che anche lui avrebbe voluto così ed avrebbe trovato molto sciocco perdere tempo in antologiche biografie. A noi rima l'infinito, A Silvia, la ginestra, lo zibaldone ecc... il resto è la storia di un uomo sfortunato, molto sfortunato che sarebbe potuto essere stupido od intelligente, ricco o povero, muratore od alto prelato, non avrebbe avuto molta importanza. Diciamolo, il film pur ben fatto non è proponibile è una tortura alla quale ci si sottopone solo per curiosità e dalla quale non si vede l'ora di scappare. Il cinema deve essere intrattenimento, anche drammatico s'intende e di Leopardi non si può fare intrattenimento, merita di più, da una parte e non riesce a soddisfare certi requisiti dall'altra. Le stellette sono solo per la fattura del film che è impeccabile, per il resto è da bocciare.
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