alfiosquillaci
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lunedì 21 gennaio 2013
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il doppio standard estetico. su “django unchained"
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Da ragazzini si aveva il piacere di andare al cinema tutte le volte che lo spleen o il mal tempo lo suggerivano. Si pagavano 150 lire e si vedevano due film. La gioia di vivere con pochi spiccioli. Nessuno saprà mai cosa può essere la dolcezza di vivere se non ha mai visto il cinemascope degli anni Sessanta. Si entrava al cinema scostando una prima cascata di pesanti tendoni di velluto rosso e subito si era immersi in un semibuio freddino, in quella specie di terra di nessuno che non è il fuori e non è il dentro, come le doppie porte nei bar dei paesi del Nord, poi fendevi con la mano una seconda cascata di pesanti tendoni di cui non si distingueva il colore fino a trovare il punto di commessura dei due lembi, e quindi accedevi nella sala, entravi nel paradiso del cinemascope.
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Da ragazzini si aveva il piacere di andare al cinema tutte le volte che lo spleen o il mal tempo lo suggerivano. Si pagavano 150 lire e si vedevano due film. La gioia di vivere con pochi spiccioli. Nessuno saprà mai cosa può essere la dolcezza di vivere se non ha mai visto il cinemascope degli anni Sessanta. Si entrava al cinema scostando una prima cascata di pesanti tendoni di velluto rosso e subito si era immersi in un semibuio freddino, in quella specie di terra di nessuno che non è il fuori e non è il dentro, come le doppie porte nei bar dei paesi del Nord, poi fendevi con la mano una seconda cascata di pesanti tendoni di cui non si distingueva il colore fino a trovare il punto di commessura dei due lembi, e quindi accedevi nella sala, entravi nel paradiso del cinemascope. Immagini gigantesche di cappelloni dal sonoro reboante proiettate in uno schermo dalle dimensioni di un campo di calcio emergevano dal nulla: vedevi il gigantesco viso grifagno di Lee Van Cleef , il villain di sempre degli spaghetti western, la barba rada e tignosa di Gian Maria Volonté, gli occhi di ghiaccio di Clint Eastwood della serie di film di Sergio Leone dai titoli che erano già attanti à la Greimas (il buono, il brutto , il cattivo) o gli occhi cattivi e magnetici di Franco Nero in Djanco, adesso resuscitato da Quentin Tarantino. E come dimenticare quelle voci stentoree egutturali degli indimenticabili doppiatori esibenti un italiano standard, da annunciatori ferroviari o da speaker televisivi, nessuno accento dialettale pena la suspension of disbelief . Un italiano anabolizzato il loro, arcaizzante ma non cruscante (i protagonisti rudi e lerci dei western dicevano correttamente “rammenti?” invece di “ti ricordi?”), parlato da figure evanescenti come semidei perché nulla poteva avere in comune con il nostro italiano impastato da vocali larghe e giri di frase rionali… E poteva essere altrimenti? Ultradefunta era la stagione neorealista, ne avevamo lavati di panni sporchi in famiglia coi film neorealisti…
Ma a differenza di Quentin Tarantino che non si vergogna, adesso, a confessare che s’è nutrito solo di B Movies, di film spazzatura, il nostro divertimento cinematografico plebeo era inconfessabile. La ferrea estetica dell’epoca chiedeva che non si morisse che per Antonioni, Alain Resnais, Jea-Luc Godard, registi che dominarono per un doppio decennio fin quando vennero fatti fuori dallo schiocco di frusta di Indiana Jones e del cinema-cinema di Spilberg che aveva iniziato inventandosi una tensione narrativa da quattro soldi mettendo un Truck di cui non si vedeva il volto del guidatore all’inseguimento di una cadillac arancione (Duel).
Si leggevano anche monografie coscienziose (ricordo un Western maggiorenne, editore Zigiotti di Triesta, beccato in una bancarella già vecchio ai miei tempi) o libroni seri di semiologia (Christian Metz), roba da torturatori dei Cahiers du Cinéma, si discettava già di specifico filmico, e la sera dei fine settimana il supplizio estetico imponeva la liturgia del cineforum democratico delle nostre “corazzate Potëmkin”: I film dei Taviani, “Allonsanfan”, “San Michele aveva un gallo”, o l’immancabile “L’Anno scorso a Maryenbad” con un bellissimo Albertazzi. Mai felici se non venivamo suppliziati da pellicole dai piani sequenza estenuanti, lunghissimi, con pause insensate, arrêt sur image interminabili, sui tetti di Parigi bagnati dalla pioggia minuta insistente, semiologica, senza fine, mentre l’attore inquadrato di spalle fa pipì e, dopo, l’obiettivo che insegue, lentamente, liturgicamente, l’ultimo risucchio dello sciacquone. Un quarto d’ora di sciacquone… E poi, tutti i passi, non uno di più non uno di meno della protagonista sul pavé. Lentissimi e sonori, angoscianti. Nessun ricorso all’ellissi, all’elisione dei tempi morti narrativi, nell’illusione di far coincidere il tempo del narrato col tempo della narrazione. Ah l’école du régard, ah la mise en abîme … L’influenza più nefasta del mio amato Flaubert sulle arti. A lui si rubava l’estetica dello sguardo. Lui che aveva scritto che per capire una cosa bastava guardarla a lungo… (« Pour qu'une chose devienne intéressante, il suffit de la regarder assez longtemps » !
Ma appena possibile si scappava nel cinema di periferia alla ricerca del nostro metadone: gli spaghetti western o i film della serie di Angelica. E si aveva un particolare piacere dopo la costipazione estetica alto di gamma - come dopo aver dismesso uno smoking e indossato delle comode braghette - , sputare le bucce dei semi di zucca tostati o a far saltare con un colpo di pollice la pallina delle gazzose da bere a garganella. Bravate popolari dalumpenproletariat…
Storia e discorso, direbbe il narratologo americano Seymour Chatman (Pratiche, Parma 1978).
Ovvero storie contro discorsi e viceversa. Se un film aveva una storia, lo sviluppo coerente e intrigante di un plot, con la sua fase preparatoria di accumulo con tutti i suoi bei satelliti anticipatori, lo sviluppo, l’acme e lo scioglimento (dénouement lo chiamano i narratologi) ci trovavamo sicuramente davanti a una forma secondaria di arte, commerciale, si diceva schifati storcendo le labbra. Gli happy few si nutrivano con beveroni di pellicole dove se capivi qualcosa… sicuramente il regista aveva fallito. L’illeggibilità (del libro come della pellicola) era il discrimine tra arte pura e arte commerciale: le lunghe sequenze contrapposte al ritmo vorticoso dei ciack. I passi perduti contro lo sparo veloce e i morti che saltano in aria. I silenzi tristi dell’incomunicabilità esistenzialista, contro i dialoghi solari, secchi e polverosi, in quinte spagnole andaluse spacciate per le rocce rossastre di Moab (Utah) o in Monument Valley di seconda mano, dietro l’angolo…
Ma chi alimentava questa estetica punitiva ed elitaria? Nessuno in particolare, ma tutti in generale. Era nell’aria, nell’air du temps direbbero i francesi che sanno. Ma qualcuno la teorizzava anche, con grande intelligenza bisogna dire. Perché gli intellettuali degli anni Sessanta erano straordinari. Ci immettevano in mondi a noi sconosciuti. Facevano fare anche a noi , in loro compagnia, la “gita a Chiasso” sprovincializzante. Erano gli anni di “Tel Quel”, di “Communication”, di “Cahiérs du cimema”, insomma le fin du fin dell’intelligenza parigina; e lo strutturalismo era la vogue dominante.
Riprendendo in mano l’Opera aperta di Umberto Eco si capisce qualcosa di più. «Nessuno potrà negare che lo spettatore de L’année dernière à Marienbad non venga di colpo sradicato, con salutare violenza, da quella assuefazione fatalmente conservatrice cui la schematica consueta del western e del giallo lo aveva piegato». Ma un momento… un momento… chi scrive ciò è lo stesso autore del “giallo” Il nome della rosa? … Il teorico dell’opera aperta, dell’opera priva di un esito necessario, centrata e chiusa in sé, dell’opera in movimento caratterizzata dall’invito a fare l’opera con l’autore, l’opera che dunque progressista oltre che sempre in progress, se il western e il giallo con le loro strutture date e definite erano invece “fatalmente conservatrici”?
Era successo che, come Quentin Tarantino per i B Movies, Umberto Eco aveva saccheggiato tutta la littérature industrielle (così il critico Sainte-Beuve definiva la letteratura dei romanzi d’appendice) e nel raggio di un ventennio (1962 Opera aperta - 1980 Il nome della rosa) mentre teorizzava l’opera aperta e la struttura assente, intelligentemente si rileggeva tutto il romanzo popolare francese, Dumas ed Eugène Sue, scopriva l’effetto cric (minimo sforzo massimo rendimento dei mezzi narrativi, per intenderci lo le ombre di Hitchcock piuttosto che i fiumi di sangue di Dario Argento) e tutti gli artifici della narrazione popolare, scegliendo alla fine il meccanismo classico del giallo (sì, la struttura “fatalmente conservatrice”) il “meccanismo di risoluzione” dell’opera chiusa a luogo del “meccanismo di rivelazione” dell’opera aperta. Tutto ciò, però, si poneva come un clamoroso "contrordine compagni" rispetto agli orfismi estenuati dell’”opera aperta”, perché in quel romanzo di Eco ci troviamo, invero, davanti ad un’opera più che “chiusa”, inchiavardata, come il vecchio baule della nonna, ossia fortemente strutturata e “pensata” a freddo e con forti debiti verso la tradizione narrativa del romanzo popolare di cui si diceva.
Insomma mentre Tarantino riprende il B movie, restandoci a parer mio, Umberto Eco ci gabbava tutti con un marameo colossale perché nel momento in cui noi eravamo a romperci la testa sullo “scuola dello sguardo” lui era andata più oltre, cioè indietro. E Tarantino non è riuscito ad andar più avanti: tranne che nell'uso "industriale" della pummarola...
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terrypietro
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lunedì 21 gennaio 2013
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super meravigliosissimo capolavoro
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Visto stasera dire stupendo è poco lo consiglio a tutti sia come storia che tocca il cuore sia la perfetta recitazione degli attori e superba la regia di Tarantino che in quanto creare capolavori non si smentisce mai!assolutamente da vedere e rivedere!!!
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flyanto
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lunedì 21 gennaio 2013
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una parodia dei films western dotata di un perfett
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Film western in cui si raccontano le avventure vissute da due cacciatori di taglie, un ex medico dentista ed uno schiavo nero liberato dalla prigionia dal dottore stesso, al fine di liberare la moglie dell'ex prigioniero, anch'ella ridotta in schiavitù presso una piantagione di un ricco e violento proprietario terriero. Un'ottima rappresentazione nonchè parodia dei classici films western che Tarantino dimostra, come per altri generi di films da lui ripresi, di conoscere assai bene ed in profondità, cogliendone tutte le caratteristiche. Ed il regista le coglie talmente alla perfezione da poterle rimestare e riproporre alla "sua tipica maniera" e cioè all'insegna della creatività, dell'ironia e della violenza, mescolando questi tre elementi con un equilibrio ed un' alternanza perfetti da non creare alcuna stonatura.
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Film western in cui si raccontano le avventure vissute da due cacciatori di taglie, un ex medico dentista ed uno schiavo nero liberato dalla prigionia dal dottore stesso, al fine di liberare la moglie dell'ex prigioniero, anch'ella ridotta in schiavitù presso una piantagione di un ricco e violento proprietario terriero. Un'ottima rappresentazione nonchè parodia dei classici films western che Tarantino dimostra, come per altri generi di films da lui ripresi, di conoscere assai bene ed in profondità, cogliendone tutte le caratteristiche. Ed il regista le coglie talmente alla perfezione da poterle rimestare e riproporre alla "sua tipica maniera" e cioè all'insegna della creatività, dell'ironia e della violenza, mescolando questi tre elementi con un equilibrio ed un' alternanza perfetti da non creare alcuna stonatura. Forse, sì, a volte risulta una certa eccessività del tutto ma la visione e la concezione che Tarantino ha del cinema è proprio questa: un qualcosa cioè che va oltre i confini reali e che deve non essere preso troppo sul serio. Nelle sue precedenti opere Tarantino si rifà od ai films di spionaggio bellico (vedi "Bastardi senza gloria") od ai films orientali sulle arti marziali (vedi "Kill Bill 1 e 2") od ai films "erotici" di Russ Meyer (vedi "Grind House"), ecc, qui è quello degli spaghetti western da lui ancora non trattato. La scelta degli attori per la parte dei vari protagonisti è perfettamente calzante e tutti loro (da Jamie Foxx che interpreta lo schiavo Django liberato, a Christopher Waltz che interpreta l'ex dottore a Leonardo di Caprio che interpreta magnificamente la parte del ricco e cattivo, direi amorale, proprietario terriero, ecc.). Divertente anche il piccolissimo cammeo che Tarantino stesso si ritaglia come negriero custode dei prigionieri neri della miniera. Mi sembra superfluo aggiungere la dovuta ed ovvia riflessione sul terrificante e deplorevole tema della schiavitù della gente di colore: già si conosce molto su di essa e tutto quello che di cruento, sia fisico che morale, viene rappresentato non risulta, purtroppo un'esagerazione ma la pura e semplice realtà. Ottima la colonna sonora e la fotografia di paesaggi sconfinati e suggestivi. Insomma, definirei quest'ultima pellicola di Tarantino una tra le migliori della stagione. Da non perdere assolutamente.
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nonloso777
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lunedì 21 gennaio 2013
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tarantino rimane tarantino
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Django Unchained è la splendida confezione di una grande storia, scandita attraverso momenti altissimi e personaggi in grado di suscitare le più svariate sensazioni. Si pensi ad esempio a Calvin Candie, il villain interpretato da Leonardo Di Caprio, che in realtà si rivela essere solo una povera vittima del suo stesso ego, ma soprattutto al diabolico Stephen, interpretato in maniera superlativa (a tal punto da riuscire sul serio a divorarsi tutto il resto del cast) da Samuel L. Jackson. In realtà è proprio lui la vera figura malvagia, all’interno di una storia che rappresenta un tassello fondamentale nella filmografia di Quentin Tarantino
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totullo
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lunedì 21 gennaio 2013
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tarantino style
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Djando Unchained rappresenta l’estrema incursione di questo regista all’interno di un certo tipo di cinema che ha sempre avuto un posto speciale nel suo cuore e come tale si può benissimo inserire tra le sue opere più sentite. Animato da un rispetto e da un amore che sono riscontrabili in ogni singola inquadratura, Tarantino ha confezionato la sua pellicola più classica, centellinando gli eccessi ma non i momenti di grande regia e favorendo, questa volta come non mai, la storia e i suoi personaggi, che si distaccano da quelle figure affascinanti e al tempo stesso unidimensionali che hanno animato gran parte delle sue storie.
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sasa83
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domenica 20 gennaio 2013
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il genio di tarantino nel genere western
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Autentico capolavoro. Spaghetti Western mischiato alla geniale follia che caratterizza da sempre Tarantino: dialoghi esilaranti, personaggi "caricatura" e un pizzico di splatter per un film eccezionale sia nella sceneggiatura che nella storia, basata sul razzismo e la schiavitù nel lontano 1858. Esteticamente sublime, ancora una volta Tarantino non ha deluso le attese e questo film rientra di diritto tra le perle del cinema
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kid-a
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domenica 20 gennaio 2013
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oh yes!
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Che critiche da capiscioni cinematografici che leggo!
Ignoratele e andate a vederlo...al cinema...ORA!
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paranoidandroid
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domenica 20 gennaio 2013
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oh yes!
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thecrow56
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domenica 20 gennaio 2013
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quenti non sbaglia mira
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Che QT sia un geniaccio non lo scopriamo ora . Sin dall'inizio così Tarantiniano,sin dalla prima scena il film cattura e sorprende. La genialità del nostro prezioso regista sceneggiatore che tanto ha dato e ancora,a Dio piacendo ,darà al cinema,ancora una volta si staglia nitida e si coglie con facilità in più aspetti. I personaggi sia principali che secondari, tutti così minuziosamente scavati da far emergere il meglio degli attori attraverso la propria recitazione (S .L. Jackson da urlo , DiCaprio per quel che mi concerne mai vsto a sti livelli ) ,già l'idea della nazionalità del co protagonista il Dott Schultz da un impronta vincente alla sceneggiatura.
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Che QT sia un geniaccio non lo scopriamo ora . Sin dall'inizio così Tarantiniano,sin dalla prima scena il film cattura e sorprende. La genialità del nostro prezioso regista sceneggiatore che tanto ha dato e ancora,a Dio piacendo ,darà al cinema,ancora una volta si staglia nitida e si coglie con facilità in più aspetti. I personaggi sia principali che secondari, tutti così minuziosamente scavati da far emergere il meglio degli attori attraverso la propria recitazione (S .L. Jackson da urlo , DiCaprio per quel che mi concerne mai vsto a sti livelli ) ,già l'idea della nazionalità del co protagonista il Dott Schultz da un impronta vincente alla sceneggiatura. I dialoghi ,eleganti ,forbiti o crudi,diretti,surreali e capaci di strapparti il sorriso e di immergere lo spettatore nella vicenda che man mano si snoda . La dinamicità degli eventi e la narrazione degli stessi, i" giusti " eccessi, il colpo di scena associato a quel che lo spettatore si aspetta con ansia che accada. Il suo tributo ( più di uno sicuramente ) al western italiano e al maestro Sergio Leone , il cameo di Franco Nero, i richiami velati tra immagini paesaggi e nomi a Via col Vento,arricchiscono e rendono quest'opera un western unico ,un genere difficile da propoorre nel 2013 ,per farlo ci voleva la maestria di Quentin Tarantino ,semplicemente direi :tiro, RETE !
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@gomoto
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domenica 20 gennaio 2013
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..bellissimo...
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..gradevole,impegnato nel messaggio,per niente scontato nella trama.....
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