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Il figlio più piccolo: Ingenui e furbetti (del quartierino)

Grandi attori e giovani scoperte per il nuovo film di Avati.
di Edoardo Becattini

Il candido stacanovista
Pupi Avati (85 anni) 3 novembre 1938, Bologna (Italia) - Scorpione. Regista del film Il figlio più piccolo.

martedì 9 febbraio 2010 - Incontri

Il candido stacanovista
A poco più di settant'anni, Pupi Avati procede a quei ritmi produttivi serratissimi cui solo i grandi vecchi del cinema paiono adeguarsi. Come Woody Allen, Clint Eastwood o Manoel De Oliveira, Avati gira in media più di un film all'anno, accompagnando da qualche tempo l'uscita di ognuno di questi con un romanzo tradotto dalla relativa sceneggiatura. Forse uno dei motivi di tanta prolificità sta nelle dimensioni del suo cinema, “piccolo” quasi per definizione. Come “piccolo” è anche il figlio al quale dedica il suo ultimo film, nuovo capitolo di un'indagine sulle forme di paternità ma primo in assoluto che guardi con un certo interesse alla realtà italiana e un atteggiamento fortemente critico ai suoi più recenti costumi. Il figlio più piccolo si conferma un piccolo film, nelle dimensioni e nello sguardo, anche se con i grandi obiettivi della critica sociale. Tuttavia, “grandi” sono gli attori che mette in scena, a cominciare da Christian De Sica, ennesima scommessa avatiana di corpo comico che si fa tragico, capace di trasformarsi da italiano medio in vacanza in furbetto del quartierino miserabile, amorale ed estremamente fragile. Oltre a lui e alle conferme di Laura Morante e Luca Zingaretti, la scoperta del “figlio più piccolo” Nicola Nocella, anima candida innamorata di cinema splatter su cui Avati investe il suo elogio della purezza e dell'ingenuità per salvare un'Italia esibizionista e volgare.

Un nuovo film sulla famiglia?
Pupi Avati: Questo è il terzo film in cui mi concentro sulla figura di un padre. Il primo è stato il padre impenitente Diego Abatantuono di La cena per farli conoscere, padre di tre figlie avute con tre madri diverse con le quali si mette in contatto solo in seguito ad una profonda crisi personale. Il secondo padre è il Silvio Orlando de Il papà di Giovanna che è al contrario un padre iper-protettivo, che condiziona la vita della figlia imponendole un ideale di felicità e portandola ad un atto infelice ed estremo come un omicidio. Il terzo padre è il più indecente di tutti, il più infame. Chi conosce i miei film sa che non ho mai fatto un cinema di denuncia, perché non mi piace puntare il dito contro la gente, penso che ognuno debba saper prima giudicare se stesso. Ma il presente di questi ultimi tempi è diventato veramente indecente, perfino per una persona moderata come me. Non parlo solo della politica, che è l'ambito contro cui è più facile scagliarsi in modo un po' qualunquistico. Parlo di tutti gli ambiti in cui domina la volgarità, l'assioma che sei quello che hai, i rapporti interpersonali e una scorrettezza praticata in modo sistematico solo per raggiungere uno specifico fine. È questo universo che porta anche una persona come me a insorgere. E senza nessun secondo fine, senza nessuna ragione specifica cerco di ricandidare l'innocenza più “cogliona”, quella più disarmante. In questa forma, in questo scontro-incontro fra una madre e un figlio che si somigliano nel loro praticare con convinzione l'ingenuità, vedo un modo per poter resettare, per ricominciare da capo. Vorrei ritrovare nella gente lo sguardo che apparteneva a Nik Novecento, senza vergognarsi dell'innocenza, del candore, dell'altruismo. Vorrei frequentare solo persone così, solo persone che credono nei sogni e nelle cose impossibili e cancellare dalla mia interlocuzione tutti gli altri. Proprio per questo motivo credo che d'ora in avanti mi occuperò quasi esclusivamente del presente, perché trovo sia davvero molto preoccupante e necessiti di una certa sorveglianza e attenzione.



Com'è stato confrontarsi con i vostri personaggi?
Christian De Sica: Mi è sempre capitato di avere dei registi che mi dicevano di alzare la voce. Pupi è l'unico che mi diceva sempre di parlare più piano, per non apparire falso, perché la gente parla piano. Il problema è che anche i miei colleghi parlavano piano e spesso mi trovavo a dover leggere il loro labiale perché non capivo quello che dicevano! In realtà Pupi è un grande maestro di recitazione. Ci siamo conosciuti più di trent'anni fa, ai tempi di Bordella, eravamo più giovani. Poi io ho fatto il comico e lui è diventato un maestro del cinema. Negli anni siamo rimasti sempre molto amici, anche perché devo dire che il cinema di Pupi Avati mi ricorda molto il cinema di mio padre. Lavorando nuovamente con lui ho ritrovato un uomo con una grande sensibilità e una grande timidezza che sono la sua forza ed è quello che traspare anche sullo schermo. Avevamo fatto insieme Bordella molto tempo fa e ci siamo ritrovati. Ringrazio Pupi di avermi fatto lavorare con questi colleghi: con Zingaretti è nato un grande amore, ero molto in soggezione con Laura Morante, l'attrice di Bianca di Nanni Moretti, che invece ho scoperto essere più matta di me. Spero che questo film convinca Pupi e altri grandi registi a darmi la possibilità ad interpretare altri grandi personaggi.
Laura Morante: Penso che per interpretare personaggi drammatici sia necessario una grande vis comica, e che per interpretare personaggi comici sia invece necessario un grande senso del tragico. Per me i due aspetti non sono in contraddizione. D'altronde anche il teatro di Shakespeare è tragico e buffo, Kleist è tragico e comico. Io ho sempre cercato di portare con me anche nei personaggi più intensi un senso di derisione, così come penso che un ruolo “ridicolo” come quello di Fiamma, bisogna farlo con grande serietà, con convinzione. Questo film mi piace molto perché lo trovo un film crudele. Sono felice che in realtà Pupi non sia pienamente dotato di quell'ingenuità che elogia, perché penso che una certa crudeltà sia il punto di partenza necessario per essere buoni, per poter curare bisogna prima saper vedere con estrema spietatezza.
Luca Zingaretti: Quando si crea un certo tipo di meccanismo come succede in questo film, il merito, il tocco, la mano è soprattutto quello del regista e visto che in questo caso perfino la sceneggiatura è sua, bisogna dire che anche grande merito della recitazione del film è di Pupi Avati. Quello che mi piace di questo film è che presenta delle situazioni che fanno ridere nella loro serietà e tutto questo è veramente merito di un autore. La cosa che mi ha colpito di più quando ho letto la sceneggiatura del film, non era tanto l'immoralità dei personaggi, quanto la loro amoralità. Sono personaggi che non hanno morale e che appaiono costantemente disinvolti nell'agire. Nessuno di loro ha la percezione di fare qualcosa di irregolare, di penalmente perseguibile. Il film non disegna dei cattivi tout court, ma piuttosto dei disperati che magari fanno più male dei cattivi perché lo fanno con una purezza d'animo, con una assoluta mancanza di coscienza che li rende da una parte buffi, ridicoli, dall'altra pericolosissimi.

Il film è ispirato a vicende reali?
P. Avati: La storia di Christian e di Luca attinge a mani basse dalla cronaca italiana degli ultimi anni. Ma direi che c'è anche qualche cosa di più nella parte delle “macerie” bolognesi di Fiamma e suo figlio. È più questa parte ad essere ispirata dalla realtà, perché ragazzi come Nicola Nocella, giovani che parlano, sognano e si aspettano dalla vita quello che si aspetta il personaggio di Baldo, esistono, non sono frutto della mia fantasia. Se il film è riuscito lo dobbiamo molto a Nicola, perché gli ha dato una sua sensibilità interpretativa che non era facile da reperire quando si fanno i casting. Quando si è trattato di scegliere il protagonista di questo film, non si sono presentati in tantissimi al casting, ma fra questi c'era questo ragazzo del Centro Sperimentale che studiava con Giancarlo Giannini, che me lo ha consigliato e alla fine si è rivelato perfetto.

Come si fa a fare un film all'anno in Italia?
P. Avati: Credo che sia sufficiente tenere in esercizio la creatività. Questo paese ha avuto una spaventosa caduta di creatività in tutti gli ambiti. È diventato un paese di baroni, di convegni, di dibattiti, quando invece molto spesso è sufficiente stare a casa e cominciare a scrivere una storia. Sono molti i miei colleghi che avrebbero la possibilità di girare un film all'anno, ma non lo fanno. In genere ci si lamenta molto, ci si piange molto addosso e si imputano continuamente agli altri le responsabilità dei nostri fallimenti. Anche i media hanno certe responsabilità nel divulgare questo tipo di messaggio. Ci sono dei grandissimi attori nel cinema italiano e bisogna utilizzarli. È sufficiente scrivere delle storie, esercitare continuamente la propria creatività e commettere degli “adulteri” fra i vari generi per stimolarsi. Basta andare un po' meno ai raduni, ai convegni e stare un po' più con se stessi.

Come si lavora con i grandi attori?
P. Avati: Non credo ci sia una tecnica. Ogni essere umano è diverso e con ognuno si viene a creare un rapporto diverso. Mi è molto piaciuto vedere che Nicola si sia fatto accompagnare da suo padre sul set durante il primo giorno di riprese. È una cosa che ancora mi commuove, anche perché spesso nei rapporti con gli attori giovani domano cosa fanno i genitori. D'altronde io racconto continuamente le inadeguatezze, è il sentimento che conosco meglio perché in qualunque contesto mi sento inadeguato. C'è anche un po' di civetteria in questa sensazione di inadeguatezza, mi fa sentire molto a mio agio.

C'è una continuità fra il personaggio di Nicola Nocella e quelli interpretati da Carlo Delle Piane in passato?
P. Avati: Quando scrivo ricerco le emozioni e se una cosa mi emoziona so che alla fine mi somiglierà. Non c'è calcolo, non c'è una logica, se non un qualcosa che mi possa convincere ad appassionarmi ad un personaggio. Il personaggio di Luca ha tutte le caratteristiche e i tic del personaggio di Delle Piane in Regalo di Natale, nella sua bizzarria e nella sua spietatezza. Un personaggio che ha una certa follia, una certa crudeltà, ma anche una dose di grandissima umanità, caratteristiche che in effetti non ero più riuscito a mettere in campo in un solo personaggio da diverso tempo.

Come hai affrontato questa prima grande prova?
Nicola Nocella: Prepararmi è stato un po' difficile, mi sono molto affidato a Pupi. Non potevo fare altrimenti, non potevo far altro che stare ad ascoltare un maestro. Quello che mi sono più portato dietro dalla mia formazione è il modo di mettersi in relazione con chi hai di fronte sul set, ascoltare il più possibile l'attore con cui stai dialogando per entrare meglio in relazione con lui. Per quanto riguarda il rapporto coi personaggi di Delle Piane, sicuramente è uno di quegli attori che ho studiato e ammirato di più, ma non so dire bene quanto nel mio personaggio ci possa essere di lui. Nel mio piccolo, proprio come direbbe un personaggio di Avati, ho cercato di trarre più ispirazione dai mostri sacri che avevo davanti. Recitare con queste persone e con Pupi come regista rende tutto davvero più semplice, anche se devo ammettere che ero terrorizzato da queste presenze, nonché dalla “mannaia” del giudizio del maestro Giannini. La prima scena che ho girato era per fortuna una scena in cui il mio personaggio è molto emozionato e sente che gli sta cambiando la vita, quindi ho praticamente soltanto dovuto dire quello che stavo provando in quel momento.

Come è stato concepito l'intreccio fra economia e religione nel personaggio di Zingaretti?
L. Zingaretti: La caratteristica di un grande finanziere che porta sempre e solo i sandali penso sia davvero molto divertente. Chiunque ci veniva a trovare sul set credeva mi fossi fatto male ad un piede. È una cosa che mi ha colpito moltissimo: l'idea di personaggio spietato, ipocondriaco ma talmente religioso da indossare sempre i sandali anche durante le riunioni. Quei sandali non sono un corollario del personaggio, ma fanno parte del suo nucleo più profondo.
P. Avati: Mi sembrava di dover dotare questo personaggio di un'anima, e ho pensato di farlo con delle peculiarità misteriose. Non solo la religione, ma anche l'ipocondria, l'ambiguità sessuale. Tutto doveva contribuire a dargli un'aura di mistero che lo sottraesse da un aspetto prettamente neorealistico e che lo connotasse di una specificità.

Che futuro prevede per sé Christian de Sica?
C. De Sica: Io sono sempre molto contento di avere ancora l'opportunità di girare i film con Aurelio De Laurentiis e con Neri Parenti, anche perché sono quei film che mi hanno dato la notorietà necessaria a poter fare mille altre cose, da scrivere un film a portare Gershwin in teatro. Forse, dopo ventisei anni, alcune cose dovranno essere cambiate. Forse cambieranno anche me, visto che ormai ho un'età che mi permette di fare anche altro. E forse, grazie alla “scommessa” dei fratelli Avati, molti altri registi si potranno confrontare con la mia identità di attore, oltre che con quella di comico. D'altronde, quando fai il cowboy per tutta la vita, è difficile che qualcuno ti scelga per fare Romeo. Quindi ringrazio ancora una volta Pupi Avati per avermi visto, anche con incoscienza, come attore e non come “comicarolo”.

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