Le invenzioni che hanno dominato il Novecento, influenzandosi a vicenda.
di Pino Farinotti
L’École des hautes études en sciences sociales di Parigi in un convegno ha svolto il tema del sogno evocando due eventi, due “invenzioni” che avrebbero dominato il Novecento.
Il 28 dicembre del 1895, al Grand Café del Boulevard des Capucines a Parigi, i fratelli Lumière proiettavano il loro primo film, La Sortie de l’usine Lumière a Lione. In quei giorni a Vienna Sigmund Freud interpretava il suo primo sogno.
La definizione primaria del cinema è “la fabbrica dei sogni”. Il lemma “sogno” connette due azioni certo non banali rispetto all’animo umano, la fase scientifica e analitica del terapeuta, e quella del sogno come evasione, di cui il cinema è titolare assoluto. Inoltre troppo affascinanti e potenti sono i risvolti misteriosi, il richiamo irresistibile dell’occulto, l’esercizio magari pauroso della psicanalisi, perché il cinema non ne fosse sedotto. E dunque non pochi autori si sono ispirati a quella fonte strepitosa. Così come quasi tutti i generi possono prestarsi a una lettura psicoanalitica, perché tutti i film presentano vicende umane con il relativo contrasto tra cuore e ragione, nel senso più ampio del termine.
L’attrazione non poteva che essere reciproca. Secondo la storia Freud vide il suo primo film a Roma nel 1909 e ne rimase “incantato”, definizione sua. Ma l’attrazione rimase al primo livello, quello dell’evasione appunto, per la “professione”, col cinema c’era incompatibilità. E Freud ne fornì una prova di ferro: Samuel Goldwyn, uno dei padroni di Hollywood, andava dicendo, erano gli anni Trenta, che il più grande esperto d’amore del mondo era quel viennese. Per scrivere un copione gli offrì centomila dollari (di allora!). Freud si ritenne persino offeso e fu sprezzante nel rifiutare. Un altro maestro che non ebbe fortuna fu Billy Wilder: bussò alla porta del professore che non lo fece neppure entrare. “Feci solo in tempo» racconta il regista, “a vedere da una fessura il famoso divano, che mi parve molto piccolo”.
Implicazioni, suggestioni, e parentele strette, certo di diverse nobiltà consanguinee, accomunano i due ambiti. Poi ci sono gli autori e i titoli. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Nell’agorà infinita della “materia di cui son fatti i sogni” - roba di Shakespeare e Bogart, connessione anomala ma connessione – procedo con la memoria selettiva di getto. Due biografici che fanno testo: Freud, passioni segrete (Huston, 1962) con Montgomery Clift, che racconta la fase giovanile del terapeuta; A Dangerous Method (Cronenberg, 2011) sul rapporto di antagonismo e contrasto professionale e di scarsa simpatia reciproca tra Freud e Jung. E poi la fiction, altra selezione arbitraria, punta dell’iceberg. Stiamo ai giganti. Hitchcock, discepolo primo di Freud: il sogno di Gregory Peck disegnato da Dalì in Io ti salverò; la patologia di Marnie che odia gli uomini; il più famoso psicopatico del cinema, il Norman di Psyco che si identifica con la madre che ha ucciso. Bergman: il sogno mortale del vecchio professore del Il posto delle fragole. Allen, sempre a “sognare” e a raccontare dal lettino. Buñuel de L'angelo sterminatore con la sua storica indicazione di claustrofobia. Fellini, col suo Mastroianni di 8 e mezzo che con il sogno ritorna alla stagione della formazione e della felicità. A chiudere qualcosa di contemporaneo, certo distante dalle citazioni fatte sopra, la Napoli velata (guarda la video recensione) di Özpetek: Adriana passa una notte di sesso furibondo con Andrea; quando lui viene ucciso lei non “vuole”, incontra il suo “doppio” e continua la relazione. Solo che il “doppio” non esiste, era un prodotto del sogno e del dolore. Dunque un “prodotto di Freud”, con le dovute licenze, di scarsa “scienza”, magari amatoriale, ma suggestivo.