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Storia "poconormale" del cinema: puntata 89

Una rilettura non convenzionale della storia del cinema.
di Pino Farinotti

Greer Garson e Henry Travers in La signora Miniver (1942) di William Wyler
Greer Garson (Eileen Evelyn Greer Garson) 29 settembre 1904, Londra (Gran Bretagna) - 6 Aprile 1996, Dallas (Texas - USA). Interpreta Kay Miniver nel film di William Wyler La signora Miniver.

venerdì 5 novembre 2010 - Focus

Il sociale
Il dibattito attivato dal festival di Roma è il cinema sociale, "troppo sociale". Ne ho già scritto. Molti hanno rilevato che i contenuti di molti dei film proposti inquadrano grandi temi sociali, politici, delle varie etnie. Il medio e l'estremo oriente: culture tutt'altro che emergenti, con la condizione della donna, il degrado e il tribale. E poi i ragazzini deportati dalla Gran Bretagna, e poi la scuola italiana. E altro. E poi il cinema che deve adeguarsi all'audience urlata e spesso volgare del piccolo schermo. Ribadisco che tutto il cinema è sociale, volendo puoi scrivere un saggio "sociale" anche su un cinepanettone. Il concetto "cinema politico" è vicino, cammina in parallelo. Nelle epoche ci furono film "politici" che erano capolavori. Molti dei russi degli anni venti, oppure Olimpia del '38. Capolavori nonostante fossero apologetici di ideologie opposte, poi cancellate dalla Storia. Negli anni quaranta gli Usa dovevano rassicurare il mondo, soprattutto l'Inghilterra, che la guerra sarebbe stata vinta e i totalitarismi distrutti, ma che occorrevano sacrifici. Così Hollywood assecondò la politica producendo film come Signora Miniver (1945), un manifesto sulla forza morale degli inglesi. Era un capolavoro, vincitore di 5 Oscar. E l'anno dopo, col grande problema politico e morale dei reduci, ecco I migliori anni della nostra vita, altro capolavoro da 7 Oscar. Entrambi i titoli erano firmati da William Wyler.

Qualità
Ogni stagione ha i suoi film, spesso di grande qualità, che hanno rappresentato il sociale e la politica. I film di Charlot sono politici. Come quelli di Wyler. Gente che faceva ridere e sorridere. I titoli privilegiati del Dizionario Farinotti nell'ultimo anno sono tutti "sociali-politici". Ad Avatar puoi attribuire promemoria come le minoranze, la colonizzazione, la guerra preventiva, il ritorno alla purezza. Tra le nuvole denuncia con violenza la condizione economica e morale dell'America. Il segreto dei suoi occhi è una storia argentina che ti fa riflettere su grandi temi umani e dolenti come la dittatura e la libertà. Il Concerto, attraverso la vicenda di un'orchestra strampalata, butta sul grottesco, la Russia pre e post-comunista.

Quando il sociale diventa militanza, toppo faziosa e dolosa, il cinema si infastidisce e reagisce. Soprattutto quando non ci sono in giro gli Eisenstein e i Wyler. E così, spogliato dello stile, del linguaggio, e delle sue belle funzioni primarie, che prevedevano il sociale come un extra di cultura, come una proposta autoriale, il cinema cerca di proteggersi almeno con la qualità e i temi universali. Sì, quelli che mancano al nostro movimento. Ancora una volta porto, come misura della qualità i grandi riconoscimenti. Mi rifaccio ai tre Premi leader, Oscar, Palma d'oro di Cannes e Leone di Venezia. Pur fra polemiche piccole e contraddizioni, pur dovendo vedersela con le istanze mercantili delle major o con le contingenze storiche che esigevano visibilità e condizionavano i giudizi, quasi sempre quelle tre coccarde sono un segno di qualità, spesso di grandezza. Le citazioni che ho fatto sopra, del '45 e '46, mi sembrano esemplari. Certo, c'è momento e momento, ci sono società e società. In questa fase di storia "poconormale" intendo approfondire il rapporto fra qualità del cinema e qualità del momento storico. Non credo sia un'anomalia accreditare una correlazione fra le due qualità. E non è improprio rapportare i titoli coi grandi premi, internazionali, perché spesso quei riconoscimenti erano espressione di una lettura corretta di quel momento storico. Ecco una sintesi tanto perentoria da non poter non essere legittima: fra il 1946 e il 1990 abbiamo vinto 28 "tituli". Negli ultimi vent'anni... 3.

Dopoguerra
L'analisi. Sono partito dalla prima stagione del dopoguerra, altrimenti i numeri a favore del nostro cinema sarebbero ancora più favorevoli, ma "viziati" dal fatto che il Leone di Venezia era giurisdizione del regime fascista, ben conscio dell'importanza del cinema per la propaganda. Il duce aveva affidato il festival al figlio Vittorio, che non era proprio un avventizio ma che naturalmente privilegiava gli interessi di famiglia. La Mostra d'arte cinematografica di Venezia nacque nel 1932. Gli organizzatori vollero creare un evento strepitoso e il regime, che cercava consenso nel mondo dopo averlo ottenuto nel Paese, sostenne in pieno l'idea. Vennero invitati i massimi divi, da Greta Garbo a Clark Gable, da John Barrymore a Joan Crawford. Non c'era ancora il Leone d'oro, e i vincitori furono tre, rispetto a queste definizioni: "Film più divertente", A me la libertà, di René Clair; "Film dalla fantasia più originale", Il dottor Jekyll, di Rouben Mamoulian; "Film più commovente" Il fallo di Madelon Claudet, di Edgar Selwyn. Un francese e due americani. I primi due titoli erano capolavori veri. L'intenzione del regime di accreditarsi in chiave ecumenica era perfettamente riuscita. Anche se il duce fece rilevare al figlio Vittorio che forse si era esagerato con l'internazionalità, ignorando il cinema italiano. Nelle edizioni successive occorreva porre rimedio. Ma la scelta del film di Clair era sottile: si narrava la vicenda di un uomo, in prigione in gioventù, vessato dalla polizia, che decide di "uscire" dalla società facendo il vagabondo. "...Il regista, nel pieno della sua capacità creativa, dà questo divertente, amaro e lucidissimo apologo della vita moderna negatrice di ogni libertà. (Diz.)". E così veniva accreditata l'indicazione che anche la Francia... non era senza peccato.

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