‘C’è un negro a cavallo!’. Il nuovo film di Tarantino è come una grande meringa farcita di ottima crema, guarnita di canditi e ricoperta di cioccolato: il pasticciere è sempre bravissimo, il dolce è una leccornia, ma forse l’accumulo di ingredienti è eccessivo. Il tanto agognato (da parte sua) omaggio congiunto al western all’italiana e alla blaxploitation – che pure comprese pellicole ambientate sulla frontiera - dimostra ancora una volta che il regista è sempre il primo della classe dei cinefili bulimici: le citazioni si sprecano, evidenti o dissimulate tra immagini, battute e colonna sonora (oltre al tema del film ispiratore, a firma Luis Bacalov, sono ripresi vari motivi provenienti dall’epoca ‘spaghetti’) già a partire dai bellissimi, essenziali titoli di testa e per non parlare dell’inevitabile presenza di Franco Nero – il Django di Corbucci che, ovvio, sa che la ‘d’ iniziale è muta.. La bravura di Tarantino si vede però soprattutto nella capacità di gestire l’ipercalorica ricetta: le quasi tre ore di durata volano via senza tentennamenti, grazie a un ritmo inesausto che nasce dalla combinazione di una scrittura serratissima (le battute memorabili si sprecano), da una capacità magistrale nella costruzione dell’inquadratura e dalla scelta come al solito azzeccata del commento musicale. I temi consueti della casa in salsa diversa? Forse, ma, in ogni caso, il divertimento di alto livello è assicurato, anche perché ritornano pure le consistenti dosi di humour sovente nero: la scena della posse proto-Klan, assemblata da Big Daddy, che litiga con i cappucci vale da sola il prezzo del biglietto. Inoltre, a ben guardare, i film sono due al prezzo di uno. Nel primo, il dottor Schultz (Waltz) libera Django (Foxx) e ne fa il suo assistente nella discutibile – e discussa da Django stesso - professione del cacciatore di taglie: è il western vero e proprio, fatto di paesini fangosi e splendide immagini di cavalcate fra le montagne innevate (‘Sfida nell’alta sierra?’ di Peckinpah?). Quando, per sdebitarsi, il dottore decide di aiutare il suo socio nella ricerca della moglie, la storia vira verso il fiammeggiante melodramma sudista ambientato in un Mississippi (Stato confinante con il Tennessee da cui il regista proviene) razzista oltre ogni immaginazione. Ad incarnarlo provvede lo spregevole (e incestuoso) Calvin Candle interpretato da un DiCaprio praticamente perfetto, anche se sulle prime pieno di dubbi nell’accettare un personaggio tanto odioso: è lui il padrone della sposa dell’eroe, che risponde al fantasmagorico nome di Broomhilda von Shaft (Wagner e Isaac Hayes in un colpo solo) e a cui regala le proprie delicate fattezze Kerry Washington, incantevole tra tanti omaccioni. Il vecchio servitore Stephen – poteva mancare Samuel L. Jackson? – fa saltare i piani e inizia la carneficina, inaugurata da Schultz, a cui viene riservata una delle più belle morti cinematografiche degli ultimi tempi. Da lì in avanti, il sangue zampilla e la dinamite scoppia, così che sono in pochissimi a uscirne vivi mentre Django ritrova la sua Hildi in una scena sovraccarica di pathos a cui contribuisce la lirica tromba di accompagnamento. Alla fine, esausto ma sazio, mi trovo a fare i conti pensando che, a parte la Gatling, non manca proprio nulla, ma non è però possibile tralasciare una nota su di un doppiaggio che dà l’impressione che ci sia qualcosa di troppo ‘lost in translation’. Passi che l’accento tedesco del personaggio di Waltz sia quasi inudibile (magari è così anche in originale), passi per il solito vocione da duro di Insegno affibbiato a Foxx, , ma dà fastidio che nei titoli di coda compaia un’assistente all’accento (sudista, of course) per DiCaprio che, invece, parla un italiano piano e lineare.
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