In occasione dell'uscita del nuovo film La corrispondenza, in sala dal 14 gennaio, è giusto sottolineare come Giuseppe Tornatore, classe 1956, sia il solo regista italiano "internazionale" oggi, insieme a Paolo Sorrentino e al netto dell'entente cordiale tra Nanni Moretti e la Francia. Questo perché sa coniugare, a una visione sempre personale e d'autore, un cinema spettacolare mai minimalista, anche quando è alle prese con produzioni meno ambiziose, per mezzi e budget. Non solo per l'Oscar vinto ormai nel 1989 con Nuovo cinema paradiso, che resta senza dubbio, ancora oggi, il suo titolo-simbolo, emblematico di una concezione della settima arte capace di contenere il senso del grande romanzo popolare all'italiana (anzi: alla siciliana), la storia con la s maiuscola ma anche quella delle immagini in movimento, emozioni generazionali ed epocali incluse.

Anche in film apparentemente più piccoli come La sconosciuta (2006), La migliore offerta (2013) e appunto adesso La corrispondenza (non a caso gli ultimi due girati in inglese con attori di forte richiamo internazionale) Tornatore non può fare a meno di pensare in grande. È cineasta noto per l'attenzione meticolosa al dettaglio, per il desiderio di tenere sotto controllo ogni fase della lavorazione, dalla sceneggiatura al montaggio (di Una pura formalità, ad esempio, firma tutto lui tranne la fotografia) ma anche per quel suo continuo dialogo con lo spettatore, anteposto a qualunque altra considerazione "artistica" persino in titoli più autoreferenziali come Baarìa (2009), omaggio a Bagheria, dove nacque, frontiera di un immaginario prima di tutto suo.

Tornatore, memore della lezione dei suoi due principali punti di riferimento, Goffredo Lombardo e Franco Cristaldi, ha lo sguardo del produttore d'altri tempi anche quando è "solo" regista: sa che non esiste linea di demarcazione tra prodotto di consumo e d'autore e lavora per mantenere questa continuità tra termini troppo spesso opposti, specie nella cultura cinematografica ombelicale italiana degli ultimi 30 anni.
Dal suo Stanno tutti bene (1990) con Marcello Mastroianni, Hollywood ha realizzato nel 2009 un remake, Stanno tutti bene, con Robert De Niro, a riprova dell'universalità delle sue storie. Tornatore ha una vena noir molto interessante, perché lo affascina il racconto a enigma esplicitato in Una pura formalità, kammerspiel poliziesco ricco di umori polanskiani (non a caso Roman Polanski ne è lo splendido interprete insieme a Gérard Depardieu e a un inedito, eccellente, Sergio Rubini) ma anche nel più sottovalutato La sconosciuta o in La migliore offerta. E non dimentichiamo che esordisce con Il camorrista (1986), ritratto ambiguo e titanico di "don Raffaè", boss della Nuova camorra organizzata. Sono, secondo chi scrive, le sue prove migliori.

Nella magniloquenza di altri titoli Tornatore troppo spesso indugia nell'immagine iconica ma inane, come in Malèna (2000), quasi un santino della bellezza mediterranea. Oppure in La leggenda del pianista sull'oceano (1998), da un monologo di Alessandro Baricco, altro ritratto di un personaggio eccezionale, il pianista chiamato 900 (Tim Roth) che per tutta la vita non scende dal transatlantico dove nacque e dove suona. Nonostante l'imponenza drammaturgica e l'enfasi cinematografica, il film sbaglia tutti i tempi melodrammatici e alla fine resta bella solo la fotografia.
Una filmografia artisticamente molto discontinua, quindi, ma tenace, in grado come poche altre di sfidare il provincialismo del cinema italico.