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Outlander: Fantascienza e mito in dissolvenza

Con un occhio al ciclo dei vichinghi e uno alla fantasia futuribile, Outlander azzarda un anomalo crossover.
di Edoardo Becattini

Beowulf, l'alieno
Jim Caviezel - Bilancia. Interpreta Kainan nel film di Howard McCain Outlander - L'ultimo vichingo.

martedì 30 giugno 2009 - Approfondimenti

Beowulf, l'alieno
Tanto tempo fa, in una galassia lontana, lontana..., immaginando un mondo che ibridava etica cavalleresca e tecnologia futuribile, George Lucas dette vita alla saga cinematografica più nota (e più redditizia) di tutti i tempi. Il progetto era di per sé semplice: mescolare il futuro e il passato per attuare una fuga strategica dal presente. Adesso, molte saghe e trilogie dopo, Outlander – L'ultimo vichingo mette in scena un tentativo di rileggere la mitologia norrena e il più antico poema epico della cultura anglosassone contaminandoli con i viaggi nel tempo e le guerre dei mondi di ambito fantascientifico, in modo da sondare altri possibili variazioni del genere fantasy, in un momento in cui esso è ai suoi massimi livelli di abuso cinematografico.
Perdendo in partenza lo scontro con la tecnologia offerta dalla recentissima versione firmata Robert Zemeckis, il Beowulf realizzato dall'esordiente Howard McCain punta così sul crossover, su un certo effetto-anomalia che vede la nuova personificazione del leggendario guerriero scandinavo in un alieno umanoide con le sembianze di Jim Caviezel (e quindi noto ai più come il Gesù Cristo del Vangelo secondo Mel Gibson), e i mostri da lui combattuti come un incrocio fra le creature di Alien e Predator. Il tentativo è quantomeno bizzarro, come se si rileggesse l'Iliade o il ciclo bretone e carolingio come una battaglia per la Terra fra forze aliene. Ma è anche vero che non è la prima volta che si pensa la storia antica in termini di incontri ravvicinati del terzo tipo (basti pensare ad alcune interpretazioni riguardo siti storici come Stonehenge o le statue moai dell'Isola di Pasqua), e che il successo di molta letteratura fantasy o di fantascienza (e relativa intersezione nota come Science Fantasy) dipende molto anche dalla fuga dalla realtà che esso permette. Così che, non importa quanto indietro o avanti nel tempo il viaggio ci conduca, ma solo il fatto di essere il più distanti possibile dalla realtà del presente.

Ritorno al passato
Il cinema, e prima di esso la letteratura fantascientifica di fine Ottocento, ci hanno d'altronde sempre descritto il futuro come una sorta di ritorno al passato. Da L'uomo che visse nel futuro, passando attraverso la saga de Il pianeta delle scimmie, fino ad arrivare a visioni post-apocalittiche più recenti come Mad Max, Waterworld o Il regno del fuoco, il futuro nei film di science-fiction è quasi sempre un ritorno ad passato semi-preistorico, popolato di figure mitologiche o mostri fantastici. Il viaggio dell'outlander Kainan fa solo parzialmente differenza: la realtà da cui parte per il viaggio nel tempo che lo porterà fino al villaggio di Herot nella Norvegia del 709 d.C., è quella di un pianeta alieno che ha appena conosciuto la distruzione, colpevole di aver invaso e colonizzato una razza di creature mostruose molto potenti e vendicative. Certo, la lettura politica e distopica non risulta particolarmente efficace per un film come Outlander, che privilegia lo spettacolo alla riflessione e l'epica di evasione a quella di estraniamento. Resta comunque interessante notare come il film azzardi un tentativo di sintesi fra certa fantascienza dark tipicamente moderna e un sottogenere che da lunghissimo tempo esercita un fascino folkloristico e, per certi aspetti, reazionario: quello relativo al mondo dei vichinghi.

Il fascino vichingo
Nonostante le pochissime fonti documentate, la suggestione esercitata da questo popolo di esperti guerrieri, navigatori e commercianti, è passata attraverso epoche e nazioni, rinnovando di volta in volta la sua popolarità attraverso il romanticismo e la letteratura fantastica. Anche nella storia del cinema, l'amore per la mitologia norrena non nasce con il successo della trilogia di Peter Jackson (per lo meno non nel suo aspetto più commerciale). C'è tutto un insieme di film che vanno dai più famosi vichinghi in Technicolor capitanati da Kirk Douglas e fedeli allo spirito drammaturgico hollywoodiano che esigeva intrighi amorosi e lotte fratricide (I vichinghi, 1958), fino ai più recenti Il 13° guerriero o Pathfinder, che esaltano l'aspetto guerresco fino alle più esplicite incursioni nel gore. Anche Outlander non disdegna i suoi momenti orrorifici, ma mantenendosi sempre più fedele allo spirito umanista del neo-fantasy e alla moda dei giochi di ruolo. Troviamo così un percorso di prove da affrontare e di saperi da acquisire per arrivare a meritare la giusta sanzione finale (la corsa sugli scudi, la fabbricazione della trappola, la creazione della spada in acciaio). Ma soprattutto conosciamo un popolo di vichinghi illuminato, il cui re (John Hurt, già abituato a lottare con "alien" di questo tipo) è capace di allearsi con il re del popolo nemico (Ron Perlman), in cui il bellicoso erede al trono (Jack Huston) fa facilmente amicizia con lo straniero venuto dallo spazio, e in cui alla donna (Sophia Myles, in linea con la Miranda Otto de Le due torri) è concesso di essere emancipata e combattiva. Perché per quanto lontano nel tempo questi film intendano portarci, il pubblico in sala resta ben radicato nel presente.

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