Tutti i film da vedere e rivedere della 36esima edizione del festival.
di Marzia Gandolfi
Il Gran Premio Torino 2018, assegnato quest'anno a Jean-Pierre Léaud, ha immerso la 36° edizione del Festival in una rêverie crepuscolare e fantasmagorica, convocando sotto la Mole i fantasmi della Nouvelle Vague. L'attore francese è un tesoro cinéphile la cui carriera, sempre inattesa e perfetta, non conosce passi falsi. Da Truffaut a Godard, da Garrel ad Assayas, passando per Pasolini e Eustache, Jean-Pierre Léaud si è costruito una filmografia intellettuale e preziosa tra le più belle al mondo. Torino lo celebra e torna idealmente sui ruoli emblematici di un attore che abbiamo visto crescere sullo schermo e incarnare una generazione di autori straordinari. Impresso con forza e tenerezza nel cuore dei cinefili, il premio e una retrospettiva dedicata a Jean Eustache (Le père Noël a les yeux bleus, La maman et la putain) hanno permesso alle nuove generazioni e al grande pubblico di 'avvicinare' un'artista che non ha perso un'oncia della sua aura ma è stato vergognosamente ignorato dalle ricompense istituzionali fino al César d'honneur nel 2000 e la Palme d'honneur alla carriera al Festival di Cannes nel 2016.
Attore anti-naturalista per eccellenza, Jean-Pierre Léaud fa parte integrante del nostro immaginario e del mistero dello schermo.
I 400 colpi, il suo primo lungometraggio (da protagonista), costituisce il suo atto di nascita cinematografico. A quattordici anni incarna con sconcertante aplomb e disorientante fragilità Antoine Doinel, studente appassionato di Balzac che fugge la sua vita familiare e la sua infanzia difficile. E a quell'incredibile racconto di formazione che è il film di François Truffaut, che lancia due traiettorie da leggenda, guardano alcuni dei giovani registi in concorso.
Da Paul Dano, che con il suo Wildlife ha vinto il premio come Miglior Film, a Margaux Bonhomme (Marche ou crève), da Guillaume Senez (Le nostre battaglie, vincitore del Premio del pubblico) a Valerio Mastandrea (Ride), da Sébastien Pilote (La disparition des lucioles) a Melissa B. Miller (All These Small Moments), molte delle opere viste hanno al cuore, o accanto, un ragazzino o una fanciulla (dis)armati di buona volontà in un mondo freddo e dentro drammi familiari declinati secondo la sensibilità dell'autore.
Divorzi, disabilità, madri in fuga, padri sguarniti, lontani o caduti in fabbrica, sono alla radice di un'infanzia desolata a cui reagiscono i giovani protagonisti, congedando la pubertà e accedendo con parole nuove all'età adulta. A omaggiare frontalmente la Nouvelle Vague, di cui I 400 colpi fu il portabandiera e Jean-Pierre Léaud il suo alfiere, è soprattutto James Franco col suo Pretenders, riflessione sentimentale sulla cinefilia (francese). Come lo scorso anno (Mary Shelley - Un amore immortale), e allineato alle battaglie per i diritti delle donne, il festival di Torino propone un biopic sul tema della riconquista del potere femminile e dell'identità letteraria. Con Colette, Wash Westmoreland ripercorre una porzione della vita e dell'opera di un'artista enigmatica che ha marcato un'epoca e anticipato un futuro 'scandalosamente' libero per le donne. Donna di lettere e insieme mimo, attrice e giornalista, Colette fa il paio per carattere, ardore e talento con Lee Israel, una delle biografe più popolari della sua epoca che gravi problemi finanziari spinsero al debutto degli anni Novanta a comporre lettere finte di autori celebri (e defunti), vendute poi al miglior offerente.
Melissa McCarthy, attrice caustica ed esuberante che trova finalmente un ruolo all'altezza del suo talento comico e drammatico, è l'anima tellurica di Copia originale, diretto da Marielle Heller e tradotto dal romanzo autobiografico della straordinaria Lee Israel, un'altra donna che ha cambiato le regole del gioco (maschile) con la complicità di un fedele amico, interpretato sullo schermo da Richard E. Grant.
L'attore britannico è stato una delle stelle che con Jason Reitman (The Front Runner) ha acceso il red carpet di un festival che corteggia a distanza la grande produzione (Colette, The Front Runner) e cura da vicino il cinema 'borderline', da cui emergono tesori surreali che destabilizzano l'immaginario come Pity del greco Babis Makridis, storia di un uomo alla disperata ricerca dell'infelicità, o come Ovunque proteggimi di Bonifacio Angius, racconto potente delle ferite dell'anima che obbligano a ridefinire la nozione volatile di follia.
Santiago, Italia di Nanni Moretti, documentario sul ruolo dell'ambasciata italiana a Santiago all'epoca del golpe militare di Pinochet, chiude un'altra edizione entusiasmante di un Festival da sempre concentrato su progetti indipendenti e sperimentali. Terreno familiare per Nanni Moretti, direttore a Torino nel 2007 e nel 2008, da cui sono passati autori del calibro di David Gordon Green, Pablo Larraín o ancora Damien Chazelle. La 36° edizione, infiammata da un'irriducibile energia cinefila e da un afflato di nostalgia, ha omaggiato Jean-Pierre Léaud e congedato Bernardo Bertolucci, l'ultimo rappresentante del 'grande cinema italiano'. L'ultimo dreamer seduto in terza fila perché nessuno si intrometta nello spazio che separa (e unisce) lo sguardo e lo schermo.