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Sofia Coppola e le sue 5 eroine disobbedienti che hanno saputo resistere. E trionfare

Da Il giardino delle vergini suicide a L'inganno, la regista ha da sempre raccontato il mondo femminile, dando alle sue protagoniste una strada per uscire dalle gabbie dorate. Dal 27 marzo torna al cinema con Priscilla, ancora una volta la storia di una donna decorativa e sottomessa che vorrebbe sbocciare, svilupparsi, emanciparsi.
di Marzia Gandolfi

lunedì 18 marzo 2024 - Celebrities

Il minimo che si possa dire di Sofia Coppola è che ha un soggetto, un’ossessione, più precisamente, che attraversa tutti i suoi film, indipendentemente dal contesto sociale, geografico o storico in cui sono ambientati. Il rumore della guerra (di Secessione) o della rivoluzione (francese) nel suo cinema è sempre ridotto a un suggestivo dettaglio della storia. Il contesto, pur ricostruito con grande sfarzo e precisione, non è mai più di un pretesto. Quello che conta è la situazione, sempre la stessa, quella di una giovane donna senza territorio (Lost in Translation), lontana dalla famiglia (Marie Antoinette), caduta dal cielo, una creatura venuta d’altrove (Priscilla), una vera e propria aliena che non riconosce niente e nessuno come suo, che si consuma nel sentimento di essere estranea al mondo. L’aspetto toccante di Sofia Coppola è che ha trovato il suo soggetto molto presto e la prima volta che si è incarnato è stato suo padre a realizzarlo per lei. Nel 1989, per il film collettivo New York Stories, Francis Ford Coppola gira una sceneggiatura scritta dalla figlia, allora adolescente. La vita senza Zoe, storia di una ragazzina ‘orfana’ che vive tutta sola in un bel palazzo vicino a Central Park, traduce bene la sua solitudine di bambina e l’incanto artificiale del grande lusso come placebo irrisorio per la malinconia. Figlia di una leggenda della New Hollywood, la regista si è posta subito la domanda giusta: come posso avere un cinema tutto mio, al di là dei privilegi conferitimi dal prestigioso lignaggio paterno? Il colpo di genio del suo lavoro consiste proprio nell’aver infuso questa dimensione autobiografica in tutta la sua filmografia. Avere un cinema, una vita propria o una stanza tutta per sé, per citare Virginia Woolf (“Una stanza tutta per sé”), significa innanzitutto fare luce sui danni delle restrizioni imposte alle donne.

È facile comprendere allora perché Sofia Coppola si sia interessata alla vita di Priscilla Beaulieu, Alice in Graceland. Il suo destino è in eco perfetto con l’eroina coppoliana, alle prese con un’emancipazione il cui esito questa volta è meno complesso e tragico: niente suicidio e niente esecuzioni. The King, il ‘predatore’ glamour, muore di morte naturale e dopo aver mostrato il lato B, quello oscuro e negligente sul piano affettivo, ma questa è un’altra storia, perché Elvis nel film non esiste, non lo sentiamo mai cantare, non lo vediamo mai sulla scena e nessuno dei suoi titoli figura nella colonna sonora. È l’ombra tormentata di se stesso e dà tutto fuori campo. Ci sono almeno due film in Priscilla, quello di Priscilla (Cailee Spaeny) e quello di Elvis (evocato da Jacob Elordi) ed entrambi si svolgono altrove, fuori dal quadro. È il film fantasma di Elvis, la bestia del palcoscenico che esiste solo sul palco, sul vinile, sugli schermi, per il mondo intero, non per lei, non per se stesso. Il film di Priscilla invece non inizia mai, non fino alla fine almeno e prima del suo divorzio. A un passo dal cancello del castello del consorte c’è una libertà di cui non sappiamo più nulla, ne sapremo mai nulla. Dai quattordici ai ventisette anni, Priscilla Presley è stata il simbolo di un simbolo. Confinata, relegata. I suoi tredici anni con Elvis sono un soggetto d’oro per Sofia Coppola e le offrono l’occasione di realizzare un film mai così ellittico e spettrale, diretto ed estetizzante, la fotogenia qui è un piacere e una maledizione insieme. Certamente il più ‘vuoto’, vuoto come un giorno senza amore, come un palazzo senza Re, ma anche il più pieno, pieno di noia portata alla saturazione plastica e pieno di rabbia quieta.

È un racconto alla Cukor di un amore che prende la forma di un controllo misogino, dove una donna-bambina, piena di vita e di desiderio, incontra il suo fatale Pigmalione, che la veste a suo piacimento, la mantiene, la soffoca. Un’allegoria sovente esplorata del cinema che si ripromette di liberare quello che imprigiona. Sofia Coppola lo sa fare, lo fa bene, lo fa ancora disegnando il ritratto di un personaggio prima che si formi e mentre è impedito dall’immaginario patriarcale. Sovrana nell’arte di tradurre sullo schermo il tempo sospeso, filma ancora una volta un’adolescente, una donna decorativa e sottomessa che vorrebbe sbocciare, svilupparsi, emanciparsi. La prova rileva di nuovo l’assenza di carne, di sangue. La bruna Priscilla come le bionde sorelle Lisbon esistono come brandelli di memoria, icone di una purezza evaporata, svanita. Vivono davanti ai nostri occhi come se Sofia Coppola le avesse richiamate dall’oltretomba, mentre il suo film si dipana, colpito al cuore da rallenti abissali. Le sue immagini sono vetrate colorate, cartoline sacre, fotogrammi vergini, abitate da personaggi che sono modelli quasi religiosi di comportamento. Come Elvis e Priscilla, le immagini non danno mai l’impressione di comunicare tra loro, di connettersi. Nel massimo splendore, la coppia si insegue, si guarda, si studia. Tra un’inquadratura e l’altra, il film apre abissi dove la ‘cinegenia’ degli amanti impotenti possa dispiegarsi pienamente fino a provocare un malessere estetico. Poi il cielo scivola via e i suoi protagonisti ci si aggrappano come due solitudini. Un tandem di spettri tagliati in seta da una stilista che lavora in totale complicità con le tenebre. Haute couture.

Per quasi un quarto di secolo, Coppola ha filmato, come nessun’altra ha fatto, la femminilità precoce intrappolata in gabbie dorate, dove il comfort materiale è pari solo al disagio di un’esistenza bloccata da figure patriarcali. Queste vite si misurano con la disobbedienza che conquistano e la servitù che sopportano. Si misurano soprattutto nella relazione col maschile che nei suoi film passa sempre e solo per la messa in scena, per i dettagli. Basta scorrere la sua filmografia fino a L’inganno (guarda la video recensione), dramma bellico che confronta un soldato nordista ferito e le giovani donne di un pensionato femminile in Virginia, turbate dall’irruzione del corpo-nemico costretto a letto. Impossibile resistere al paragone col film di Don Siegel del 1971, anche se l’autrice rivendica un nuovo adattamento dal romanzo di origine. Se Siegel si identificava con l’uomo (Clint Eastwood), Coppola assume il punto di vista delle sue eroine sull’intruso. Ma il fascino del suo film sta soprattutto nel ritrovare una regista fedele alle sue ossessioni e al suo stile. Il gineceo in piena guerra di Secessione ricorda quello biondo e insondabile di Il giardino delle vergini suicide, Kirsten Dunst è l’anello di congiunzione. I due film dialogano appassionatamente, come se vent’anni dopo le sorelle Lisbon avessero imparato a non rivolgere la violenza del mondo contro se stesse ma a colpire direttamente la sorgente. Uccidere piuttosto che impiccarsi e Kirsten Dunst, ex leader delle vergini suicide, è di nuovo il corpo che soffia la furia.

Lasciando la guerra sullo sfondo (come la Rivoluzione francese in Marie Antoinette), Sofia Coppola concentra il suo interesse esclusivo sul dispositivo erotico. Se la legge del desiderio si rivela crudele per queste fanciulle (tranne una), il rapporto di forza è sbilanciato a loro favore. Coppola non è apertamente femminista, ma mostra delle eroine che resistono e trionfano solidali. Donne insoddisfatte ma potenti. Perché il puritanesimo è il punto centrale del cinema di Sofia Coppola. Da Il giardino delle vergini suicide a Priscilla, passando per L’inganno (guarda la video recensione), la regista è intrigata dai desideri inibiti e alla maniera in cui mutano (qualche volta) in violenza (contro se stessi o contro gli altri). Ma il puritanesimo è anche quello che definisce, in modo più sotterraneo, l’intero stile dell’autrice, quel suo modo di trasferire il piacere in tutto quello che non è il corpo (i tessuti, le luci, le scenografie e, nello specifico, l’impressionante lavoro di chiaroscuro con le candele). Le scene di sesso vengono aggirate rapidamente, la scena dell’amputazione è elusa. Se negli anni Settanta Clint Eastwood era un idolo il cui fisico e magnetismo rendeva incontestabile la tempesta che scatenava, Colin Farrell, attore di grande umiltà, fa del caporale McBurney un tipo ordinario. Il serpente che scivola nel giardino dell’Eden è una biscia piuttosto che un cobra. Sveglio, ma non quanto crede, bello ma niente di più, è la preda, il “cervo sacro” sacrificato per aver fatto la sua scelta.

Con Priscilla, Coppola va ancora più lontano e gratta via la vernice una volta per tutte, a restare è solo la menzogna dell’opulenza materiale. Il messaggio è la chiara denuncia di una relazione sbilanciata cominciata quando Priscilla, interpretata con delicatezza da Cailee Spaeny, è soltanto una quattordicenne invaghita degli occhi di brace di Elvis. La relazione che segue è consumata in un regime di assoluto dominio maschile e in questo senso Priscilla è un film post-metoo, severo con la rockstar, ridotta di scala e ridotta all’impotenza. A questo giro di chitarra, il film racconta la storia della moglie di Elvis Presley, madre della sua unica figlia (Lisa Marie Presley), dal loro primo incontro in Germania fino alla loro separazione nel 1972. Il film ritorna ai personaggi intrappolati nel loro ambiente e riecheggia le adolescenti di Il giardino delle vergini suicide, iper-protette da genitori conservatori e religiosi; Scarlett Johansson, rinchiusa nel Park Hyatt di Tokyo (Lost in Translation) e confrontata con un attore instabile (Bill Murray); Kirsten Dunst nella crinolina dell’ingenua arciduchessa approdata a Versailles (Marie Antoinette); Stephen Dorff, recluso nella sua stanza d’albergo (Somewhere); le collegiali assediate durante la Guerra Civile in L’inganno (guarda la video recensione). Ma c’è anche Bling Ring nella sensazione euforica di Priscilla di aver messo a segno il colpo del secolo, la miracolosa conquista del cuore più desiderato d’America, aprendo le porte a una celebrità senza limiti. Meglio di chiunque altro, Sofia Coppola sa come trasformare i suoi personaggi in individui sopraffatti dalla maestosità del luogo in cui vivono. Solo l’intima comprensione del suo soggetto avrebbe potuto concepire l’inquadratura riuscita di Priscilla che infila il piede nudo in uno spesso tappeto rosa. Non esiste un tappeto simile a Graceland, la casa museo di Elvis Presley a Memphis, ma l’immagine dice bene su una donna ancorata ad un mondo così glamour e accogliente che diventerà impensabile lasciarlo. Tuttavia le eroine di Sofia Coppola non sono condannate per sempre. Nel mondo disegnato dalla regista finiscono sempre per trovare la strada e uscire dal proprio bozzolo. È diventato un passaggio obbligatorio dei suoi film. Alla fine le sbarre si aprono: Scarlett Johansson cammina per le strade di Tokyo, Stephen Dorff lascia il ‘castello’ e guida finalmente lungo l’autostrada, Marie Antoniette lascia Versailles, Priscilla, al volante della sua auto, se ne va senza voltarsi indietro.


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In foto una scena de Il giardino delle vergini suicide.

IL GIARDINO DELLE VERGINI SUICIDE
Anni ‘70, cinque sorelle pongono inspiegabilmente fine alla loro vita, per fuggire forse il supplizio della loro perfezione. Ritratto di sorelle in un interno, tutte bionde, tutte evanescenti, Il giardino delle vergini suicide è il primo film di Sofia Coppola e l’adattamento del romanzo omonimo di Jeffrey Eugenides. Cinque giovani donne decidono di ‘salvarsi’ suicidandosi e lasciando la narrazione del gesto a un collettivo di adolescenti inconsolabili e innamorati. La loro memoria plurale ricostruisce i fatti e dona al film la sua forma speciale, fatta di reminiscenze, sogni ad occhi aperti, fantasie confuse e ricordi riscostruiti. Dee irraggiungibili, eternizzate intorno a un giradischi, un telefono e qualche canzone sentimentale, le sorelle Lisbon sono un concentrato di eros e thanatos. Tutto il film si fonda sulla distorsione tra le apparenze (ordine, lusso e voluttà) e una realtà più oscura e sotterranea. Sotto l’aspetto candido e biondo, le fanciulle sono abitate da impulsi oscuri. L’adolescenza è sicuramente la terra da cui non c’è ritorno, c’è tutto, ma tutto brilla dell’intensa luminosità delle ultime volte. Il giardino delle vergini suicide segna la prima collaborazione tra Sofia Coppola e Kirsten Dunst. Nel film è Lux Lisbon, una lucciola che brilla.


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LOST IN TRANSLATION
Un uomo, una donna, uno sguardo, un hotel. Pensiamo di conoscere l’adagio ma Sofia Coppola lo suona alla sua maniera, limpida, chiara. La donna è Charlotte (Scarlett Johansson), una giovane sposa perduta col volto pieno di sonno. L’uomo è un attore in declino che ha il doppio dei suoi anni e un’espressione perennemente imbronciata. Meteoriti disorientati, ubriachi di noia e solitudine, Bob e Charlotte ruotano su se stessi prima di scontrarsi dolcemente. La loro attrazione è regolata dal fuso orario e dal dolore comune e fugace dello straniero privato dei suoi punti di riferimento.  Costretti a vivere in controtempo. Bob e Charlotte si raggiungono per solidarietà metafisica, uniti dalla bellezza del loro silenzio nel trambusto di Tokyo. Come le vergini del debutto, Charlotte è giovane e bionda, penetrante e traslucida. Si è appena sposata, studia filosofia e guarda alla vita come se l’avesse colta di sorpresa. Nella messa in scena sensoriale di Coppola, cerca un segno in un mondo di segni indecifrabili.


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In foto Kirsten Dunst in una scena di Marie Antoinette.

MARIE ANTOINETTE
La storia è conforme a quella stabilita dagli storici, per il resto è carta bianca per Sofia Coppola che filtra tutto attraverso il suo gusto e i suoi colori: un’orgia di pasticcini pastello, di dissolutezza punk-rock e un paio di Converse nel mezzo di scarpine d’epoca. Al centro del quadro ancora una vergine e come tutte le vergini è una ragazza senza storia. Almeno fino a quando Versailles e Coppola non gliene offrono una sotto gli orpelli della corte e attraverso una ricostruzione pop e deliziosamente anacronistica del XVIII secolo. Sofia Coppola registra il battito di un cuore giovane, quello di Maria Antonietta (Kirsten Dunst), regina della frivolezza e donna-bambina che ha solo voglia di sognare. Un altro bel ritratto, tra spleen ed ebbrezza, di un’eroina disadattata nel suo mondo e sempre più arroccata in quello che inventa per sé. La regista segue con fervore la sua regina mentre si abbandona al lusso e alla lussuria, ai suoi capricci e alle sue distrazioni, inebriata dalle spese e dagli sprechi: abiti, parrucche, scenografie. Una vita che scorre veloce, dall’adolescenza ai trent’anni, fino all’immagine di una bambina cacciata per sempre dal suo parco giochi. Una bambina che invece di scoppiare in lacrime mostra una dignità impressionante, adesso è una Regina, ma è troppo tardi.


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In foto Elle Fanning in una scena di Somewhere.

SOMEWHERE
Benvenuti allo Chateau Marmont sul Sunset Boulevard, storico ritrovo dell’élite decadente di Hollywood... Nuovo momento di grazia per Sofia Coppola che segue questa volta la solitudine di un attore di film commerciali (Stephen Dorff), impegnato qualche giorno con la figlia adolescente. Non succede nulla o molto poco ma la curiosità dell’autrice per l’intimità del suo personaggio, gloria effimera nel regno del sogno industriale, è divorante e profonda. Senza dubbio questo desiderio viene da lontano, da una familiarità con quei luoghi e con quelle persone, da quando, da bambina, giocava nei corridoi del Marmont e osservava i suoi clienti. Sofia Coppola ha creato una brillante variazione sul vuoto contemporaneo, indagando i remoti recessi della solitudine. Moderato e pop, Somewhere lavora con la noia universale e riesce a rendere tangibile la finitudine umana. L’eroe questa volta è un uomo, un attore che gioca all’attore nei ‘tempi morti’, ma mai così vivi, eloquenti e commoventi di Sofia Coppola e di Elle Fanning, precipitato biondo delle sue vergini. L’attrice è Cleo, undici anni e l’innocenza dipinta sul volto con la maturità e la tristezza di una bambina protetta e abbandonata allo stesso tempo.


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In foto una scena di L'inganno (guarda la video recensione).

L'INGANNO 
Sofia Coppola ama guardare gli uomini attraverso gli occhi di una donna. Se Bill Murray è così seducente in Lost in Translation è perché vive attraverso lo sguardo di una giovane americana incarnata da Scarlett Johansson. Con L’inganno (guarda la video recensione), dramma ambientato durante la guerra di Secessione, l’autrice spinge il processo più lontano. Ritorna al ‘femminile plurale’ e posa sette paia di occhi su un unico uomo (Colin Farrell). Ma quello che alla fine mette in scena non è l’effetto di quella profusione di sguardi sul personaggio maschile - quasi secondario nonostante il suo monopolio (non si vedono altri uomini) e il tempo di permanenza sullo schermo -, sono piuttosto i tormenti, le estasi, i calcoli e le aspirazioni che colgono le sue eroine davanti all’irruzione del soldato John. Nicole Kidman, matriarca imperiosa e affatto insensibile al richiamo dei sensi ma capace di sacrificarli per un progetto più grande, ritorna al suo registro preferito, mentre Elle Fanning, adolescente curiosa di tutto, in particolare delle cose d’amore, traccia la variazione dell’emozione nata dall’apparizione dell’uomo con inquietante ambiguità. Ma la più sorprendente è Kirsten Dunst, l’attrice, che abbiamo conosciuto solare, è come congelata dalla disperazione prima di trasformarsi in figura tragica. La regista filma la relazione del gineceo con l’intruso come un lungo e avido sussulto. A un bacio segue un morso e il desiderio di divorare la bambola.


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