La saga di Jurassic Park ha vissuto, fin dal primo episodio, della geniale intuizione di Michael Crichton e Steven Spielberg: se il film postmoderno era ormai un gioco, tanto valeva rispecchiarsi nel luna park. E dunque il merchandising del parco giurassico "nel" film era lo stesso dei gadget dedicati "al" film, così come la similitudine tra turista del luogo di attrazione e spettatore del blockbuster anni Novanta si faceva palese e scoperta. Last but not least, gli effetti speciali di nuova generazione esplodevano davanti agli occhi del pubblico, chiamato e reagire a bocca aperta insieme ai primi piani stupefatti di Sam Neill e Laura Dern di fronte ai dinosauri riportati in vita.

Il corto circuito si perdeva nei sequel, anche se Spielberg ne Il mondo perduto nascondeva in verità la sua opera più cinefila con riferimenti alla fantascienza anni Cinquanta, ad Hatari! di Hawks e al cinema bellico. Ora si torna al parco giurassico, che - come i parchi Disney - ora preferisce un più generico "world" all'ormai stantio "park". Ed è tutto adeguato al secondo decennio degli anni Duemila (forse qualcosa di più, vista i futuristici sviluppi della scienza genetica): ologrammi, controlli digitali, navette ovoidali, e così via. Il resto, invece, rimane sostanzialmente uguale: la hybris della scienza subordinata al capitale, il cinismo degli esperimenti militari, l'ignoranza verso il mondo della natura e delle sue leggi, la costruzione di una famiglia temporanea per l'avventura.

A un certo punto, senza svelare troppo, i nostri protagonisti si imbattono in un'area dove vengono conservati jeep, oggetti e loghi del primo Jurassic Park. I personaggi in scena riconoscono figure e design del vecchio parco, ma vengono preceduti dai piccoli spettatori in sala, che subito gridano "Il Jurassic Park! Il Jurassic Park".
Dando per scontato che la stessa reazione si scateni in molte sale del mondo, questo spiega al tempo stesso strategia di marketing e strategia narrativa di Jurassic World. Non si tratta più di far capire - come voleva Spielberg - che il blockbuster digitale è in fondo un parente stretto dei parchi giochi; oggi che il cinema ha già ritrovato il suo equilibrio tra vecchi e nuovi media, si tratta di sancire il patto che lega nuove e vecchie generazioni nelle sale cinematografiche e nei multiplex. I genitori che hanno visto da giovani Jurassic Park, lo hanno fatto conoscere ai figli in DVD, e oggi insieme godono del legame che il nuovo episodio evidenza con il capostipite. La nostalgia non si ferma qui: è quasi incredibile come Colin Trevorrow e i suoi collaboratori - su probabile suggestione di Spielberg e della Amblin - abbiano messo a punto uno stile cinematografico perfettamente idoneo a quelli degli anni Ottanta/Novanta, e lo si nota nelle fonti luminose, nella tavolozza cromatica, nei dialoghi, nelle identità dei personaggi, nel montaggio, nell'abbigliamento, insomma in tutti gli angoli anche più nascosti del film.

Un calco sorprendente e riuscito, che si aggiunge al fatto che Spielberg aveva nel 1993 concepito Jurassic Park come un'evoluzione più famigliare e archeologica del grande scontro tra uomo e natura incontrollabile di Lo squalo, di cui oggi festeggiamo i quarant'anni. E Lo squalo, a detta del regista e di molti commentatori, era stato immaginato per adeguare ai ritmi del cinema moderno la suspense hitchcockiana di dodici anni prima, ne Gli uccelli (1963). Ancora una volta il cinema si dimostra un tunnel spazio-temporale in cui i tessuti si rigenerano lasciando tracce genetiche sempre più stratificate, proprio come il DNA dell'Indomitus che - per quanto creato in laboratorio - fa quel che natura gli impone.