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Un supereroe industriale

Iron Man 3 e il progresso americano.
di Roy Menarini

In foto l'attore Robert Downey Jr. in una scena di Iron Man 3.
Robert Downey Jr. (Robert Downey) (59 anni) 4 aprile 1965, New York City (New York - USA) - Ariete. Interpreta Tony Stark/Iron Man nel film di Shane Black Iron Man 3.

domenica 28 aprile 2013 - Approfondimenti

Ormai lo sanno tutti. Alla fine dei film della Marvel non bisogna uscire prima dei titoli di coda. Anche questa volta c'è una sorpresa, che ovviamente non raccontiamo, importante tuttavia poiché svela il meccanismo narrativo della "voce over" nel film. In effetti, la voce di Stark ci accompagna, in questo terzo capitolo della saga, quasi in forma confidenziale, come se facesse i conti in definitiva con il suo essere al tempo stesso eroe e parodia dello stesso. I passaggi dall'ironia all'azione e viceversa - non a caso il regista è Shane Black, inventore o quasi dell'action comedy anni Ottanta/Novanta grazie alla sceneggiatura di Arma Letale e L'ultimo boy scout - servono anche in questo caso a produrre l'ennesima riflessione sul supereroe nella cultura contemporanea.
Quel che interessa del personaggio di Iron Man, in verità, continua ad essere il suo tratto essenziale, presente fin dal primo capitolo (e ovviamente necessario anche nei fumetti): l'identità industriale dell'eroe. Iron Man, più di ogni altro mito popolare, è figlio della cultura imprenditoriale americana, del progresso spinto ai limiti, dell'invenzione che usa enormi capitali per trovare risultati che proteggano la società. Una retorica vecchia a morire, che talvolta rischia di sovrapporsi con l'industria bellica (debito pagato col primo capitolo) e altre volte necessita di un nemico eguale e contrario per giustificarsi, come succede in Iron Man 3 attraverso gli antagonisti, scienziati al servizio della distruzione.
Senza la profonda revisione popolare di Joss Whedon, capace di tenere insieme eroi molteplici e strade narrative iper-seriali in The Avengers, Shane Black torna al cinema-cinema e cerca comunque di trovare una strada alla fragilità di Tony Stark. L'idea questa volta risiede nell'incessante, imperterrita frantumazione dell'eroe. Non solo Stark soffre di attacchi di panico - inaudito per un "maschio alpha" come lui - ma l'armatura tecnologica fa continuamente difetto, e si sbriciola in almeno tre sequenze del film. Tutte le volte, Stark deve rimetterla in sesto, e ricostruire il corpo dell'eroe, spianando la strada anche a una revisione psicologica del suo io, attaccata dall'ansia e dalla perdita di controllo.
È da tempo che insistiamo sulla fragilità del supereroe in epoca obamiana: Lanterna verde deve inventare la propria fantasia per assumere, riottoso, un ruolo salvifico, Thor viene creduto un buffone e un clown prima di riprendere lo scettro (il martello), Spider-Man ricomincia sempre da capo con aria da nerd, e Batman - altro miliardario infelice - assume sovente le colpe di altri e sorregge un mondo dove il caos e le Borse crollano sotto i colpi del terrore. Non basta che tutti, Iron Man compreso, alla fine prevalgano. Quella è solo la legge del racconto hollywoodiano. Dietro, si vedono i fantasmi di una nazione che teme di non essere più competitiva e le paure di un'industria, quella audiovisiva, che si specchia nei supereroi con smaccata trasparenza.

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