Alain Resnais è un regista, scrittore, sceneggiatore, montatore, è nato il 3 giugno 1922 a Vannes (Francia) ed è morto il 1 marzo 2014 all'età di 91 anni a Parigi (Francia).
Grande sperimentatore, osannato fin dai suoi primi cortometraggi, Resnais (1922) si è misurato in modo originale con generi diversi, ma soprattutto - caso forse unico nella storia del cinema - ha cambiato ogni volta, nel corso della sua carriera, soggettisti e sceneggiatori. Tutto ciò caratterizza la produzione di Resnais in maniera variegata, nel senso che nessuno dei suoi film ha assonanze con quello precedente. Tuttavia la critica ufficiale, fin dal suo esordio memorabile nel 1959 con Hiroshima, mon amour, lo etichettò come regista della memoria. Una definizione che necessita però di più di un chiarimento. Secondo il regista francese infatti esistono due modi per far cinema: riprendere la realtà nei suoi accadimenti quotidiani; esplorare con la macchina da presa la coscienza delle persone. Ma questa seconda maniera - che è quella che Resnais predilige - non comporta un estraniamento dal mondo reale, bensì una sua ricostruzione in base alle logiche della mente e dell'animo umano. Resnais è convinto cioè che, oltre al livello visibile, è perfettamente reale anche il frutto del pensiero, delle sensazioni, della memoria dell'uomo, giacché tutti questi elementi contribuiscono alla comprensione delle cose e del mondo. Questo vuol dire che un flash di memoria di un personaggio resnaisiano non è una proiezione all'indietro, in un mondo terminato, ma costituisce anzi la comprensione profonda (oltre il piano puramente visivo) di ciò che accade nella realtà. Memoria quindi nell'accezione che ne dà Bergson: inserita nel presente e proiettata sul futuro. Hiroshima, mon amour è più che emblematico per chiarire questa concezione. Si tratta di un film antinucleare in cui si sviluppa una storia d'amore tra un architetto giapponese di Hiroshima e una francese, in viaggio in Giappone. L'amore che nasce tra i due viene ambientato e analizzato nel contesto della città giapponese. Ma questa operazione viene effettuata tramite la memoria di un amore vissuto dalla donna nei confronti di uno straniero conosciuto durante la guerra (un tedesco disertore ucciso davanti ai suoi occhi): l'immagine mentale descrive questo passato, ma ad innescare il pensiero del ricordo è il presente, la tragedia collettiva di Hiroshima, le grida e le voci, che non a caso fanno da colonna sonora ai diversi flash. É come se l'azione del passato accadesse solo al presente. Il ricordo è dunque il frutto di un'associazione mentale che nasce dal presente e aiuta a comprenderlo.
Dopo il fortunato esordio, Resnais gira nel 1961 L'anno scorso a Marienbad. L'azione si svolge all'interno di un castello senza tempo, dove passato e presente perdono i connotati, imprigionati in perfette geometrie. Malgrado la sua estrema complessità - lo studio in una dimensione tutta psicologica delle incertezze dell'amore e dei mondi paralleli che avvicina - il film riscosse un enorme successo, tanto da diventare un fenomeno di costume e un esempio per molti registi a venire.
Muriel, il tempo di un ritorno (1963) è invece un film che spezza, in tanti piccoli frammenti, vita, ricordi e fantasie di una serie di personaggi confusi. É una pellicola che provoca disagio in quanto costruita con persone normali, calate in un comune contesto di provincia, con problemi di vita ordinari, eppure con un vissuto fatto di tanti piccoli tasselli che li fa incrociare, ma di cui alla fine non rimarrà assolutamente nulla: il film si chiude con la descrizione della casa, abitata solo da muti oggetti. Forse per questa sua drammaticità non riscuote gran successo. Di converso, il film successivo, La guerra è finita (1966), è quello che si definisce un film d'azione. É la cronaca, effettuata attraverso immagini del subconscio, di tre giorni dell'esistenza di un vecchio militante spagnolo che osserva le pratiche del terrosismo attuale.
Per il film successivo, Je t'aime, je t'aime (1968), Resnais costruisce un originale genere fantascientifico, con cui affronta difficili tematiche - la concezione del tempo vitale come sommatoria di tanti piccoli passati e la visione dell'amore come attentato alla vita morale della persona desiderata - con gusto comico e grottesco. Trovandosi però ad uscire in un contesto (il maggio del 1968) in cui l'esigenza degli spettatori era proiettata verso vicende reali, il film procurò a Resnais un tale insuccesso di pubblico, da costringerlo a rimanere inattivo per molti anni.
Il suo ritorno coincide anche con il suo capolavoro, Providence (1977), in cui maggiormente prendono forma le teorie di Resnais. Descrive infatti i meccanismi che sostengono la creazione artistica, osservando un vecchio scrittore che sta concludendo il suo ultimo libro e vorrebbe dispensare premi e punizioni ai suoi figli. Ma la creazione gli sfugge di mano; i personaggi cominciano a confondersi, a uscire fuori dal quadro che lui stesso va tracciando. L'artista non è il vero creatore della sua opera, ma è solo uno spettatore di ciò che la sua mente produce liberamente.
Vari e articolati gli ultimi film del regista: con Mon oncle d'Amerique (1980) Resnais cerca di dimostrare, con toni da commedia, che il comportamento umano è dominato essenzialmente dal suo immaginario; ne La vita è un romanzo (1983) ripropone le tematiche a lui più care, ma con un'ispirazione meno sentita e un ritmo più stanco; L'amour à mort (1984) è una profonda riflessione sull'amour fou, descritto con tale eroismo e passione da assumere i caratteri della fede religiosa; Melò (1986) è una storia d'amore e seduzione, girata in interni e splendidamente interpretata; Voglio tornare a casa (1989), infine, è un vera e propria commedia, costruita sul confronto divertito tra la cultura francese e quella americana.
At 84, with his silver helmet of hair, elegant bearing and crisply pressed blue blazer, Alain Resnais can look more like a retired yachtsman than one of Europe’s most senior and respected filmmakers. Yet, after 16 features and countless shorts, the director of Hiroshima Mon Amour and Night and Fog isn’t ready to settle back on a leather banquette and sip Champagne from a flute. Mr. Resnais continues to work and work brilliantly drawing on a reserve of youthful en ergy and imagination to produce a new film ev ery two or thrée years, full of surprises.
His latest work Private Fears in Public Places, will open in New York on Friday. In its grace, assurance and quietly assumed formal inventIveness, it seems like a rebuke to the sprawling excess of more self-consciously avant-garde films like David Lynch’s Inland Empire. Mr. Resnais, after all, put giant rodent heads on his actors (in 1980’s Mon Onde d’Amerique) years before Mr. Lynch had a similar inspiration in Inland Empire: hardly the most significant of Mr. Resnais’s artistic innovations but one that speaks to the restless sense of experimentation that lies just beneath the deliberately simple, carefully composed surface of his work.
Although his career has overlapped those of François Truffaut, Jean-Luc’ Godard and other critics-turned-filmmakers who became collectively known as the New Wave, Mr. Resnais was nevér a member of their group. ‘He, and contemporaries like Agnes Varda and Chris Marker, came from the liberal intellectual establishment of the Left Bank, while Truffaut and many of his colleagues were uncredentialed Right Bank outsiders, whose politics, at least in the early days, tended toward Catholic conservatism.
Mr. Resnais was particularly close to the writers associated with the nouvel roman, the anti-naturalistic, anti-psychological novels that emerged after World War II. He commissioned several of those writers, including Marguerite Duras (Hiroshima Mon Amour, 1959), Alain Robbe-Grillet (Last Year at Marienbad, 1961), Jean Cayrol (Muriel, 1963) and Jorge Semprun (La Guerre Est Finie, 1966), to collaborate with him on his early features.
These writers brought with them their sense of the malleability of time (hence the complicated flashback and flash-forward structures of the early films) and the importance and imperfection of memory. In Hiroshima the heroine, a French actress (Emmanuelle Riva) making a film in Japan, is haunted by her recollections of the end of the war in France, where she was branded a collaborator. In Muriel the Delphine Seyrig character lives between a past she can’t comprehend (Why did her fiancé abandon her on the eve, of World War II?) and a present she can’t control. (The fiancé has reappeared, with vague hopes of renewing the relationship but with his young mistress in tow.)
Last Year at Marienbad, also with the sublime Ms. Seyrig, has become almost the archetypical enigmatic art film, with characters identified only by initials, living in an otherworldly chateau and not quite sure whether they are planning future seductions or remembering old ones. For Mr. Resnais the linear narratives developed via Hollywood and the French “tradition of quality” (as Truffaut dismissed it, with contempt) could not incorporate the modernist sense of ambiguity and relativism something new had to be found, a way of storytelling that discarded the old certainties of the strict chain of events, and entered into that mental space where everything happens at once.
The culmination of Mr.’ Resnais’s memory films is Je T’aime, Je T’aime, a 1968 science fiction feature about a failed suicide (Claude Rich) who agrees to p rticipate in a time-travel experiment, only to find himself permanently entrapped in his own memories when the experiment goes wrong.
Up to this point Mr. Resnais’s films may have had scrambled structures, but they largely adhered to the naturalistic Conventions of cinematic storytelling: psychologically rounded characters, a documentary-like fidelity to real-world locations, a desire to bind the viewer to the characters through the. psychological process of identification. We experience Muriel more or less from Ms. Seyrig’s point of view, sharing her feelings and confusions.
But with La Vie Est un Roman (Life Is a Novel, released here under the sugary title Life Is a Bed of Roses in 1983) Mr. Resnais’s approach took a decisive turn. Working with, one of Truffaut’s favorite screenwriters, Jean Gruault (Jules et Jim), he assembled a wildly free-form narrative, which he conceived through the old Surrealist game of automatic writing: One thing seems to follow another, with only the thinnest ‘tissue of narrative connection, as the film m moves between the original bohemian occupants of an eccentric chateau built as a utopian dream on the eve of World War II and the current guests of the chateau, now a conference center, who are attending a seminar on children’s imagination. Meanwhile those children are dreaming up an operetta set in the chateau’s imagined medieval past. Memory is not the complicating factor here so much as it is Mr. Resnais’s personal conception of the collective unconscious, a vast, subterranean. territory filled with bit of high culture and low, of received ideas and revolutionary impulses, of spiritual yearnings and lustful desires.
The American art-house audience did not take to La Vie Est un Roman, most likely because of the new acting style histrionic and highly self-conscious that Mr. Resnais had developed with a new group of actors, including several who became regulars in his later films (Fanny Ardant, Pierre Arditi, Sabine Azéma, André Dussollier). The characters suddenly seemed cartoonish, and the actors’ delivery seemed more elocutionary than interpretive. Mr. Resnais had rediscovered the artificialitiesof the theater and began to use them, as he later said, to create “a movement back and forth between identification and distance, between sympathy and antipathy” for his characters.
A viewer raised on a diet of American television drama, with its tradition of light naturalism, would find little enough to identify with in the extreme posturing of Mélo, Mr. Resnais’s 1986 adaptation of a 1929 play, or the near-hysteria of Pas Sur la Bouche, his 2003 adaptation of a 1925 operetta. Characters who spontaneously sang were also at the center of On Connait la Chanson (Same Old Song), his 1997 variation on Dennis Potter’s technique of placing period pop hits in characters’ mouths. But it is precisely that sense of alienation that Mr. Resnais is looking for; he wants to discomfort his audience, to make us aware of the formal devices operating in any work of art, and particularly in the cinema.
In 1993 Mr. Resais adapted a set of interlocking plays by the British writer Alan Ayckbourn: Smoking, in which Ms. Azéma’s decision to light up a cigarette sets off one chain of events, and No Smoking, in which she declines and the action unfolds quite differently. All the roles in both parts were played by Ms. Azéma and Mr. Arditi a classic alienation effect even though Mr. Resnais was careful to reproduce Mr. Ayckbourn’s canny stagecraft, getting characters on and off the stage with ‘a degree of plausibility.
Now, 14 years later, Mr. Resnais has adapted another Ayckbourn piece, Private Fears in Public Places. (The French release title, somewhat more concise, is Coeurs.) The cast is considerably larger. Mr. Arditi and Ms. Azéma are joined by Mr. Dussollier, as well as three newcomers: Lambert Wilson, Laura Morante and Isabelle Carré. But like the Smoking films, this picture is constructed as a series of two-handed dialogues, while the six main characters move through the desolate but developing area of Paris near the new Bibliothèque Nationale.
Beginning with the opening shot a combination of digital effects and miniatures that allows Mr. Resnais’s camera to descend through the clouds surrounding the Eiffel Tower and pull up to the window of the apartment where a real estate agent is showing a prospective buyer the limited amenities the film takes place in an atmosphere of forthright artificiality, an effect reinforced by the fake snow that does not cease to descend on the studio sets. As the main characters are introduced, each stuck in a different, not very happy place in life, the viewer instinctively cringes; the stage is set for yet another “interlocking destinies” film, in. the predictable manner of Babel. But as the characters cross and recross one another, none of the expected resolutions occur, none of the characters are• matched up with their soul mates, none of the miscreants are punished. In short, none of the promises made by the genre are even remotely fulfilled, even as the flimsiness of the form and the brightness of the colors suggest a world ready to concede to the characters’ desires.
As Mr.. Resnais told a French interviewer, the effect he is after is one of “désolation allègre,” a blithe, jaunty despair. It is a phrase that perfectly describes the late films of Alain Resnais, as it describes the comparable work of Ernst Lubitsch, Max Ophuls, Jean Renoir and so many other the European masters: another way, perhaps, of saying “wisdom.”
Da The New York Times, 8 aprile 2007
Alain Resnais è una leggenda vivente. La sua cinquantennale carriera, sin da Notte e nebbia del 1955, è stata contrassegnata da film che hanno lasciato il segno su intere generazioni di cinefili. Figura cardine della Nouvelle Vague francese, il regista è ancora molto attivo. I suoi film hanno vinto i maggiori premi dei principali festival, alimentando controversie e dibattiti. L’arguto e innovativo Cuori, è la testimonianza di come Alain Resnais sia ancora oggi un regista all’avanguardia.
A questo figlio di un farmacista di provincia, che tenta prima la strada del teatro e poi quella del cinema (frequenza dell'IDHEC*, amatorismo, cortometraggi), si debbono le più sottili riflessioni visive sul problema della memoria. Con il terribile Nuit et brouillard, un documentario del 1955 sulla operazione «Nacht und Nebel» dei nazisti e i campi di concentramento, mette a confronto ieri e oggi. Ripete l'indagine, ampliandola e approfondendola, con il primo lungometraggio Hiroshima mon amour (1959) - che collega due tempi diversi (il Giappone contemporaneo e la Francia occupata), lontanissimi eppure vicini: la suggestione del ricordo della protagonista, che la memoria proietta nel passato, è assai forte, autentica. Non così autentica perché più sospesa e volutamente incomprensibile è quella che sprigiona da L'anno scorso a Marienbad (1961), Leone d'oro a Venezia, ma lo sperimentalismo e le commistioni con letteratura e filosofia riscattano ampiamente la gelida oscurità del tema. Meno efficace, perché ormai ripetitivo, è l'intreccio di Muriel, il tempo di un ritorno (1963), basato su una memoria dolorosa e turpe.
Quando il discorso sembra esaurito, Resnais ripiega su uno schema narrativo più lineare e si scopre - grazie alla collaborazione di Jorge Semprún - regista politicamente impegnato, in grado di render credibili le peripezie di un fuoruscito spagnolo (interpretato da Yves Montand) che prosegue la sua lotta contro il franchismo: La guerra è finita (1966), Prix Delluc, grande successo internazionale. Dopo un periodo di eclisse, provocato dall'insuccesso del fantascientifico Je t'aime, je t'aime (1968) che ripropone in maniera artificiosa la tematica della memoria, Resnais ritrova l'incisività di uno stile lucido e razionale in Providence (1977), che mischia immaginazione, memoria e sgradevole realtà nella figura di uno scrittore in punto di morte (un aulico John Gielgud), raggiunto non solo dagli angosciosi ricordi ma anche dai figli (uno è interpretato da un acuto Dirk Bogarde): un'opera complessa, a tratti splendida. I film successivi sono nettamente inferiori, se non inutili (tranne, forse, Mon oncle d Amérique, 1980).
*Institut Des Hautes Etudes Cinématographiques
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Tra il 1948 e il 1958 realizza sette mediometraggi che lo impongono immediatamente come una delle personalità più in vista del nuovo cinema francese, accanto a Chris Marker e Agnès Varda (Alain è il montatore del primo film di Agnès).
Appoggiandosi volta a volta su uno scrittore diverso (Duras, Robbe-Grillet, Cayrol, Ayckbourn, Jaoui-Bacri…), il regista bretone riesce ad appropriarsi di qualunque soggetto. Hiroshima mon amour (1959) nasce dalla proposta di un produttore di realizzare un film sulla bomba atomica; contrapponendo in maniera molto originale la tragedia collettiva di un popolo e quella privata di una ragazza di Nevers durante l’ultimo conflitto, Resnais ci offre una folgorante storia d’amore, un viaggio straziante nei meccanismi della memoria e dell’oblio. Storia coraggiosamente aperta di una seduzione sui generis, L’année dernière à Marienbad (1961), dimostra che l’ambito della ricerca di Alain Resnais è molto più ambizioso e vasto. Non solo il “tempo perduto”, ma il tempo tout-court, non solo uno (la memoria), ma l’insieme di tutti i processi mentali.
Resnais è uno dei primi registi che abbia avuto l’ardire di collocare la cinepresa dentro la coscienza stessa dei personaggi. Nel tentativo di documentare i repentini mutamenti di ritmo del pensiero umano, il cineasta che ama definirsi «un realista della vita mentale» si affida a un montaggio accelerato fatto di rapidissimi flash tutti rigorosamente al presente. Come suggerisce Prédal, «l’estrema frammentazione della realtà mentale viene ricondotta a unità attraverso un mosaico di migliaia di inquadrature». L’estremo rigore formale del “cubista” non ci deve indurre però a scambiarlo per un freddo sperimentatore: la sua esplorazione della coscienza umana non ha nulla di preordinato e di teorico. Accogliendo la grande lezione del surrealismo, Alain Resnais lascia che «le cose si associno fra loro secondo una forma di attrazione sensuale e visiva». «Un regista – afferma – colloca e dispone i personaggi nell’inquadratura un po’ come un musicista butta giù degli accordi sullo spartito». Questa immagine ci suggerisce la chiave giusta per accostarci al cinema di questo surrealista involontario: abbandonarsi al flusso musicale delle immagini.
Incoraggiato dal successo dei primi due film (Leone d’oro a Venezia, Marienbad fa una discreta carriera commerciale e crea addirittura una moda), nel 1963 il regista si consacra a un progetto estremamente ambizioso: Muriel ou le temps d’un retour è lo specchio del malessere della cosiddetta “civiltà del benessere”; un malessere, un orrore, una violenza che emergono dalla vita quotidiana. Il fallimento commerciale di questo “capolavoro maledetto” rischia di compromettere la carriera dell’autore; Resnais impiegherà tre anni prima di poter realizzare La guerre est finie (1966), originalissimo ritratto di un militante comunista (dubbi, stanchezza, difficoltà di conciliare la vita sentimentale con l’impegno politico).
Je t’aime, je t’aime (1968, una delle più originali riflessioni sul mistero del tempo) cade nella totale indifferenza: in pieno Sessantotto, le storie private (tanto più se fantascientifiche come in questo caso) non interessano a nessuno. E da quell’anno per il regista bretone comincia la traversata del deserto. Uno dietro l’altro i suoi progetti (fra cui uno ispirato a un celebre eroe dei fumetti, Harry Dickson) vengono bocciati. A salvarlo dalla fame interviene, nel 1974, Jean-Paul Belmondo: la proposta del popolare attore di girare un film ispirato alla leggendaria figura del grande falsario Sacha Stavisky incontra subito il favore del regista bretone, che è sempre stato un fanatico cultore degli anni Trenta. Ripercorrendo l’esemplare carriera dell’avventuriero dotato di eccezionale magnetismo, Stavisky…(i tre puntini fanno parte del titolo) è una meditazione disincantata e amara sul fascino effimero del denaro e del potere, sulla frivolezza di un’epoca, sulla paura della morte, che l’avventuriero Stavisky tentava di esorcizzare mettendosi continuamente in mostra e recitando nella vita come un attore sul palcoscenico.
Strutturato su tre livelli di realtà, Providence (1976) è un’originalissima metafora sulla creazione e la disgregazione. «I miei film sono un tentativo, ancora grossolano e primitivo, di avvicinarmi alla complessità del pensiero, al suo meccanismo», precisa Resnais. «Tutti abbiamo delle immagini, delle cose che ci determinano... Mi sembra interessante esplorare questo mondo dell’inconscio». Il film anglo-francese viene salutato universalmente come il capolavoro della sua maturità. Nell’opera successiva – Mon oncle d’Amérique (1980) – il regista supera nuovamente se stesso. Come La vie est un roman (1983), il film nasce dall’esigenza di mettere in luce i meccanismi dell’istinto e dell’inconscio, i sogni e i grandi miti che condizionano il comportamento dell’animale uomo.
Con L’amour à mort (1984) e Mélo (1986), cambiando sempre genere, Resnais torna a interrogarsi sul mistero della passione, più forte della morte. Prevedibile l’insuccesso del primo (un rigoroso teorema bergmaniano che non concede nulla allo spettatore), inatteso il successo del secondo, raffinato omaggio all’opera di un commediografo (Henry Bernstein) oggi totalmente caduto nell’oblio. Mélo, ovvero “la vita è un melodramma”, è una sfida alla moda, ed è la dimostrazione di come si possa fare del cinema di alta classe anche partendo da un testo teatrale “minore”. L’incontro con Sabine Azéma, André Dussollier, Pierre Arditi si rivelerà provvidenziale.
Con lo sperimentale I want to go home (1989) Resnais rende omaggio alla sua passione per la commedia musicale e per i fumetti (la sceneggiatura è di Jules Feiffer, conosciuto in Italia soprattutto per le sue strisce su «Linus»). La storia di un americano, vecchia gloria del disegno a fumetti, in viaggio a Parigi per un’esposizione internazionale, è l’occasione per una riflessione agrodolce sui conflitti generazionali e per una brillante satira della “cordiale incomprensione” franco-americana. Dopo Gershwin (1992), dedicato al grande compositore che seppe fondere musica popolare e musica colta, il regista ci sorprende nuovamente con il monumentale dittico (sei ore) Smoking-No smoking (1993), da un ciclo di commedie dell’inglese Alan Ayckbourn. Un film in due tempi deliziosamente comico sugli scherzi del caso, sul potere che ha il cinema di manipolare il tempo, motivo che appassiona da sempre il regista. Si ripete il miracolo di Providence: ispirandosi a un uomo di teatro britannico, il regista bretone riesce a fare del puro cinema alla Resnais, a sedurre il nostro intelletto e a commuoverci con una ricerca strutturale d’avanguardia.
C’era una grande attesa intorno a On connaît la chanson, commedia-con-canzoni che Resnais gira nel 1997. Acuto esploratore dei meandri delle coscienze e del mistero del tempo, l’ultimo Resnais si accosta sempre più e con successo alla commedia, alla comédie musicale, di cui è un grande estimatore: Pas sur la bouche! (2004).
Fallito (per ragioni produttive) il tentativo di portare sullo schermo un’opera satirica dell’amato compositore Kurt Weill (Lo Zar si fa fotografare), il regista si rivolge nuovamente al beneamato commediografo inglese Alain Ayckbourn: ambientato a Parigi, Private fears in public places (ribattezzata Cœurs) è una nuova intrigante riflessione, visivamente raffinatissima, sulla solitudine nel mondo contemporaneo e i tentativi per uscirne.
Da France Cinema 06