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The Best of 2024: 12 mesi di grandi film. In attesa di vedere gli imperdibili dell'anno 2025

Da La zona d'interesse a Povere creature!, da Vermiglio a Parthenope, ecco le opere migliori dell'anno che sta per finire: film che bisogna vedere e recuperare, opere grandi e piccole che hanno lasciato il segno.
di Giancarlo Zappoli

martedì 17 dicembre 2024 - News

“Come fa lei per scegliere un film?”
“Come scelgo una donna: correndo dei rischi”.
Silvano Tranquilli e Lino Ventura in Una donna e una canaglia di Claude Lelouch

In questa risposta un po’ stile macho di Lino Ventura (la ‘canaglia’ del film) possiamo trovare un fondo di verità. Scegliere un film comporta il rischio di possibili delusioni ma anche di straordinarie scoperte. MYmovies si è data come compito in tutti questi anni di contribuire alla diminuzione delle prime segnalando ciò che è positivo e ciò che lo è meno di ogni film. Anche quest’anno è arrivato il momento di fare sintesi con la consapevolezza che non è un’impresa facile perché non sono mancate le opere interessanti, alcune delle quali sono state magari poco viste ma meritano una segnalazione. Sarà quindi possibile non trovare, tra i titoli proposti in ordine cronologico di uscita, questo o quel film che chi legge ritiene degno di nota. Dopo una prima selezione le segnalazioni erano più di 30 e il taglio drastico è stato inevitabile con la conseguenza di cui sopra. Si tratta pertanto di un segnale che lascia ben sperare per il futuro. Aspettiamo quindi di poter vedere gli imperdibili film del 2025.

GENNAIO
PERFECT DAYS di Wim Wenders

Non molti avrebbero scommesso su un film di un regista sicuramente non ‘facile’ come Wenders con al centro le giornate di un uomo di sessant’anni addetto alla pulizia dei bagni pubblici a Tokyo. Non ci sono colpi di scena sconvolgenti o scene di azione. C’è la dignità di un uomo che svolge un lavoro che si definisce come umile pronto ad accettare il rapporto con gli altri con grande semplicità. Wenders riesce a realizzare un film di finzione come fosse un documentario grazie anche all’interpretazione di Kôji Yakusho che sa regalare al suo personaggio una normalità significante. Il suo Hirayama è un uomo che ha regolato i conti con il passato facendo pace con se stesso senza tuffarsi a capofitto nel presente. Le musicassette e i rullini della macchina fotografica sono lì a testimoniare la sua scelta di vita.

POVERE CREATURE! di Yorgos Lanthimos
Onusto (come si sarebbe detto un tempo) di riconoscimenti (da Venezia agli Oscar passando per i Golden Globes e molti altri) è il film con cui Lanthimos ha anche raggiunto la definitiva consacrazione al box office. La vicenda di Bella (un ben architettato mix tra la Cosa di Frankenstein e il Candido di Voltaire) si muove in un mondo dai tratti vittoriani ma occhieggia al presente. I maschi hanno un solo obiettivo: quello di controllarla fingendo di proteggerla mentre lei vive la sua vita, priva com’è di qualsiasi vincolo dettato da una morale e da una società che vorrebbero imporre norme innaturali ed illogiche. Lanthimos qui riesce a dosare con attenzione dramma e comicità consapevole com’è della chimica che può intercorrere tra queste due forme di rappresentazione trasfigurata dell’umanità.

FEBBRAIO
LA ZONA D’INTERESSE di Jonathan Glazer

Se si guarda alla data di uscita del film (24 febbraio) si nota immediatamente che l’accorta distribuzione non lo ha proposto alle sale come film per la Giornata della Memoria. Si è cioè compreso fin da subito che si trattava di un’opera che, al contempo, si inseriva nel filone dedicato alla Shoah riuscendo però  a proporre anche altre riflessioni. Glazer riesce a tradurre in immagini e in inquadrature cariche di senso ciò che Hannah Arendt definì la banalità del male cioè come il massimo della crudeltà possa convivere con una ‘normale’ quotidianità. Si tratta anche di una narrazione che fa proprie molte potenzialità del linguaggio cinematografico facendo sì che ciò che in una prima fase avremmo potuto leggere secondo un'ottica apparentemente giustificata da ciò che veniva mostrato finisce con l’assumere tutt’altra valenza, imponendo una vigilanza e un’osservazione che divengono giudicanti. Anche, in definitiva, su noi stessi e sulla nostra possibile progressiva assuefazione (seppur se non operativamente attiva) alla diffusione del male nel mondo.

PAST LIVES di Celine Song
È un film che, sin dalla prima sequenza, ci chiede esplicitamente di essere spettatori attivi ponendoci dei quesiti su quali possano essere i ruoli delle tre persone che compaiono sullo schermo. Subito dopo però ci trasporta in tre periodi diversi in cui si sviluppa la relazione tra due dei tre protagonisti. Siamo cioè di fronte ad una sceneggiatura che ci propone un triangolo amoroso smontando però gli stereotipi che il cinema ci presenta spesso in storie analoghe. Forse perché la regista prende spunto (ed anche qualcosa di più) da un’esperienza vissuta in prima persona raccontando di un amore adolescenziale platonico che si ripresenta nel tempo e di cui è consapevole anche colui che è diventato il consorte ufficiale. Senza però, qui sta la capacità di messa in scena di Song, ridicolizzare o non considerare adeguatamente la sua presenza. Chi ama i film romantici si troverà a suo agio ma potranno apprezzare anche coloro che amano altri generi.


In foto una scena de La zona d'interesse.

MARZO
INSHALLAH A BOY di Amjad Al Rasheed

Nawal si ritrova vedova e madre di una bambina. Se fosse incinta di un maschio avrebbe un potere contrattuale nei confronti dei parenti più prossimi che invece ora non possiede. Il regista giordano, grazie ad un’interprete più che adeguata, porta sullo schermo una vicenda accaduta a una persona a lui vicina e ci invita ad osservare una società in cui i maschi, anche quelli convinti di essere dotati delle migliori intenzioni, non fanno una bella figura. Fin qui potremmo pensare di trovarci ancora nel territorio del deja vu. Ma Al Rasheed ci porta a conoscere anche una famiglia benestante di confessione cristiano maronita in cui domina lo stesso maschilismo dell’entourage musulmano. Si percepisce inoltre chiaramente che le due cosceneggiatrici (Rula Nasser e Delphine Agut) hanno contribuito nel trovare la giusta misura per trattare temi come gravidanza ed aborto in un contesto in cui ogni cambiamento costa alle donne pesanti sacrifici.

APRILE
CIVIL WAR di Alex Garland

Proviamo ad immaginare gli Stati Uniti in cui si sono create alleanze inedite, come quella del conservatore Texas con la progressista California per opporsi ad un Presidente al terzo mandato che bombarda la Nazione con droni e ha messo in condizione di non nuocergli l’FBI. È questo lo scenario in cui si e ci colloca Garland utilizzando come tramite dei reporter che vogliono raggiungere Washington per intervistare proprio il Presidente. Lo spettatore non viene informato dei pregressi che hanno portato alla guerra civile e proprio grazie a questo (e alla neutralità di giornalisti e fotografi che percorrono il territorio) veniamo precipitati negli eventi dovendo crearci da soli delle coordinate di comprensione. Quello che si capisce rapidamente è che ognuna delle parti contrapposte si considera detentrice della verità e considera meno di niente gli avversari. Garland ambienta tutto in un’America che conosce bene ma ha ben presente conflitti analoghi in altre parti del mondo. La differenza qui è costituita dalla tecnologia a disposizione che rende le azioni ancor più dinamiche e, se possibile, violente. Un film che è anche un monito sulla (possibile) fine delle democrazie.

ZAMORA di Neri Marcorè
Anche quest’anno abbiamo avuto un attore noto che ha deciso di passare dall’altra parte della macchina da presa pur conservandosi un ruolo nell’opera prima. Marcorè, prendendo spunto da un romanzo del giornalista sportivo Roberto Perrone, ci racconta con delicatezza, ma anche con partecipazione, di un tempo che fu ma che non è poi così lontano. Lo fa con un mix di commedia e di coming of age anche se a compierla è un ormai trentenne contabile vigevanese che deve trasferirsi a Milano. Costretto a fingersi portiere di calcio per non scontentare il nuovo datore di lavoro, imparerà cosa sono i sentimenti e, in particolare, l’amore da cui prima si era tenuto in qualche misura lontano. Marcorè si ritaglia il ruolo del portiere che ha da tempo appeso le scarpette al chiodo dello sport ma anche della vita. Tutto ciò senza perdere mai di vista la giusta misura ed offrendo ad ogni attore e ad ogni comparsa la giusta collocazione. Giovanni e Giacomo privi di Aldo (che si scontrano come solo loro sanno fare), diventano il valore aggiunto di un’opera prima che fa più che ben sperare per la seconda.

MAGGIO
IL GUSTO DELLE COSE di Tran Anh Hung

Sul rapporto tra cinema e cibo si sono scritti volumi ma questo film compie un ulteriore passo in avanti. Il regista, totalmente  francesizzato e coadiuvato da uno chef tristellato (Pierre Gagnaire), ha messo in scena una storia di coppia che nella prima mezz'ora ha l’aspetto di una coreografia culinaria inserita in un ambiente e una luminosità che richiamano l’arte pittorica francese della seconda metà dell’800. La macchina da presa non si limita a riprendere vegetali, carni  e gesti necessari a trasformarli in piatti raffinati ma ne fa quasi percepire gli aromi. Siamo distanti anni luce dalle gare televisive e, al contempo, si riflette  sulla trasmissione del sapere grazie alla presenza di una giovane allieva. Si esce dalla proiezione cercando un ristorante o aprendo il frigorifero e la dispensa per allestire un piatto. D’altronde gli stessi attori, dopo lo stop dato alle riprese, continuavano a mangiare.


GIUGNO
RACCONTO DI DUE STAGIONI di Nuri Bilge Ceylan

I film del regista turco hanno sempre una notevole lunghezza. Lui ne è così consapevole da essersene scusato in occasione della presentazione a Cannes nel 2023. Ma non era necessario perché la durata, in questa occasione ancora di più che in altre, è strettamente funzionale alla narrazione di un film che ha conquistato meritatamente il riconoscimento per la migliore attrice. La vicenda di un insegnante di educazione artistica in un paesino dell’Est dell’Anatolia che è al centro di accuse da cui non può difendersi e inizia a provare una particolare attrazione nei confronti di una collega, viene declinata grazie a lunghi dialoghi. La scelta di riprenderli spesso con un’inquadratura fissa viene vivacizzata grazie al ritmo che gli attori imprimono allo scambio di battute. Il titolo è poi emblematico di uno stacco netto senza possibili mediazioni. Nella vita dei personaggi ci sono, tra loro contrastanti, solo Inverno ed Estate e questo non è certamente di aiuto.

AGOSTO
LA BICICLETTA DI BARTALI di Enrico Paolantonio

La distribuzione italiana fa fatica a proporre film che possano parlare a ragazzi ed adulti che non siano dei blockbuster. Sembra ormai una legge non scritta che opere di questo tipo debbano avere come destinazione unica lo schermo televisivo. Onore quindi al merito di chi ha portato nelle sale, seppure partendo da un mese non proprio favorevole, un film di animazione che fonde passato e presente in un’unica narrazione. La storia di due giovani ciclisti (uno arabo e uno ebreo) che appartengono a squadre rivali ma finiscono con l’unirsi ad un coetaneo palestinese per formare un proprio team si alterna con ciò che Gino Bartali fece durante l’occupazione nazista. È noto che il campione, nascondendo documenti falsi nella sua bicicletta, salvò molti ebrei dalla deportazione. Il film è uscito a quasi un anno dal 7 ottobre e da ciò che ne è conseguito e, attraverso le figure reciprocamente di nonna e nonno dei due protagonisti, ci parla del rapporto tra generazioni nonché della possibilità di vincere gli opposti integralismi distruttivi. L’utilizzo poi di una grafica ‘infantile’ per sottolineare alcuni concetti ne rafforza la struttura.

SETTEMBRE
VERMIGLIO di Maura Delpero

È stato la rivelazione della Mostra di Venezia al punto da venire successivamente segnalato come film che rappresenta l’Italia per gli Academy Awards. Alla sua opera seconda Delpero riesce ad offrire agli spettatori il ritratto di una comunità rurale del Nordest italiano durante la Seconda Guerra Mondiale. Lo fa con uno stile che ricorda quello dell’Olmi de L’albero degli zoccoli cercando però (e trovando) una propria cifra stilistica. In tempi in cui alcune piattaforme richiedono azione e colpi di scena che si susseguono questa vicenda adotta i tempi di una Natura e di una comunità così come la realtà di quei tempi chiede di essere rappresentata. Si tratta di esseri umani che vivono in un contesto non facile, che commettono errori ma che hanno anche bisogno di aprirsi al desiderio. Lo spettatore è chiamato a seguirli. Senza avere fretta.

FINALEMENT- STORIA DI UNA TROMBA CHE SI INNAMORA DI UN PIANOFORTE di Claude Lelouch
Alla tenera età di 87anni Claude Lelouch è tornato a Venezia con un Kad Merad sempre più efficace e con una storia delle sue. Cioè con una vicenda che intreccia il presente con lo sbarco in Normandia non tralasciando di citare la deportazione degli ebrei. Tutto ciò omaggiando, più teneramente che narcisisticamente, il proprio cinema per rendere i dovuti onori a Lino Ventura e non solo. Il titolo ci fa pensare ad un’opera ultima anche se da un regista come lui ci sono da aspettarsi nuove sorprese e nuove storie. Qui torna il tema dell’uomo alla ricerca di se stesso con un inizio da commedia che può trasformarsi in dramma, in vicenda romantica ed anche in un film musicale come dichiarato in apertura. La colonna sonora (non solo quella di Un uomo, una donna) è stata sempre importante nei suoi film. Qui lui stesso, i suoi attori e lo spettatore possono davvero innamorarsi di quella tromba e di quel pianoforte.


In foto una scena di Racconto di due stagioni

OTTOBRE
THE SUBSTANCE di Coralie Fargeat

Si tratta del film più divisivo dell’anno. Già alla prima proiezione a Cannes (dove ha ottenuto il premio per la migliore sceneggiatura) si erano avvertiti i netti pro e gli altrettanto netti contro. La storia della diva cui viene annunciata la ‘dismissione’ dal programma di fitness che conduce e che aderisce ad un protocollo sperimentale che le promette di farla diventare più bella e perfetta ha acceso le discussioni. La sovrabbondanza di citazioni cinefile nonché il travalicamento nello splatter e nell’horror (in particolare sul corpo femminile) hanno fatto discutere. Si tratta di una vera accusa alle pretese maschiliste o la regia finisce con l’aderirvi applicando la lente di ingrandimento sulle imperfezioni? C’è anche chi legge il tutto come parodia di una società fondamentalmente misogina. Quando un film fa così tanto discutere ha già conseguito un importante merito.

PARTHENOPE di Paolo Sorrentino
Sorrentino torna a manifestare il suo sentimento ambivalente per Napoli. Questa volta lo fa attraverso un personaggio femminile che, come la città, si perde e si ritrova non smettendo di attrarre le personalità più differenti. La citazione da Céline  “Come è enorme la vita, ci si perde dappertutto” ci fa da guida per tutta la visione ad un innamoramento che viene sottolineato dalla canzone di Paoli e Vanoni “Che cosa c’è”. Parthenope si muove tra elementi contraddittori ma resta sempre un elemento di attrazione per un regista che si scopre un po’ meno barocco e un po’ più portato all’osservazione di un eterno e multiforme femminino da cui è affascinato e che Celeste Dalla Porta riesce a portare sullo schermo con straordinaria adesione.

LA STORIA DI SOULEYMANE di Boris Lojkine
Non è il primo film sui rider ma è quello che ha colto con maggiore profondità il vissuto di chi si trova in attesa di regolarizzazione della propria presenza in una nazione europea. Lojkine ha fatto percorrere al suo protagonista Abou Sangare (vincitore agli EFA del riconoscimento quale migliore attore), in lungo  in largo e sempre velocemente, le strade di una Parigi vista come estranea quando non nemica. La macchina da presa lo tallona quasi fossimo in un film dei Dardenne per poi fermarsi quando arriva all’agognato colloquio. Lì, in quella lunga sequenza, emergono il  bisogno di una sicurezza e il senso di essere in balia del giudizio altrui che è alla ricerca di una verità che deve corrispondere a criteri già fissati. Verrebbe in mente, se il paragone non fosse troppo azzardato, la scena di Antoine Doinel davanti alla psicologa ne I quattrocento colpi di François Truffaut. Seppure con un linguaggio cinematografico diverso si avverte lo stesso senso di partecipazione nei confronti di un’umanità dolente.

NOVEMBRE
GIURATO NUMERO 2 di Clint Eastwood

Il vecchio Clint colpisce ancora con un film che va al di là del genere giudiziario per affrontare un dilemma morale che, per traslato, è quello degli Stati Uniti di oggi. Dove si colloca il confine tra menzogna e verità? Justin Kemp che si trova a giudicare qualcuno che è indiziato di un crimine di cui è il seppur involontario colpevole, quanto deve tenere conto di ciò che una condotta morale degna di questo nome imporrebbe? Quanto invece assume valore il ‘suo particulare’? Tutto questo in un contesto in cui ciò che più appare in luce risulta essere meno visto. Clint ha il cinema nel sangue così come scorre nelle sue vene l’esigenza di fare un film che diventa immediatamente un classico autonomo anche quando fa riferimento ad un altro classico come La parola ai giurati mutandolo però di segno. Chi cerca di evitare la condanna dell’imputato qui non è mosso da un principio etico ma da un tormento interiore e molto personale. In un film con un finale che si fa ricordare.

DICEMBRE
LE OCCASIONI DELL’AMORE di Stéphane Brizé

Stavamo rischiando di classificare Brizé come un regista impegnato sul fronte delle dinamiche del lavoro grazie ai film che si sono susseguiti in questi ultimi anni (La legge del mercato, In guerra, Un altro mondo seppur con la parentesi di Una vita) e invece ci spiazza con un film in cui lui, un attore in crisi, incontra del tutto casualmente lei con cui nel passato aveva avuto una relazione. Pensato nel periodo in cui infuriava il Covid, è un film sulla precarietà, ambientato in una località marittima in un periodo fuori stagione. Così come finiscono con l’essere ormai fuori stagione, Mathieu e Alice, in un film che passa dai toni da commedia raffinata e a quelli in cui lo smarrimento nei confronti di ciò che si era e ciò che si è diventati emerge a poco a poco. Con la possibilità di tornare a comprendersi se non ci fossero, a fare da ostacolo, un distacco e molti anni di lontananza.


In foto Nicholas Hoult in una scena di Giurato numero 2

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