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Hitchcock, Welles, Renoir, Wilder: un polittico prezioso su MYmovies

Qui la pala d'altare non contiene però quattro dipinti ma quattro titoli nobili: Io ti salverò, Lo straniero, L’uomo del sud, Scandalo internazionale. I quattro film sono disponibili in streaming su Più Compagnia. ACQUISTA UN ACCREDITO. 
di Pino Farinotti

martedì 29 dicembre 2020 - mymovieslive

Hitchcock, Welles, Renoir, Wilder. Un polittico prezioso, dove la pala d’altare non contiene quattro dipinti ma quattro titoli nobili del cinema. In ordine di firma: Io ti salverò, Lo straniero, L’uomo del sud, Scandalo internazionale.

I magnifici quattro (disponibili in streaming su Più Compagnia) rappresentano le culture prevalenti del cinema del mondo, con una defezione che completerebbe il quadro, l’Italia. Un inglese, un francese, un americano e un austriaco – dunque lingua e cultura tedesca - che raccontano storie americane. Sta nei fatti, e nelle opere, che uno straniero, narrando una vicenda da ospite, dunque da una prospettiva più alta e incondizionata, una volta assunti la cultura e il sentimento del Paese, possa reperire espressioni e verità diverse. E i tre stranieri del polittico “vennero, videro e vinsero”. “Vinsero” naturalmente significa compresero e risolsero. E poi, in senso stretto, vinsero gli Oscar, tanti.

IO TI SALVERÒ
Io ti salverò (Spellbound) è l’ottavo film del periodo americano di Hitchcock, del 1945. Racconta di un medico (Peck) malato di mente: crede di aver ucciso il direttore di una clinica psichiatrica. Ma sarà Ingrid Bergman, psicanalista, e reperire nel suo inconscio, la verità. E dunque a salvarlo, con tanto di storia d’amore. Il film non viene considerato uno dei vertici del genio inglese, però rappresenta due delle correnti che identificano il novecento: “Freud” e il surrealismo. Da Freud, che con la sua teoria dell’inconscio aveva condizionato scienza e arti, tutto, il regista era stato sedotto. In altri titoli successivi, La donna che visse due volte, Psyco, Marnie, lo espresse con contenuti più maturi. Per il surrealismo si rivolse al suo massimo profeta, Salvador Dalì, che creò la sequenza del sogno che la Bergman interpreta scovando una verità lontana, dei tempi dell’infanzia. Il film deve molto alla colonna sonora, intensa, “freudiana” di Miklós Rózsa, che vinse l’Oscar. 

LO STRANIERO
Lo straniero è un film del 1946 firmato da Orson Welles. In una pacifica cittadina americana vive Charles Rankin alias Franz Kindler, un nazista scampato al processo di Norimberga. Si è rifatto un’esistenza e sotto mentite spoglie sposa perfino la figlia di un giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti. Giunge un detective incaricato di indagare sulla vera identità dello straniero, la cui moglie respinge sdegnata gli insistenti sospetti che l’investigatore le confida. Dovrà ricredersi quando il marito, in un ultimo tentativo di farla franca, tenta di ucciderla e dopo un movimentato inseguimento precipita dal campanile della chiesa, ucciso dalla spada di una delle figure del carillon.

Welles non tradiva l’ abitudine, e il piacere, di dare corpo e volto a un cattivo, e che cattivo. Basta ricordarlo nel ruolo di Lime nel “Terzo uomo” dove spacciava penicillina scadente negli ospedali viennesi del dopoguerra. O nella parte dell’infernale Quinlan, il poliziotto messicano che fabbricava prove false per arrestare i criminali, o ucciderli. Anche il mitologico Kane, il citizen di Quarto potere non era una persona ... buona. L’altra “abitudine” del genius  era quella di collocare la vicenda in contesti generali, storici, sempre da una sua prospettiva “contro”. Welles non sopportava di essere convenzionale o prevedibile. E il cattivo che rappresentava era sempre pieno di fascino e avevi la tentazione di stare dalla sua parte. Rankin-Kindler non è certo pentito del suo passato, anzi lo sostiene e lo rilancia. Parlando di Marx dice “non era tedesco, era ebreo”. Persino la moglie, donna certo colta, resiste nella sua posizione pure di fronte all’evidenza.

Può essere che Welles intendesse rilevare il potere del fascino del criminale, riferendosi a quello, devastante, del suo antico capo che aveva sedotto una nazione. Quel fascino dal quale non era stata immune la moglie, espressione della borghesia. A posteriori non è improprio dire che Welles sia stato un profeta del (neo)nazismo che si sta segnalando, magari affermando, in Germania e non solo, in certi gruppi. Welles veniva definito genio, appunto. Una ragione ci sarà stata.

L'UOMO DEL SUD
L’uomo del sud (1945) è un film di Jean Renoir, decisamente importante, magari prezioso. Il regista è uno dei maestri massimi del cinema. Alcuni suoi titoli, come La grande illusione e La regola del gioco, stazionano sempre nella parte più alta della classifiche assolute. Renoir faceva parte del cinema cosiddetto del “Fronte popolare”, con autori come Clair, Carné, Prévert, che facevano arte vera. Compromesso dall’ideologia comunista che apparteneva al “Fronte”, venne esiliato nel 1941, e immediatamente accolto da Hollywood, sempre rispettosa, magari deferente, nei confronti della cultura europea.

Come aveva dimostrato adottando i talenti di lingua tedesca, profughi dopo l’avvento di Hitler: artisti come Wilder, Lang, Zinneman, Wyler, Lubitsch, Preminger, figli della Scuola di Weimar e dell’Espressionismo, che avevano elevato culturalmente lo stile spettacolare americano. Renoir, di cui era stato allievo nientemeno che Visconti, portava qualcosa di più, la straordinaria dotazione di famiglia, ereditata dal padre Auguste, profeta dell’Impressionismo. L’uomo del sud è il film più importante che ha girato in America.

Protagonista è Sam Tucker, un contadino che con la sua famiglia  coltiva un piccolo podere nel Sud degli Stati Uniti. La vita è durissima, tutti gli elementi sono contro: un’inondazione, la siccità, la carestia, le disgrazie famigliari. E nessuno lo aiuta. Ma la dedizione e i sacrifici, alla fine pagano. Quella poca terra tanto amata lo premia. A rendere “preziosa” l’opera si aggiunse anche uno sceneggiatore d’eccezione, il premio Nobel William Faulkner. Dunque un’altra combinazione di cultura franco-americana, del livello più alto. Ne esce la visione di uno scontro fra l’uomo e l’uomo, soprattutto fra l’uomo e la natura. Lo stile del film è soprattutto francese, ed è una buona notizia. Renoir privilegiò la sua radice. Assunse solo in parte il codice hollywoodiano e mantenne il suo magnifico registro. Risultato: un capolavoro.

SCANDALO INTERNAZIONALE
Scandalo internazionale (1948), di Billy Wilder. Un primo dato sul regista, eloquente: 7 Oscar vinti, fra regia, film, sceneggiatura. L’artista austriaco, naturalizzato statunitense, è il primo modello, esemplare, di uno straniero che racconta il Paese che lo ha accolto meglio degli autoctoni. Alcuni vertici, fra i molti titoli: Viale del tramonto, L’asso nella manica, Sabrina, A qualcuno piace caldo, L’appartamento. Scandalo non viene considerato una delle sue opere maggiori. Ma è sempre un film di Wilder, dunque da vedere e capire.

Scheda del dizionario “Farinotti”: “Phoebe Frost (Jean Arthur), una rigida senatrice americana, imbevuta di moralismo, viene inviata ad ispezionare le truppe di stanza a Berlino nell’immediato dopoguerra e rimane scandalizzata dall’eccessiva fraternizzazione che c’è tra occupanti e occupati. In particolare, non tollera che un misterioso ufficiale yankee (John Lund) protegga una sciantosa (Marlene Dietrich) ex amante di un gerarca nazista. Decide di scoprirne l’identità, ma si confida proprio con il colpevole, un insospettabile capitano, e questi, per distoglierla dalle indagini, finge d’amarla. La senatrice si trasforma e la finzione diventerà realtà.”.

Non c’è dubbio che Wilder avesse in mente Ninotchka, il classico di propaganda, capolavoro, di Ernst Lubitsch. Storia di una funzionaria russa che va a Parigi a controllare il comportamento di tre colleghi che si sono fatti corrompere dal sistema di vita occidentale. Sarà la stessa Ninotchcka a cadere nella rete della bella vita parigina, aiutata da un affascinante francese.

Questa volta è Phoebe ad assumersi il compito simile-opposto. E anche lei si troverà, pure dopo molte resistenze, a cambiare idea. E come sempre, l’amore aiuta. Il “tedesco” Wilder intendeva dire la sua secondo il proprio metodo, con ironia e leggerezza. Accennando a una sorta di  riabilitazione del popolo tedesco. Lui che aveva girato I mulini della morte, un documentario sui lager nazisti, destinato al pubblico tedesco per informarlo sulle atrocità commesse da un regime che il popolo stesso aveva accettato. Non si può non ricordare una Marlene Dietrich, quasi cinquantenne, che domina il film e che, ancora una volta, come il Rankin – Kindler di Welles, rappresenta la seduzione irresistibile del “cattivo”.   


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