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Jean ArthurData nascita: 17 Ottobre 1900 (Bilancia), Plattsburgh (New York - USA)Data morte: 19 Giugno 1991 (90 anni), Carmel (California - USA) |
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![]() Che cosa le hanno fatto per avere tanta sfiducia nelle donne?
dal film Avventurieri dell'aria (1939)
Jean Arthur Bonnie Lee
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Figlia di un fotografo. Affermata fotomodella, fa il suo ingresso nel mondo del cinema con una particina in Cameo Kirby (Ladro d'amore) di John Ford nel 1923. Gli inizi della sua carriera la vedono impegnata in numerosi film, soprattutto western, in ruoli d'ingenua, ma è solo con il sonoro (ha una voce roca ed espressiva) che comincia a imporsi. Il suo primo vero successo è rappresentato da The Whole Town's Talking (Tutta la città ne parla, 1935) di John Ford. Abbandonato il cliché dell'ingenua, bionda e affascinante, comincia a delineare una nuova figura femminile, quella della giovane donna di città, onesta e semplice, indipendente ed emancipata, ma anche dolce e femminile; una donna che sceglie l'uomo che vuole, ma poi rappresenta per lui un appoggio fedele. È la protagonista tipica dei film di Frank Capra - Mr. Deeds Goes to Town (E' arrivata la felicità, 1936), You Can't Take It with You (L'eterna illusione, 1938), Mr. Smith Goes to Washington (Mr. Smith va a Washington, 1939) - compagna fedele e coraggiosa del suo eroe idealista e puro. L'unica pellicola di questo periodo che fa eccezione è il western di C.B. De Mille The Plainsman (La conquista del West, 1936), dove riveste i panni di un'inverosimile, ma divertente, Calamity Jane. Fra gli altri film interpretati ricordiamo anche My Angels Have Wings (Avventurieri dell'aria, 1939) di Howard Hawks, in cui è al centro di un complicato e tragico corteggiamento. L'ultimo grande successo fu The More the Merrier (Molta brigata vita beata, 1943) di George Stevens, con cui l'attrice ottenne una nomination all'Oscar. Da allora apparve sempre più di rado sugli schermi e si ritirò definitivamente dopo Shane (Il cavaliere della valle solitaria, 1952), sempre di Stevens, dove tratteggia la figura di Marion, moglie fedele eppure segretamente innamorata di Shane. In seguito è apparsa saltuariamente in televisione (nel 1956 interpreta nei panni di un avvocato la serie tv The Jean Arthur Show). In teatro aveva ottenuto un buon successo con un Peter Pan a Broadway. Ha insegnato drammaturgia al Vassar College. Ha lasciato il ricordo di una simpatica attrice, semplice vivace e ironica: personaggio tipico e accattivante di commedia anni '30.
Da Nuovo dizionario universale del cinema - Gli autori, Editori Riuniti 1996
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Il cavaliere della valle solitaria
continua»
Genere Western, - USA 1953. |
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Mister Smith va a Washington
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Genere Commedia, - USA 1939. |
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L'eterna illusione
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Genere Commedia, - USA 1938. |
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È arrivata la felicità
Genere Commedia, - USA 1936. |
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Scandalo internazionale
Genere Commedia, - USA 1948. |
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I magnifici quattro (disponibili in streaming su Più Compagnia) rappresentano le culture prevalenti del cinema del mondo, con una defezione che completerebbe il quadro, l’Italia. Un inglese, un francese, un americano e un austriaco – dunque lingua e cultura tedesca - che raccontano storie americane. Sta nei fatti, e nelle opere, che uno straniero, narrando una vicenda da ospite, dunque da una prospettiva più alta e incondizionata, una volta assunti la cultura e il sentimento del Paese, possa reperire espressioni e verità diverse. E i tre stranieri del polittico “vennero, videro e vinsero”. “Vinsero” naturalmente significa compresero e risolsero. E poi, in senso stretto, vinsero gli Oscar, tanti.
IO TI SALVERÒ
Io ti salverò (Spellbound) è l’ottavo film del periodo americano di Hitchcock, del 1945. Racconta di un medico (Peck) malato di mente: crede di aver ucciso il direttore di una clinica psichiatrica. Ma sarà Ingrid Bergman, psicanalista, e reperire nel suo inconscio, la verità. E dunque a salvarlo, con tanto di storia d’amore. Il film non viene considerato uno dei vertici del genio inglese, però rappresenta due delle correnti che identificano il novecento: “Freud” e il surrealismo. Da Freud, che con la sua teoria dell’inconscio aveva condizionato scienza e arti, tutto, il regista era stato sedotto. In altri titoli successivi, La donna che visse due volte, Psyco, Marnie, lo espresse con contenuti più maturi. Per il surrealismo si rivolse al suo massimo profeta, Salvador Dalì, che creò la sequenza del sogno che la Bergman interpreta scovando una verità lontana, dei tempi dell’infanzia. Il film deve molto alla colonna sonora, intensa, “freudiana” di Miklós Rózsa, che vinse l’Oscar.
LO STRANIERO
Lo straniero è un film del 1946 firmato da Orson Welles. In una pacifica cittadina americana vive Charles Rankin alias Franz Kindler, un nazista scampato al processo di Norimberga. Si è rifatto un’esistenza e sotto mentite spoglie sposa perfino la figlia di un giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti. Giunge un detective incaricato di indagare sulla vera identità dello straniero, la cui moglie respinge sdegnata gli insistenti sospetti che l’investigatore le confida. Dovrà ricredersi quando il marito, in un ultimo tentativo di farla franca, tenta di ucciderla e dopo un movimentato inseguimento precipita dal campanile della chiesa, ucciso dalla spada di una delle figure del carillon.
Welles non tradiva l’ abitudine, e il piacere, di dare corpo e volto a un cattivo, e che cattivo. Basta ricordarlo nel ruolo di Lime nel “Terzo uomo” dove spacciava penicillina scadente negli ospedali viennesi del dopoguerra. O nella parte dell’infernale Quinlan, il poliziotto messicano che fabbricava prove false per arrestare i criminali, o ucciderli. Anche il mitologico Kane, il citizen di Quarto potere non era una persona ... buona. L’altra “abitudine” del genius era quella di collocare la vicenda in contesti generali, storici, sempre da una sua prospettiva “contro”. Welles non sopportava di essere convenzionale o prevedibile. E il cattivo che rappresentava era sempre pieno di fascino e avevi la tentazione di stare dalla sua parte. Rankin-Kindler non è certo pentito del suo passato, anzi lo sostiene e lo rilancia. Parlando di Marx dice “non era tedesco, era ebreo”. Persino la moglie, donna certo colta, resiste nella sua posizione pure di fronte all’evidenza.
Può essere che Welles intendesse rilevare il potere del fascino del criminale, riferendosi a quello, devastante, del suo antico capo che aveva sedotto una nazione. Quel fascino dal quale non era stata immune la moglie, espressione della borghesia. A posteriori non è improprio dire che Welles sia stato un profeta del (neo)nazismo che si sta segnalando, magari affermando, in Germania e non solo, in certi gruppi. Welles veniva definito genio, appunto. Una ragione ci sarà stata.
L'UOMO DEL SUD
L’uomo del sud (1945) è un film di Jean Renoir, decisamente importante, magari prezioso. Il regista è uno dei maestri massimi del cinema. Alcuni suoi titoli, come La grande illusione e La regola del gioco, stazionano sempre nella parte più alta della classifiche assolute. Renoir faceva parte del cinema cosiddetto del “Fronte popolare”, con autori come Clair, Carné, Prévert, che facevano arte vera. Compromesso dall’ideologia comunista che apparteneva al “Fronte”, venne esiliato nel 1941, e immediatamente accolto da Hollywood, sempre rispettosa, magari deferente, nei confronti della cultura europea.
Come aveva dimostrato adottando i talenti di lingua tedesca, profughi dopo l’avvento di Hitler: artisti come Wilder, Lang, Zinneman, Wyler, Lubitsch, Preminger, figli della Scuola di Weimar e dell’Espressionismo, che avevano elevato culturalmente lo stile spettacolare americano. Renoir, di cui era stato allievo nientemeno che Visconti, portava qualcosa di più, la straordinaria dotazione di famiglia, ereditata dal padre Auguste, profeta dell’Impressionismo. L’uomo del sud è il film più importante che ha girato in America.
Protagonista è Sam Tucker, un contadino che con la sua famiglia coltiva un piccolo podere nel Sud degli Stati Uniti. La vita è durissima, tutti gli elementi sono contro: un’inondazione, la siccità, la carestia, le disgrazie famigliari. E nessuno lo aiuta. Ma la dedizione e i sacrifici, alla fine pagano. Quella poca terra tanto amata lo premia. A rendere “preziosa” l’opera si aggiunse anche uno sceneggiatore d’eccezione, il premio Nobel William Faulkner. Dunque un’altra combinazione di cultura franco-americana, del livello più alto. Ne esce la visione di uno scontro fra l’uomo e l’uomo, soprattutto fra l’uomo e la natura. Lo stile del film è soprattutto francese, ed è una buona notizia. Renoir privilegiò la sua radice. Assunse solo in parte il codice hollywoodiano e mantenne il suo magnifico registro. Risultato: un capolavoro.
SCANDALO INTERNAZIONALE
Scandalo internazionale (1948), di Billy Wilder. Un primo dato sul regista, eloquente: 7 Oscar vinti, fra regia, film, sceneggiatura. L’artista austriaco, naturalizzato statunitense, è il primo modello, esemplare, di uno straniero che racconta il Paese che lo ha accolto meglio degli autoctoni. Alcuni vertici, fra i molti titoli: Viale del tramonto, L’asso nella manica, Sabrina, A qualcuno piace caldo, L’appartamento. Scandalo non viene considerato una delle sue opere maggiori. Ma è sempre un film di Wilder, dunque da vedere e capire.
Scheda del dizionario “Farinotti”: “Phoebe Frost (Jean Arthur), una rigida senatrice americana, imbevuta di moralismo, viene inviata ad ispezionare le truppe di stanza a Berlino nell’immediato dopoguerra e rimane scandalizzata dall’eccessiva fraternizzazione che c’è tra occupanti e occupati. In particolare, non tollera che un misterioso ufficiale yankee (John Lund) protegga una sciantosa (Marlene Dietrich) ex amante di un gerarca nazista. Decide di scoprirne l’identità, ma si confida proprio con il colpevole, un insospettabile capitano, e questi, per distoglierla dalle indagini, finge d’amarla. La senatrice si trasforma e la finzione diventerà realtà.”.
Non c’è dubbio che Wilder avesse in mente Ninotchka, il classico di propaganda, capolavoro, di Ernst Lubitsch. Storia di una funzionaria russa che va a Parigi a controllare il comportamento di tre colleghi che si sono fatti corrompere dal sistema di vita occidentale. Sarà la stessa Ninotchcka a cadere nella rete della bella vita parigina, aiutata da un affascinante francese.
Questa volta è Phoebe ad assumersi il compito simile-opposto. E anche lei si troverà, pure dopo molte resistenze, a cambiare idea. E come sempre, l’amore aiuta. Il “tedesco” Wilder intendeva dire la sua secondo il proprio metodo, con ironia e leggerezza. Accennando a una sorta di riabilitazione del popolo tedesco. Lui che aveva girato I mulini della morte, un documentario sui lager nazisti, destinato al pubblico tedesco per informarlo sulle atrocità commesse da un regime che il popolo stesso aveva accettato. Non si può non ricordare una Marlene Dietrich, quasi cinquantenne, che domina il film e che, ancora una volta, come il Rankin – Kindler di Welles, rappresenta la seduzione irresistibile del “cattivo”.