Come in tante opere di genere, la violenza rappresenta solo la superficie del dolore. Su Netflix.
di Sara Gelao, Vincitrice del Premio Scrivere di Cinema
Tyler Rake è il titolo dell’opera prima di Sam Hargrave, al suo debutto da regista dopo una carriera da stunt-coordinator nell’universo Marvel. Questa volta Netflix confeziona un action-thriller dagli scontri coreografici e cinetici, orchestrati secondo una prospettiva, a tratti, da videogame iperrealistico. Con una sceneggiatura scritta e prodotta dai fratelli Russo, l’emergente director ci consegna un prodotto di grande azione.
Sulla scia dell’iconica saga di John Wick e del distopico I figli degli uomini, Tyler Rake può sembrare un action movie usa-e-getta ma, pensandoci sù, cela dei meriti da riconoscergli, come quel piano-sequenza di undici minuti che fa eco a quello del recentemente elogiato 1917 (guarda la video recensione).
Tutto inizia in medias res. Il protagonista, appunto Tyler Rake, è sin da subito calato nel ruolo di soldato di ventura in piena missione e in uno scenario orientale canonicamente polveroso e fatiscente. Il pretesto narrativo è quello del rapimento del figlio di uno dei più potenti boss della droga del Bangladesh, tenuto nascosto in una delle città più impenetrabili del mondo, Dacca. Ed è qui che entra in scena Chris Hemsworth nei panni di un mercenario del mercato nero che ormai sembra avere ben poco da perdere nella vita. Tyler Rake è così un impavido personaggio da cartone, tormentato, piegato da una fuga irreparabile e imperdonabile, quella da suo figlio in fin di vita pochi anni prima. Tra una sparatoria e un’altra, tra un’esplosione e un inseguimento, la forza motrice di tutto il film e dello stesso protagonista si fa sotterranea ma imperativa: non è altro che una perdita incolmabile che detta un abisso personale. E Tyler Rake lo inganna così quell’abisso, con una paradossale e controversa violenza redentrice.
È vero che Rake preme il grilletto apparentemente a sangue freddo, senza battere ciglio e senza scrupoli. Ma è altrettanto lampante che quel personaggio così pervicacemente e ostentatamente stoico è una capziosa copertura, un cieco diversivo che ovatta il dolore crudo della sua intima realtà. Nello sfoggio di un adrenalinico tour de force violentemente muscolare e vagamente guerresco, quei fiochi flashback di un bambino che rincorre a piedi nudi la riva del mare non dovrebbero essere letti come meri intermedi nostalgici ma piuttosto come cruciali chiavi di accesso ad un concetto cardine del film.