Ritchie sceglie di svincolarsi dalla storicità e catapulta lo spettatore in un mondo governato da incantesimi e profezie. Al cinema.
di Mariangela Carbone, vincitrice del Premio Scrivere di Cinema
Se è vero che il cinema cambia e dev'essere al passo con i tempi, è inevitabile che la storia di Re Artù, una delle materie letterarie più conosciute e riadattate di sempre, venga rivisitata adesso in chiave action, con un'esplosione di adrenalinici effetti speciali che solo l'attuale CGI rende possibile. A cimentarsi nel ciclo arturiano per il grande schermo sono stati in tanti, da Robert Bresson a John Boorman, da Jerry Zucker a Antoine Fuqua, fino al capolavoro Disney, ma questo ultimo prodotto compie un'evoluzione rispetto a tutto quello che il pubblico ha visto finora.
A Ritchie non interessa inquadrare storicamente la vicenda, come avviene nel King Arthur del 2004, e l'elemento magico e soprannaturale irrompe fin dalla prima scena: il regista abbandona la pretesa di fornire storicità a una materia leggendaria e lo spettatore è catapultato in un mondo governato da incantesimi e profezie, in cui Artù è investito di poteri sovrumani grazie alla spada Excalibur.
Il re di Boorman era un giovane inesperto, un essere umano non senza fragilità e debolezze, che si appella al continuo aiuto del saggio Merlino (che qui è solo evocato), ma che dimostrerà forza e valore quando salirà al trono e combatterà in battaglia. Il codice cavalleresco, che regola la vita di Artù nei vari adattamenti precedenti, in Ritchie è del tutto messo da parte: alle cigolanti armature di ferro del lontano Excalibur si sostituiscono ora camicie sbottonate con muscoli in vista; gli alleati di Artù sono membri di una gang di lottatori e insoliti scudieri moderni che si atteggiano più a bulli del ghetto che non a veri cavalieri. Lo stesso Artù è dipinto quasi come anti-eroico rispetto al personaggio tradizionale: esuberante, irriverente, irrispettoso, menefreghista, un vero e proprio teppista cresciuto in un bordello, con tanto di ciuffo pettinato con il gel e fisico da wrestler.
L'elemento innovatore di questo adattamento è proprio l'indifferenza di fronte al potere da parte di Artù. Il giovane infatti non riconosce valori in nome di cui combattere e impugna la spada mosso soltanto da sete di vendetta personale, apparendo ben diverso dal re de Il primo cavaliere, disposto a morire per difendere l'onore e la dignità del proprio popolo.
L'Artù ritchiano deve combattere con i propri demoni personali ancora prima che con i nemici armati e per lui hanno più importanza le questioni personali e la ricerca di espedienti per arricchirsi rispetto alle grandi vicende nazionali e della Corona.
A differenza di buona parte dei suoi predecessori, soprattutto i film di Bresson, Thorpe e Zucker, che danno largo spazio al triangolo amoroso Artù-Ginevra-Lancillotto, King Arthur: Il potere della spada tralascia del tutto l'aspetto romantico della storia, non facendo neanche comparire Lancillotto e relegando il personaggio di Ginevra a ruolo di maga. Questa mancanza di sceneggiatura sembra essere intenzionale e strategica, in vista dei successivi sequel già annunciati dalla Warner Bros.