Kirk Douglas (Issur Danielovitch Demsky) è un attore statunitense, regista, produttore, produttore esecutivo, è nato il 9 dicembre 1916 ad Amsterdam, New York (USA) ed è morto il 5 febbraio 2020 all'età di 103 anni a Beverly Hills, California (USA).
Douglas è un'altra icona della virilità americana. Un carisma più ambiguo di quello di altri sex symbol hollywoodiani, ma di uguale presa sull'immaginario collettivo. Ha sempre detto che "la virtù non è fotogenica", e di essersi fatto una carriera "con l'interpretare figli di puttana". Personaggi duri e senza scrupoli, uomini che mordono la vita falciando i sentimenti e le esistenze di chi li circonda: come il pugile del Grande campione (Mark Robson, 1949), che lo impone all'attenzione del grande pubblico, o il giornalista dell'Asso nella manica (Billy Wilder, 1951), o ancora il produttore di Il bruto e la bella (Vincente Minnelli, 1952). Sempre e comunque capace d'infondere nelle sue interpretazioni la stessa aggressività con cui imponeva le proprie scelte e opinioni a registi e collaboratori. Tra i ruoli memorabili più "tormentati": il folle, geniale Van Gogh(Brama di vivere, Minnelli, 1956), l'ufficiale francese onesto ma intrappolato nelle logiche di sterminio degli Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick (1957), il cowboy moderno in fuga impossibile di Solo sotto le stelle (David Miller, 1962). Di questi ultimi due film fu anche produttore, così come dei grandiosi affreschi storici dei Vichinghi (Richard Fleischer, 1958) e di Spartacus (Kubrick, 1960). Fino agli anni ottanta non molla la presa, comparendo incisivamente in pellicole proprie e altrui: da I giustizieri del West (sua regia del 1975) a Fury (Brian De Palma, 1978) a L'uomo del fiume nevoso (George Miller, 1982).
Figlio di un venditore di stracci ebreo, secondo la sua autobiografia, fa buoni studi (Accademia di arte drammatica) e lo troviamo debuttante a Broadway nel 1941. Notato dagli agenti della Paramount si trasferisce a Hollywood dove vive la canonica trafila prima di ottenere una parte importante in Lo strano amore di Martha Ivers. D. fa parte della seconda generazione del cinema parlato", come Lancaster e Peck e Holden, dopo quella dei Cooper e dei Bogart e la sua attitudine è quella di una maggior ricerca e consapevolezza, e anche dolore. L'eroe non è più buono, per lo meno non è più soltanto buono. Nei film è spesso l'ambizioso che si audistruggerà (Il campione, Le vie della città, Le catene della colpa). Biondo, lineamenti classici, fisico da atleta vero, esuberante, estroverso, D. ha una presenza straordinaria e un'espressione quasi travolgente. La grande occasione gliela dà Billy Wilder nel '51 affidandogli il ruolo di Tatum, giornalista senza scrupoli ne L'asso della manica. E' ormai una delle figure più rilevanti di Hollywood. Un altro grande cinico è il produttore impersonato da D. ne Il bruto e la bella di Minnelli. E' la volta del gran maestro Kubrick a dargli una grande chance nella parte dell'avvocato militare nel declamato Orizzonti di gloria. E' anche un ottimo westerner: eccolo Doc Hollyday in Sfida all' O.K. Corral. Di Spartacus, oltre che protagonista è anche produttore, esercizio improbo, dovendosi confrontare con lo stesso Kubrick, personaggio certo non facile. Successivamente D. alterna scelte buone e mano buone: western discreti, iniziative impegnative (Il compromesso di Kazan). E non si risparmia in attività sociali e politiche, impegnandsi come "ambasciatore" americano in certi paesi del terzo mondo. Negli anni novanta è diventato uno scrittore, discreto. Racconta sempre un piccolo aneddoto: una volta a Beverly Hills è stato fermato da una ragazza che ha esclamato: ma lei è il papà di Michael Douglas. Michael è un grande del cinema contemporaneo, ha già vinto un Oscar (sempre negato a Kirk), porta con onore il testimone di suo padre. Ma... non è suo padre.
A 92 anni douglas rifiuta di arrendersi. A Los Angeles in marzo era in scena con il monologo before I Forget. E non è detto che sia stato il suo ultimo spettacolo.
«Quando, come me, hai novantadue anni. Quando parli male e ti muovi a fatica, cosa puoi fare? Un One Man Show, naturale. Cos'altro?». Kirk Douglas sogghigna: s'è come rimpicciolito, la pelle leggera, sottile, copre appena le ossa della faccia volitiva, i capelli bianchi sono bene aggiustati intorno alla testa però sembrano morti. Cosa potrebbe fare, anziché lo spettacolo solitario
intitolato Before I Forget? Smettere, naturalmente. Ma «smettere» non è un verbo per lui: negli ultimi anni ha Fatto di tutto, telefilm, tournée universitarie con lettura di poesia e autobiografia alternate, doppiaggio di animali buffi dei cartoni animati, partecipazioni speciali, e nulla è riuscito a scalfire uno dei Titani di Hollywood, la star vigorosa e forte, il divo tuttofare (dramma, western, tragedia storica, commedia elegante) che per oltre mezzo secolo, con quasi cento film, ha dominato la corporazione americana degli attori.
Pensare che si chiamerebbe Issur Danielovitch oppure Isidoro Demsky. Origini russe, ma famiglia benestante. Infanzia e adolescenza senza strazi della povertà ad Amsterdam vicino a New York e poi a New York. Laurea in Lettere, diploma dell'American Academy of Dramatic Arts. Dopo un po' di teatro e la Seconda guerra mondiale, arriva a Hollywood per una parte di procuratore distrettuale in Lo strano amore di Alartha Ivers di Lewis Mílestone. Non andrà più via, costruendo con i figli una dinastia cinematografica potente: è uno dei primi divi americani a fondare una propria casa di produzione, battezzata Bryna dal nome della madre. Non erano tempi di libertà di parola o di azione, gli anni Cinquanta: ma con cautela, senza troppe chiacchiere, Kirk Douglas conservò nei fatti la propria indipendenza di democratico aperto, di intellettuale di sinistra. Non era fazioso. Aveva un singolare modo di fare, metà autoritario e metà galante. Per la prima volta lo vidi nel deserto. Lavorava in Spartacus di Stanley Kubrick, impersonava il gladiatore di Tracia che guidò la storica rivolta degli schiavi contro l'Impero romano: su quel set si litigava ogni minuto. Kubrick voleva fare un film colto, Douglas un film popolare; il primo rivendicava per gli spettatori il diritto a una certa profondità storica, il secondo voleva al loro servizio un cinema facile, ardito e commovente. Contesa ideologica. Erano ostinati tutti e due: se Kubrick testardo taceva, Douglas batteva a terra con stizza i piedi e le forti gambotte nude, strepitava con toni altissimi, se ne andava sdegnato. Pareva che il film non sarebbe stato completato mai. Invece venne disordinato, però molto interessante. I due avevano già lavorato insieme nel bellissimo Orizzonti di gloria su errori e infamie degli alti comandi militari in Francia durante la Prima guerra mondiale: sapevano di potersi fidare
uno dell'altro.
La tendenza a prevaricare di Kirk Douglas, la sua innata prepotenza non ebbero modo di manifestarsi con l'implacabile Billy Wilder durante la lavorazione de L'asso nella manica, storia drammatica di un giornalista che per trarne vantaggi professionali prolunga la sofferenza di un uomo rimasto sepolto in una cava: rimarranno indimenticati per sempre l'arroganza, il cinismo, l'energia, quel cappello spinto all'indietro, quel ghigno e quel pathos ipocrita che Crearono lo stereotipo del giornalismo americano senza moralità, della creazione mediatici d'un grande carnevale della morte.
Non era un uomo ricco (neppure adesso lo è), ma molto solido. Non era un padre affettuoso, anzi sembrava animato da sentimenti forse di invidia o di rancore verso il figlio Míchael con i suoi modesti successi, però è un padre presente, pronto a intervenire in caso di necessità o di errori. Non è un pigro: per tutta la vita sì è tenuto sempre in allenamento con il personal trainer che era anche uno dei suoi migliori amici, così ha potuto fare parti seminude o atletiche sino a molto tardi negli anni, sino a quando la fisioterapia o la pinnastira non hanno cominciato a costituire un pericolo per il cuore. Non è un ballista: pure quando esagera un po', in sostanza ai giornalisti non racconta bugie, soprattutto ai televisivi. Sostiene che la tv è come uno specchio, che quando menti si vede subito. Non è un esteta affascinato dalla seduzione del bello, ma se gli mostri un quadro è capace di riconoscere un'opera importante oppure una crosta. Non legge molto, però è capace, tra televisione e chiacchiere, di tenersi informato: leggere gli procura facilmente una dolomia agli occhi logorati da troppi riflettori.
Kirk Douglas cambiò molto quando si innamorò di Anna Maria Pierangeli. Andava a trovarla a Roma e lo si vedeva scendere gioioso e glorioso la scalinata di Trinità dei Monti per incontrarla. Si sapeva già che era un gran donnaiolo, che si era sposato due volte; che aveva avuto come innamorate Joan Crawford, Ann Sothem, Gene Tierney, Evelyn Keyes: ma Pierangeli sembrava davvero la persona meno adatta a lui. Errore: la loro fu una vera passione, quando erano insieme la Pierangeli diventava una finta bambina lasciva e lui diventava un padre incestuoso. Chissà come sarebbe andata a finire, se Kirk Douglas non avesse dovuto lavorare. Con Mario Camerini fece Ulisse (sempre con le corte gambe nude e forti) sul mare d'Italia e dì Grecia, con Silvana Mangano bellissima nella doppia parte di Penelope e di Circe e l'eroe atletico, scattante, sprezzante. Con Vincente Minnelli fece Brama dì vivere nel personaggio di un Vari Gogh già molto vicino alla pazzia: un film imperfetto e memorabile, come Kirk Douglas.
Da Lo Specchio, Aprile 2009
Se ci fu un tempo, non molto, lontano, nel quale cinema era facile sinonimo di rapidità, di quel cinema fu un ancora più facile simbolo un Douglas Fairbanks, il sorridente Doug. Per lui non esistevano indugi o lentezze. Se la via più breve era quella della finestra, disdegnava la porta; è molto e sempre si compiaceva di certi suoi volteggi da palestra, mani tese e gambe a squadra. Fra una temeraria scalata e un tuffo da dieci metri, fra un'inarrestabile cavalcata e una sciabolata infallibile, si era così venuta disegnando una delle figure più popolari dello schermo. Il largo sorriso indicava invincibile ottimismo e forza gagliarda, posti al servizio di deboli e oppressi in avventure che avevano parecchi requisiti del romanzo di cappa e spada e del quasi educativo racconto per certa gïoventù. Fantasioso, esuberante ragazzone al quale tutto era permesso, anche l'assurdo; e al quale sempre riusciva qualsiasi cosa, poco prima dell'abbraccio finale. Allora, sull'ampio irsuto petto, reclinava il volto la diva di turno, nomi lontani di costellazioni ormai defunte, astri fulgenti di quando Il segno di Zorro si annunciava come una «novità» irresistibile. La vitalità di Douglas, alacre, vertiginosa, si faceva perdonare di essere un po' grossolana, e quasi sempre asservita alla disinvoltura di ingenue e abilissime acrobazie. La vita era soltanto sport, al quale quotidianamente allenarsi; e la sana, travolgente comicità di Douglas era nel continuo spettacolo che, in un mondo di pavidi o di sprovveduti, davano la forza e l'agilità del suo corpo. Non per nulla nel suo film, più tipico, già ricordato, Il segno di Zorro, sempre appariva con sul volto una maschera. Una facile suggestione, un po' romantica, un po' generosa, un po' sportiva. Si aggiunga la sua ribellione alle «ditte» organizzate quando fondò, con Chaplin e con Griffith, la United Artists (il che apparve come un altro gesto di coraggio e di fierezza, mentre era sopratutto un ottimo affare); si aggiunga ancora il suo matrimonio con la Pickford, la «fidanzata dell'America»; e meglio si comprenderà il suo clamoroso successo.
In Mi sposo e torno il non più giovane Doug si è ora trovato dinanzi un avversario da non poter infilzare o mettere groggy in quattro e quattr'otto. Si è trovato dinanzi, con tutte le sue insidie, il microfono, che gli ha addirittura imposto di recitare una commediola dai toni qua e là operettistici. Sic transit Douglas. Deve sorridere molto, moltissimo; e sospirare parecchio, per la gelida Bebe Daniels; e starsene dietro a un grande scrittoio di grandissimo uomo d'affari, munito di venti telefoni. Insomma, pur di sfogarsi in qualche modo, questo addomesticato agente di borsa, ogni sera, nella sua camera, fa un magnifico tuffo dalla testiera del letto, che è il modo più spiccio da lui scelto, per infilarsi tra le lenzuola. Faville del maglio.
(1932)
Da Film visti. Dai Lumière al Cinerama, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1957