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Scompartimento n.6, un bellissimo e malinconico omaggio al treno, mito fondativo della modernità

Costruito sulle limitazioni tecnologiche di un ventesimo secolo in rapido esaurimento, il film del finlandese Juho Kuosmanen ritorna sul fortunatissimo binomio cinema/treno, entrambi vessilli del progresso e dell’innovazione tecnologica, accomunati da un comune senso di spaesamento. Dal 2 dicembre al cinema.
di Tommaso Tocci

Scompartimento n.6

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Seidi Haarla 1984, Kirkkonummi (Finlandia). Interpreta Laura nel film di Juho Kuosmanen Scompartimento n.6.
martedì 16 novembre 2021 - Focus

Il nuovo film del regista finlandese Juho Kuosmanen è, tra le altre cose, costruito sulle limitazioni tecnologiche di un ventesimo secolo in rapido esaurimento. Centrali nella storia di Laura, ragazza in viaggio per la Russia, sono le frustrazioni del telefono a gettoni, del walkman, delle telecamere d’epoca, che la rendono a volte più sola e a volte più presente a se stessa. Nessun simbolo è però più grande del treno, mito fondativo della modernità a cui Scompartimento n.6 fa un bellissimo omaggio.

Quello tra treno e cinema è del resto un rapporto lungo e proficuo che si è spesso intrecciato, anche se oggi sa di desueto (e il film di Kuosmanen, nel regno del teneramente e malinconicamente desueto, si sente a casa). Entrambi vessilli del progresso e dell’innovazione tecnologica, sono nati più o meno negli stessi anni e sono accomunati da un senso di spaesamento; quella confusione sensoriale che non ha accompagnato nessuno degli altri salti in avanti tecnologici dell’ottocento. Tutti sanno come Dickens, scrittore popolare che quella modernità ha provveduto a raccontarla, abbia un legame indiretto con il cinema. Meno noto è il suo rapporto con il treno, di cui ha scritto spesso (compreso un incidente in tarda età che lo scosse molto) e che potrebbe adattarsi bene anche a descrivere l’esperienza nel buio della sala: “sulle rotaie non sono mai certo del tempo o dello spazio. Non riesco a leggere, non riesco a pensare né a dormire - soltanto sognare.” Una “lussuosa confusione” la definisce poi il romanziere, che lo porta a sapere di provenire da qualche parte e di dirigersi ancora altrove, ma nulla più: “per quanto ne so, potrei venire dalla Luna.”

Treno che va e cinema che viene, uniti in matrimonio nella coscienza comune dalle leggende sugli spettatori nel panico di fronte alla proiezione di L'arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, dei fratelli Lumière. Non importa che non sia vero, perché è troppo suggestivo il rapporto tra le due invenzioni capaci di alterare la percezione degli occhi. Dal 1986, il sodalizio prosegue con The Great Train Robbery nel 1904, che introduce e cementa molte delle situazioni narrative che per un secolo avremmo visto utilizzate laddove si mescolavano treni e genere western. Come, per citarne giusto uno, avviene poi in C’era una volta il West di Leone: non solo per l’utilizzo davvero granulare del “mostro di ferro” e di tutto ciò che gli sta attorno (dai rumori della stazione nel celebre incipit ai silenzi “letali” del vagone in corsa più tardi), ma soprattutto per la valenza elegiaca della ferrovia come forza inarrestabile che cancella e riscrive la storia, separando le terre senza legge del passato da quella che in futuro diventerà una bella città, Sweetwater.

Quando il treno, superato in velocità da tecnologie ancora più mirabolanti, ha smesso poi di rappresentare il progresso, è diventato al cinema una costrizione romantica, un modo di ingabbiare le storie in una prossimità forzata. Piattaforma ideale per intrighi e fughe, nonché di suspense: si veda l’uso che ne fa il maestro Hitchcock, prima in La signora scompare con il suo viaggio a tappe, poi con Intrigo internazionale, in cui Cary Grant, braccato dalla polizia, è impegnato in una peripezia dopo l’altra ma fa in tempo a incontrare la bella Eva sul vagone ristorante del 20th century limited in direzione Chicago.

Ancora più classica è l’ambientazione tipica del giallo di Agatha Christie, del cui Assassinio sull'Orient Express sono stati tratti due adattamenti per il grande schermo nel 1974 e nel 2017. Una traccia, quella di un delitto e di un colpevole da identificare sul treno in corsa, che arriva fino ai giorni nostri, con il fantascientifico Source code di Duncan Jones e l’ennesima variazione sul “one-man-genre” Liam Neeson impegnato in L'uomo sul treno. Sempre nel thriller, le mani sicure del Tony Scott dell’ultimo periodo di carriera hanno regalato addirittura un’accoppiata a tinte ferroviarie, con due titoli basati sull’idea del treno fuori controllo: Unstoppable e Pelham 1-2-3 (ma qui si sconfina nel territorio della metropolitana).

E se il treno si presta a sequenze memorabili, come nel “testacoda” tra l’inizio di Indiana Jones e l’ultima crociata e la conclusione del primo Mission Impossible, il meglio lo dà sempre quando viene adottato come set e metafora completa, allo stesso modo di Scompartimento n.6. Kuosmanen si mette in scia di precedenti illustri, come la magia dell’animazione di Zemeckis in Polar Express, e più ancora in modo degno di due film diversissimi ma perfetti nel centrare l’idea del treno come condizione esistenziale: Il treno per il Darjeeling di Wes Anderson e Snowpiercer di Bong joon-ho. Meditativo e familiare uno, furibondo e politico l’altro. In entrambi il treno si fa società, orizzonte dell’esistenza, costante temporale. E il cinema contento sale a bordo.
 


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