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La politica degli autori: Alejandro González Iñárritu

Un talento fuori discussione.
di Mauro Gervasini

In foto il regista Alejandro González Iñárritu.
Alejandro G. Iñárritu (Alejandro Gonzalez Inarritu) (61 anni) 15 agosto 1963, Città del Messico (Messico) - Leone. Regista del film Birdman.

martedì 3 febbraio 2015 - Approfondimenti

Il talento è fuori discussione. Anche la magniloquenza cinematografica, la modernità espressiva, il gusto per le sfide tecniche (come il piano sequenza di 119 minuti di Birdman; in verità una serie di piani comunque difficilissimi da realizzare, come ben sa il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki). Magari persino un po' di furbizia. Alejandro González Iñárritu, classe 1963, primo cineasta messicano a vincere al Festival di Cannes (miglior regia per Babel, 2006) esordisce con quello che (per chi scrive) è tuttora il suo film migliore, Amores perros (2000). Dove cinefilia e cinofilia si fondono ammantandosi di pulp, in Messico, lontano (ancora) dall'omologazione gringa. Già sceneggiato dall'antico sodale Guillermo Arriaga, romanziere, Amores perros racconta, intrecciandole, tre storie, denominatore comune delle quali la frequentazione tra uomini e cani. Iñárritu porta alle estreme conseguenze la struttura a incastro così di moda nella dominante (specie negli anni 90) estetica postmoderna, tuttavia il contributo di Arriaga, che definisce personaggi di spessore o quasi mitici (in particolare il sicario-clochard El Chivo), rende "caldo" un percorso narrativo altrimenti destinato al formalismo e alla ridondanza.
Purtroppo l'orizzonte degli eventi coincide con la chiamata a Hollywood. Iñárritu e Arriaga realizzano nel 2003 21 grammi (sarebbe il peso dell'anima), progetto filosoficamente ambizioso con cast all star. Ancora tre piani narrativi intrecciati ma questa volta la sceneggiatura di Arriaga, sempre a caccia di massimi sistemi (un misto tra riflessioni esistenzialiste su morte, redenzione, silenzio di Dio, Provvidenza) aderisce a una regia bulimica e a un disordinato incedere per flash forward e forsennati movimenti di macchina. Lo stile di Iñárritu si radicalizza ma anche la scrittura del principale collaboratore cerca di stupire sempre di più, scegliendo incastri tra storie "esotiche" non più così essenziali. È il caso di Babel (2006), kolossal programmatico in tre atti (al solito mescolati) per tre continenti, dedicato a "grandi temi" quali solitudine & confini.
Il cinema del Nostro pare destinato alla maniera. Ma complice (forse anche) il divorzio da Arriaga, Iñárritu trova in Birdman un soggetto, perfetto e adatto alle sue corde. Non tanto la crisi di un uomo in cerca d'autore mentre il suo personaggio (il supereroe Birdman) mantiene una debordante personalità; e neppure (solo) l'ennesima riflessione sui rapporti tra arte e vita. Ma una sorta di non integrata (quindi apocalittica) presa di coscienza dell'impossibilità di raccontare il nostro mondo, che non chiede più una narrazione complessa ma solo pulsioni, letture emotive, superficiali aforismi al posto del "romanzo". A questo cinema uno come Arriaga - in effetti - non serve più. Lungi dal poter fare a meno della scrittura (infatti Birdman conta ben quattro sceneggiatori) Iñárritu mette in scena il fallimento di ogni rappresentazione, a partire da quella letteraria (Carver) o teatrale, e facendo questo, finalmente, rende funzionale a se stessa, e non più a un testo, la regia. Al netto di un finale confuso e troppo prolungato, Birdman è straordinario nel rendere epico il proprio linguaggio facendolo aderire all'energia creativa dei suoi attori, tutti eccezionali a partire da Michael Keaton e Edward Norton fino alla mai abbastanza elogiata Andrea Riseborough. Che vinca l'Oscar o meno, resta uno dei più significativi titoli dell'anno.

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