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Serkis, una performance che convince e commuove

Nel film di Wyatt tecnologia e recitazione viaggiano in perfetto equilibrio.
di Marco Consoli

In foto lo scimpanzé Cesare, protagonista del film L'alba del pianeta delle scimmie.

venerdì 23 settembre 2011 - Approfondimenti

In un’intervista a proposito del suo lavoro ne L’alba del pianeta delle scimmie, Andy Serkis aveva detto: “Tutti pensavano che avendo interpretato il gorilla King Kong, fare una scimmia col performance capture fosse un gioco da ragazzi per me: ma sono due cose molto diverse, è come passare dal Re Lear all’Amleto!”. Sfumature che sfuggiranno ai più, ma non certo a Serkis, che abbracciando totalmente la tecnologia fin dai tempi di Gollum, e poi con Kong e prossimamente Tintin (oltre che con il videogame "Enslaved"), si è trasformato nell’esemplificazione dell’attore del nuovo millennio: solide basi teatrali, ha messo quel tipo di recitazione e immaginazione al servizio del sistema in grado di catturarne movimenti ed espressioni, per regalarle al personaggio digitale, in una trasformazione che vede letteralmente sparire l’attore sotto le sembianze virtuali, ancor più di quanto non accade nei casi in cui è un pesantissimo cerone a definire il volto di un carattere.

Il fascino de L’alba del pianeta delle scimmie, oltre che nelle riflessioni sull’uso distorto della scienza e dell’utilizzo di cavie a beneficio della “superiore” razza umana, risiede proprio nell’interpretazione degli attori dietro le scimmie: Serkis, ancor più dei colleghi che hanno regalato facce e corpi a scimpanzé, gorilla, oranghi, regala una prova fuori dall’ordinario, che abbraccia allo stesso tempo tutta l’ampia gamma delle emozioni umane e l’istintualità del regno animale: il suo Ceasar, scimpanzé reso intelligente dalla ricerca scientifica, è una specie di nuovo Frankenstein, nel cui sguardo affiora ora un barlume di compassione, ora un moto di disillusione e poi ancora giocosità, amicizia, frustrazione e rabbia, mescolate ai gesti, alle ritrosie e ai ghigni tipici dei primati. Da questo punto di vista la tecnologia avviata da film come The Polar Express e Beowulf, e rivoluzionata da Avatar, ha raggiunto ora nel film di Rupert Wyatt un livello di eccellenza tale da rendere possibile per gli attori interpretare, in maniera convincente, qualsiasi personaggio.

Visto che il nostro inconscio continua a lavorare anche mentre guardiamo un film, e nonostante il fatto che ormai quasi tutti conoscono il processo dietro l’effetto visivo, L’alba del pianeta delle scimmie rappresenta un ulteriore balzo in avanti nella credibilità della performance capture: se è facile per le nostre “difese irrazionali” accettare come plausibili e “veri” i Na’vi di Avatar, visto che sono esseri di pura fantasia, molto meno lo è per le scimmie, dato che tutti noi abbiamo avuto almeno un’esperienza di contatto indiretto con gli animali, e nel nostro cervello esiste già un’idea di come si muovono e comportano da confrontare con le immagini sullo schermo. L’unico difetto rilevato a livello di resa degli effetti digitali nel film è forse in alcuni campi lunghi in cui le scimmie si muovono in maniera che irrazionalmente pare un po’ meccanica: d’altronde la ricalibrazione delle proporzioni umane e del modo innaturale degli attori di correre accovacciati, non avrebbe potuto offrire risultato migliore.

La tecnologia (della Weta Digital) e la recitazione (di Andy Serkis) viaggiano dunque in perfetto equilibrio sul filo del rasoio, riuscendo a compiere la magia di regalare una performance attoriale convincente e commovente, come quando Ceasar disegna e poi pulisce sul muro della cella l’immagine del lucernario, che per lui vuole dire “casa”. Al punto di scagliare con veemenza, come l’osso che altri scimpanzé cinematografici avevano lanciato in aria, la domanda se sia arrivato il tempo in cui anche un attore come Serkis possa essere candidato o meno all’Oscar.

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