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Gigi Proietti, l’attore magico

Drammaturgo, attore, regista, direttore artistico, cantante, doppiatore, poeta, conduttore, Gigi Proietti è stato tante cose e per ultimo... Babbo Natale, per Edoardo Falcone, nella commedia Io sono babbo Natale al cinema dal 3 novembre.
di Marzia Gandolfi

Gigi Proietti (Luigi Proietti) 2 novembre 1940, Roma (Italia) - 2 Novembre 2020, Roma (Italia).
martedì 2 novembre 2021 - Focus

C’è un sorriso, efficace e irresistibile, immobile nel tempo e destinato a restare per sempre fissato nei nostri occhi. È quello che Bruno Fioretti (Febbre da cavallo) sfoggia sulle passerelle o all’ippodromo di Tor di Valle per incantare ‘cavalli e segugi’. È il sorriso magico di un “Mandrake” del palcoscenico come dello schermo che si impossessava imperiosamente dello sguardo del pubblico, illuminandolo.

Drammaturgo, attore, regista, direttore artistico, cantante, doppiatore, poeta dialettale, conduttore, Gigi Proietti è stato tante cose e per ultimo Babbo Natale. E di magia parla in fondo il film di Edoardo Falcone, immaginando un Santa Claus dislocato a Roma e in un clima più adatto ai suoi troppi anni. In primo grado Io sono Babbo Natale è una favola per bambini ma a guardarlo bene è un racconto che incarna e narra la trasmissione del desiderio. La trasmissione di un’eredità (artistica) che si innerva sugli attori e li mette a confronto. Da una parte il cinismo tenace di Marco Giallini, dall’altra le maniere agitatorie di Gigi Proietti, che infila il leggendario costume rosso eliminando ogni traccia di artificio. Perché l’attore, nato sulle sponde del Tevere e cresciuto sul palcoscenico aquilano con Carmelo Bene, a cui fa il verso tra velluti rossi e fiammeggianti gonfiori di pellicce nella sua Cena delle beffe, governa come nessuno i silenzi e l’arte dell’interpunzione, il ritmo che un performer deve trovare per abitare, senza mai resistergli, il tempo presente della performance.

Il film restituisce la misura del legame tra i due artisti che la notte di Natale ci consegnano un ‘gioco da bambini’. Un gioco di consegne tra attori romani che hanno fatto della romanità e del ‘sentimento’ della città il loro cavallo di battaglia. Un patrimonio di aneddoti, un esercizio narrativo, una prova di affabulazione tra parola, gestualità, espressione. Giallini, nei panni di un padre che oscilla tra l’assenza dei legami e il cinismo, si riscopre ‘figlio’ davanti a un ‘babbo’ che ama la sua singolarità oltraggiata e nutre l’entusiasmo frustrato del bambino che fu. Giallini, sempre in sottrazione, cede il passo alla verve dell’intrattenitore-seduttore che Proietti è stato dai suoi esordi fino al Mangiafuoco immaginifico di Matteo Garrone, che firma una nuova versione cinematografica e rurale del libro di Collodi. Quel “Pinocchio” che narra anche lui di una paternità miracolosa. Sublimando il ruolo che interpreta, Gigi Proietti si fa ‘padre’ per il personaggio di Giallini, per l’attore Giallini e per ogni spettatore che abbia consegnato almeno una volta ‘gli occhi’ a quel sortilegio della scena (“A me gli occhi”, 1973).

Silhouette statuaria o dinoccolata, immobile e disarticolata, la sua energia risaliva il corpo fino al volto, fino a spalancare gli occhi grandi e il sorriso beffardo. Giocoliere della parola, i suoi testi più belli erano di Roberto Lerici, ci ha lasciati un anno fa, morendo il giorno in cui è nato in una Roma vicina nel tempo ma in fondo perduta. Una città povera ma speranzosa all’indomani della guerra. Tutto era da (ri)costruire e Proietti lo costruisce sul palcoscenico e poi sullo schermo, grande e piccolo, bruciando di mille fuochi intorno a una tecnica portentosa che non aveva bisogno di trucchi e doppi fondi.

Gigi Proietti era tutto lì, una carica espressiva indomabile, un corpo magico dentro a una camicia bianca e un paio di pantaloni neri, ‘pronto’ alla composizione e a eccitare il pubblico, a frenarlo, a sorprenderlo, a precipitarlo con una reazione imprevista, a trattenerlo su un ragionamento e a sospingerlo di nuovo con un improvviso mutamento di tono o di espressione. Sera dopo sera guadagna il palco e la ‘magia’ si ripete perché l’attore ha una capacità di attrazione creata dai gesti e un vero dono per l’esposizione minuta, incanta con le parole, ‘rompe’ la narrazione classica e si fa avanguardia con Ugo Gregoretti sul piccolo schermo (Il Circolo Pickwick).


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