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Agente Speciale 117 al Servizio della Repubblica - Missione Rio, un grande gioco colorato

Un secondo capitolo in cui ci si diverte con cliché e parodie. È la festa del cinema. Al cinema.
di Giovanni Bogani

Jean Dujardin (51 anni) 19 giugno 1972, Parigi (Francia) - Gemelli. Interpreta Agente Speciale 117 nel film di Michel Hazanavicius Agente Speciale 117 al servizio della Repubblica - Missione Rio.
sabato 31 luglio 2021 - Focus

È un esercizio di stile, è un gioco colorato, il secondo film che Michel Hazanavicius ha tratto dalle avventure dell’agente segreto OSS 117, lo 007 francese, nato peraltro prima dello 007 “originale”, quello uscito dalla penna di Ian Fleming. 

È un esercizio di stile, è un lavorare, goloso, di Hazanavicius sui cliché del racconto di spie. Tutto è finto, inverosimile, tutto ha i colori pastello, infantili e imperiosi, del Technicolor. Si sente la voglia di tornare agli anni ’60, a un cinema ingenuo, ottimista, euforico. Questa volta, rispetto all’ “Avventura al Cairo” del primo episodio, con un po’ più di plot, con una storia un po’ più movimentata. Ma è chiaro, fin da subito, che non è la storia che conta.
 

Si inizia a Gstaad, centro turistico alpino, e già quello fa tanto agente segreto, fa tanto anni ’60:  i titoli di testa ci mostrano Jean Dujardin ballare, disinvolto e ipersicuro di sé, sorridente e presuntuoso, al centro dell’attenzione di un gruppo di girls. Segue una sparatoria con dei cinesi da barzelletta. Da qui in poi, tutto è parodia, tutto è citazione, tutto è allusione a quello che lo spettatore ha già visto in altri film: e il gioco è proprio quello. Un cliché è un cliché, ma cento cliché sono la festa del cinema. 

Se Dujardin e la sua amante di turno finiscono sul letto, l’inquadratura si sposta su due uccellini che si toccano il becco amorevolmente. Se si arriva all’aeroporto di Rio, si arriva allegri, dopo aver inserito immagini di Rio sgranate, il Corcovado visto dall’alto come in un telefilm anni ’70. Se OS 117, cioè Dujardin, attraversa la hall dell’aeroporto, ci saranno almeno tre tizi con gli occhiali da sole che chiudono il giornale e lo seguono con discrezione; se c’è un tassista che lo porta all’hotel, a un certo punto farà una deviazione imprevista verso un terrain vague, un posto desolato dove entreranno in gioco le pistole. 

E come in tutti i film di agenti segreti, c’è l’agente dei servizi “cugini” – in questo caso della Cia – che si fa vivo, con tono di un allegro compagno che la sa lunga su come vanno le cose in quel paese. E che ride forte, con aria cameratesca: sono due agenti segreti, sono due macho, sono gli anni ’60 della Guerra fredda, giacche, cravatte e muscoli contro i Cattivi. 

E naturalmente le citazioni sono tutte per i primi film di James Bond: l’accappatoio che copre Dujardin a metà coscia, come una minigonna, o la donna che lo accompagna in hotel e poi sparisce misteriosamente. Lo spettatore riconosce i modelli, si appassiona al gioco, dice “questa la so!” e va avanti, euforico.


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