sabato 31 luglio 2021 - Focus
È un esercizio di stile, è un gioco colorato, il secondo film che Michel Hazanavicius ha tratto dalle avventure dell’agente segreto OSS 117, lo 007 francese, nato peraltro prima dello 007 “originale”, quello uscito dalla penna di Ian Fleming.
È un esercizio di stile, è un lavorare, goloso, di Hazanavicius sui cliché del racconto di spie. Tutto è finto, inverosimile, tutto ha i colori pastello, infantili e imperiosi, del Technicolor. Si sente la voglia di tornare agli anni ’60, a un cinema ingenuo, ottimista, euforico. Questa volta, rispetto all’ “Avventura al Cairo” del primo episodio, con un po’ più di plot, con una storia un po’ più movimentata. Ma è chiaro, fin da subito, che non è la storia che conta.
Si inizia a Gstaad, centro turistico alpino, e già quello fa tanto agente segreto, fa tanto anni ’60: i titoli di testa ci mostrano Jean Dujardin ballare, disinvolto e ipersicuro di sé, sorridente e presuntuoso, al centro dell’attenzione di un gruppo di girls. Segue una sparatoria con dei cinesi da barzelletta. Da qui in poi, tutto è parodia, tutto è citazione, tutto è allusione a quello che lo spettatore ha già visto in altri film: e il gioco è proprio quello. Un cliché è un cliché, ma cento cliché sono la festa del cinema.
Se Dujardin e la sua amante di turno finiscono sul letto, l’inquadratura si sposta su due uccellini che si toccano il becco amorevolmente. Se si arriva all’aeroporto di Rio, si arriva allegri, dopo aver inserito immagini di Rio sgranate, il Corcovado visto dall’alto come in un telefilm anni ’70. Se OS 117, cioè Dujardin, attraversa la hall dell’aeroporto, ci saranno almeno tre tizi con gli occhiali da sole che chiudono il giornale e lo seguono con discrezione; se c’è un tassista che lo porta all’hotel, a un certo punto farà una deviazione imprevista verso un terrain vague, un posto desolato dove entreranno in gioco le pistole.
E come in tutti i film di agenti segreti, c’è l’agente dei servizi “cugini” – in questo caso della Cia – che si fa vivo, con tono di un allegro compagno che la sa lunga su come vanno le cose in quel paese. E che ride forte, con aria cameratesca: sono due agenti segreti, sono due macho, sono gli anni ’60 della Guerra fredda, giacche, cravatte e muscoli contro i Cattivi.
E naturalmente le citazioni sono tutte per i primi film di James Bond: l’accappatoio che copre Dujardin a metà coscia, come una minigonna, o la donna che lo accompagna in hotel e poi sparisce misteriosamente. Lo spettatore riconosce i modelli, si appassiona al gioco, dice “questa la so!” e va avanti, euforico.
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Euforico è anche Dujardin/OS 117, che inanella una gaffe dopo l’altra, senza battere ciglio: non conosce il Mossad, i servizi segreti israeliani, fa dell’ironia razzista sui tratti somatici degli ebrei; e naturalmente è maschilista oltre ogni limite consentito, tanto che quando gli viene affiancata una donna, ufficiale dell’esercito israeliano, lui non capisce e dice “Sono felice di avere una segretaria così carina”.
Rio è, naturalmente, negli anni ’60, covo di ex nazisti. Molti film hanno esplorato il tema in profondità: Hazanavicius si limita a darlo per scontato, e a fare irrompere il suo agente segreto nell’ambasciata tedesca a chiedere “Avete una lista con i nomi e gli indirizzi degli ex criminali nazisti? O, che so, avranno un club, un’associazione…?”.
L’avventura si sposta nella foresta, i battibecchi con l’ufficialessa israeliana continuano, Dujardin si mostra sempre più ottuso, maschilista, presuntuoso. Alcune battute non sono leggere, almeno per i francesi. “Beh, se non è una dittatura, come chiamerebbe un paese con un presidente che è un militare con pieni poteri, una polizia segreta, e con l’informazione tutta controllata dallo Stato?”, chiede polemicamente la ragazza. E lui: “Lo chiamo la Francia, la Francia del generale De Gaulle!”. La frecciata, probabilmente, potrebbe fare irritare ancora qualcuno.
Dujardin recita con una disinvoltura affascinante il suo ruolo di ingenuo: confonde ebrei e musulmani e dice alla sua collega israeliana: “beh, non cercare il pelo nell’uovo!”. Continua a trattarla come se fosse una aspirante massaia e non un ufficiale, è convinto che il mondo sia perfetto così com’è, e che non ci sia nessun bisogno di fare la rivoluzione, di cambiarlo. In fondo, è l’immagine perfetta degli anni ’60 prima della contestazione.
Hazanavicius ci dice che tutto è cambiato, da allora, che tutto è più giusto, più democratico, più corretto. Ma che era tanto divertente, quel mondo color confetto, con il mare e l’acqua delle piscine davvero blu, le macchine bombate, i cattivi da barzelletta. E in tutto questo mosaico, segnaliamo la presenza di Rudiger Vogler, attore iconico del cinema di Wim Wenders – da La lettera scarlatta ad Alice nelle città, da Nel corso del tempo a Lisbon Story – che riappare qui, nel ruolo di un criminale nazista, a cui riesce a dare una salvifica dose di leggerezza.
Non manca una scena che cita Il maratoneta di John Schlesinger – e anche lì si trattava di un ex criminale nazista rifugiatosi in America latina – e neppure una citazione del cinema più classico degli anni ’30: in un ballo in maschera, Dujardin sceglie di indossare il costume di Robin Hood, un costume con un design e dei tratti inconfondibili: è il Robin Hood beffardo, ottimista e invincibile interpretato, negli anni ’30, da Errol Flynn,
Dimenticavamo: naturalmente, quando i personaggi guidano, gli sfondi delle strade dietro di loro sono tutti dei “trasparenti” hitchcockiani. E quando le scene si svolgono di notte, è il blu intenso della “nuit américaine”, l’effetto notte raccontato da François Truffaut, a farla da padrone. Insomma, un film per chi ama il cinema, per chi ha giocato e vuole giocare con quello che il cinema ha già raccontato, e si diverte a vederlo disseminato in un film che è un caleidoscopio di citazioni.