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Il remake: una moda opportuna

Analisi di un rapporto stretto ma tormentato tra cinema e letteratura.
di Pino Farinotti

domenica 9 ottobre 2016 - Focus

Verso la fine dell'anno inizieranno le riprese di Assassinio sull'Orient Express, il remake del classico di Sidney Lumet del 1974. Firmerà la regia Kenneth Branagh. A dare corpo e volto a Poirot era allora Albert Finney, nella nuova edizione sarà Johnny Depp. Siamo davvero nell'epoca dei remake, nelle sale in questi giorni ce ne sono due, importanti, pesanti, I magnifici sette e Ben Hur. Quest'ultimo fa lo stesso percorso dell'Orient Express: remake di un classico, tratto da un romanzo. E questo è il focus: il rapporto fra libro e film, stretto ma decisamente tormentato. Stretto perché non c'è romanzo importante, salvo rare eccezioni, che non abbia avuto la sua brava versione cinematografica, tormentato perché le due discipline hanno regole molto diverse. Non c'è dubbio che ad essere privilegiato sia il cinema. Al romanzo appartengono profondità, introspezione, verità, al cinema spettacolo e happy end. Il lieto fine ha spesso stravolto i contenuti dei romanzi. Che la letteratura, arte nobile, prevalga, è attestato da una verità impietosa: non esistono libri tratti da film ma solo film tratti da libri. Salvo banali anomalie. Va detto che il cinema ha tutti i diritti alla licenza, la letteratura avrebbe tutti i diritti alla salvaguardia della propria identità. Va anche detto che alla fine "pesando" la collaborazione, il barometro volge al bello.

Fra libri e film si è instaurato un rapporto di mutuo soccorso che naturalmente ha favorito il cinema.
Pino Farinotti

Come sempre, per ragioni di spazio sono costretto a delle sintesi e così l'attenzione sarà su alcuni "superclassici", modelli esemplari. Parto dall'inventore di tutto, Omero. Il film è Troy, sì, l'Iliade. Licenze clamorose, e non so quanto utili allo spettacolo. Per esempio la morte di Menelao. Viene ucciso da Ettore per difendere il fratello Paride umiliato. E così il re di Sparta non può tornarsene a casa con la moglie Elena, eroticamente placata e perdonata, secondo le intenzioni di Omero. Ma c'è di peggio, anche Agamennone ci lascia le penne, sgozzato da Briseide schiava-amante di Achille. Ed ecco azzerato il ciclo di Agamennone che ha alimentato le successive opere tragiche di Eschilo, e Sofocle. Un altro gigante devastato è Shakespeare. Troppo grande è la tentazione. Il Bardo scriveva per il cinema quattro secoli fa. Tutto incredibilmente perfetto: il ritmo del racconto, gli artifici, il sangue (soprattutto quello blu) gli amori e le guerre. I film ci hanno proposto Amleto in costumi da corte viennese, Riccardo III fra i nazisti, Romeo e Giulietta a Los Angeles e Titus nel palazzo dell'Eur.
Un altro maestro eroe della contaminazione è Ernest Hemingway. Quasi tutti i suoi romanzi sono diventati film e anche molti dei racconti. Lo scrittore di Chicago odiava il cinema, non mise mai il piede sul set di un film tratto da un suo libro. Hemingway era perfetto per essere maltrattato dal cinema, la sua sindrome si chiamava "lieto fine", appunto. Alle storie di Hemingway, l'happy end proprio non si addice. Due esempi: Avere, non avere e Le Nevi del Kilimangiaro: nei racconti i protagonisti muoiono, nei film se ne vanno mano nella mano con l'innamorata. Il cinema procurò un discreto dolore anche a William Faulkner, premio Nobel (come Hemingway). Il protagonista de La lunga estate calda, Ben Quick, arriva nella cittadina del sud, stravolge tutto e tutti e alla fine se ne deve andare, espulso come un brutto corpo estraneo. Invece Paul Newman finisce per sposare la bella figlia del boss Orson Welles.


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