Nel film di Refn la moda è un pretesto per virare sulla bellezza, che mescola Cronenberg, Soderbergh ed elementi di Dario Argento.
di Roy Menarini
Tra cinema e moda i frequenti rapporti sono giustificati non solo dalla condivisione di uno spirito rappresentativo e trasformativo nei confronti della società e dell'individuo, ma anche dalla similitudine delle due industrie creative. Esse - legate anche da una storia di resistenze da parte delle élite culturali rispetto al loro statuto artistico - trovano nell'innovazione culturale e nell'ispirazione sulle identità un ruolo fondamentale, nel Novecento e ancora oggi.
The Neon Demon è un film sulla moda? Difficile dirlo. Certamente è ambientato nel mondo delle modelle e della fotografia di moda di Los Angeles, e dunque - che Nicolas Winding Refn lo voglia o meno - dobbiamo osservare il suo film anche da questo punto di vista.
La moda del resto trova nel cinema, e oggi sempre di più, un repertorio impareggiabile di ispirazione. Basti pensare al mondo di Wes Anderson, cineasta che meglio di tutti sembra declinare in questi anni una relazione densa e produttiva con le fashion house e con la storia della moda e del design. Interessa forse di più a Refn quel rapporto tra icona, corpo e abito, capace di trascinare con sé forme carismatiche di estetica cinematografica. Dal ricorso al modello neorealista per le campagne "siciliane" di Dolce & Gabbana alle collezioni di Jean Paul Gaultier, Valentino e Alexander McQueen ispirate a Il cigno nero di Darren Aronofsky (il film contro cui The Neon Demon sembra ingaggiare una propria lotta personale), fino a quelle di Thom Browne chiaramente influenzate dalla saga di Hunger Games, gli ultimi anni hanno visto moltiplicarsi le occorrenze - e non parliamo ovviamente di tutta la produzione "a margine", più o meno direttamente gestita dalle case cinematografiche: t-shirt, accessori, gadget, abiti per bambini e così via, legata per lo più ai blockbuster.
Purtroppo, Refn - e non è certo il primo a cadere in questo errore - non sembra affatto rispettare il mondo della moda, che al cinema giunge quasi sempre in forma distorta o parodistica (gli esempi di Pret-à-porter, Il diavolo veste Prada e Zoolander, per quanto punteggiati da cameo di stilisti e modelle avidi di un'inquadratura hollywoodiana, parlano chiaro quanto a presa per i fondelli del fenomeno). Quel che è più problematico, è che il regista danese non pare intuire alcun cambiamento nella moda tra un decennio e l'altro. The Neon Demon avrebbe potuto essere ambientato nel 1966 di Blow-Up, negli anni Ottanta di Sotto il vestito niente o negli anni Duemila di Bling Ring (il film alla lunga più lucido e corrosivo sul feticismo contemporaneo), senza che nulla cambi di una virgola. Dunque, pare evidente che la moda - con il suo banale correlato di discorsi sulla chirurgia estetica, sulla magrezza del corpo e così via, in un crescendo di dialoghi a tratti imbarazzanti - sia solamente un pretesto.
Man mano che il film procede, Refn vira verso un film sulla bellezza, che mescola ascendenze cronenberghiane, astrazioni alla Soderbergh (la musica di Cliff Martinez ne è costola immediatamente riconoscibile), elementi vicini a Dario Argento, Brian De Palma e Paul Schrader, quest'ultimo in particolare pensando a Il bacio della pantera.
Premesso che, prevedibilmente, il film viene rifiutato dal pubblico quasi in blocco, a che cosa punta Refn con questa operazione prodotta da capitali misti e con distribuzione a macchia di leopardo? Suicidando metaforicamente il proprio statuto di regista cult spendibile sui grandi mercati, con Solo Dio perdona a The Neon Demon forse Refn mira all'inclusione nel pantheon dei cineasti sospesi tra arte contemporanea e horror d'avanguardia. Alla fine, tuttavia, egli sembra più che altro bussare alle porte di Prada o Dior per farsi finanziare futuri fashion film, che l'industria della moda produce in gran numero, e spesso risultano più riusciti e inquietanti di The Neon Demon.