Intelligenti, colti, ironici, pochi al mondo conoscono tutte le parabole dei film come i Coen. Di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti
Sono decine i film in cui il cinema racconta se stesso e il racconto non è mai felice. Estraggo tre titoli, grandi classici, in questo senso: Viale del tramonto, Il bruto e la bella, I protagonisti. La critica rispetto all'ambiente è abrasiva e impietosa, ma mai assoluta o finale. Anche perché i signori autori è grazie al cinema che sono diventati Wilder, Minnelli e Altman; è dunque bene portarsi al limite del suicidio, puntare l'arma alla tempia, ma averla caricata con una pallottola a salve.
Pochi al mondo conoscono tutte le parabole del cinema come i fratelli Ethan e Joel Coen: i vari rapporti col mercato e con le arti, le nevrosi e i fantasmi dei cineasti e le patologie che fanno parte di un lavoro sempre al limite fra ciò che è reale e ciò che è fantasia.
Il protagonista di Ave, Cesare! è un produttore, Mannix, che deve sempre risolvere situazioni estreme: un regista che vuole disfarsi di un attore cane, una divetta incinta alla quale occorre trovare un marito, e così via. Ma il nodo più complicato sta nella produzione di un film su Gesù. La prima sequenza vede Mannix nel confessionale, stravolto da una colpa orribile: non ha osato dire a sua moglie che ha fumato tre sigarette mentre le aveva giurato che si sarebbe fermato a due quotidiane. Dunque un cattolico radicale che deve gestire nientemeno che dio. E qui i Coen, ebrei, cominciano a divertirsi alla loro maniera, con intelligenza, cultura e ironia. Si assiste a un dibattito fra un rabbino, un cattolico e un paio di protestanti. I religiosi si rivelano primedonne peggio dei cineasti. Con pazienza infinita Mannix scioglie il nodo. Irrompe Baird Whitlock (Clooney), che sta per interpretare un centurione che dovrà vedersela con Gesù.
Da sempre vado affermando che gli Anni Cinquanta, rispetto ai tredici decenni di vita del cinema, rappresentano il punto più alto. Per molte, quasi tutte le ragioni. La prima è una questione di equilibrio fra le due fasi primarie del cinema, l'evasione e l'impegno. Quegli anni trovano il compromesso migliore. Tutto questo sta per emergere dalle citazioni che sto per fare. Parlo di Hollywood, ma si potrebbe estendere. È il decennio della maturità di gente come Hitchcock, Ford, Wilder, Hawks, Kazan e del (pen)ultimo Chaplin (Luci della ribalta).
È la stagione di Marilyn Monroe e della fase eroica dell'Actor's studio, quei talenti che hanno cambiato il cinema: Brando, Dean, Newman, Clift.
La Metro produce colossi in costume come Quo Vadis, Ivanhoe e Ben Hur ed evolve, con grandi budget, il genere musicale fino ad accreditarlo come forma d'arte squisitamente e totalmente americana. Quel "musical" tanto amato dai Coen. Drammi teatrali di autori come Tennessee Williams e Arthur Miller diventano film. E molto, molto altro. È più che naturale che Joel e Ethan Coen attingessero a questa "fonte meravigliosa". Quanto si sono divertiti i fratelli nelle espressioni delle loro antipatie e simpatie, mediate dalle attribuzioni esterne e dal grottesco. E di conseguenza, quanto divertono il popolo del cinema. Quello appassionato certo.