Il regista costruisce il più coraggiosamente anti-narrativo dei suoi lavori sulla famiglia giapponese. Al cinema.
di Emanuele Sacchi
Per un anatomopatologo delle dinamiche familiari come Kore'eda Hirokazu è forse normale che subentri un coinvolgimento personale, un'influenza del proprio vissuto che dia forma alla materia narrativa. Quasi ad accomunarlo ulteriormente a Ozu Yasujiro, gratificando così lo stuolo di critici poco fantasiosi che citano, in ogni occasione, il regista di Viaggio a Tokyo come influenza dominante per il cinquantacinquenne regista di Tokyo.
Ma se la solitudine autoimposta di Ozu gli ha permesso di mantenere il distacco e il rigore di uno sguardo esterno rispetto allo studio delle relazioni familiari, la recente paternità di Kore'eda lo ha spinto a concentrare la propria osservazione su genitori e figli, adottando di volta in volta il punto di vista degli uni e degli altri.
Ryota, personaggio che in apparenza sembra sussumere ogni stereotipo del loser - scrittore fallito, giocatore d'azzardo, detective da strapazzo perennemente indebitato - rappresenta invece un animo duplice, di un non-uomo e di un non-più-bambino: l'ideale per alternare i punti di osservazione all'interno del medesimo personaggio. Il dialogo e il confronto tra padre e figlio si svolge soprattutto interiormente per il protagonista, incompiuto e fallato in ambedue i ruoli: come padre non può rappresentare un esempio, come figlio fatica ad accettare la somiglianza con il proprio genitore. Kore'eda modella così anche il nostro punto di vista, ora tendente alla compassione e alla simpatia verso il più debole degli uomini, ora alla rabbia verso un dissoluto e triste figuro, intento a rovistare tra gli oggetti paterni in cerca di qualcosa di monetizzabile.
L'apparente quiete che caratterizza gli ultimi film del regista giapponese cela sconquassi dell'animo, almeno quanto gli agenti atmosferici trasformano una giornata assolata nella furia degli elementi. Un tifone niente affatto imprevedibile, quello al centro di Ritratto di famiglia con tempesta, che infatti Ryota sfrutta per l'estremo, e forse vano, tentativo di riacciuffare il passato. Si è scritto e discusso della relazione con il tempo di Ryota, esplicitata dalla sentenza della madre sull'incapacità degli uomini di vivere il presente, smarriti tra le aspirazioni di un futuro migliore e il rimpianto per un passato impossibile da correggere. Ma è altrettanto efficace e significativo il lavoro che Kore'eda compie sullo spazio in Ritratto di famiglia con tempesta, costringendo in un claustrofobico appartamento i quattro personaggi principali della storia.
Laddove Still Walking (2008), primo dramma familiare e probabile apice della produzione dell'autore, immortalava nella delizia di una dimora fuoriporta lo scontro generazionale in seno alla famiglia giapponese, qui Koreeda annega in anguste stanze suburbane le angosce di Ryota, che ha trasformato le inquietudini di allora (Hiroshi Abe e Kiki Kirin interpretavano nuovamente figlio e madre, con più di un punto di contatto tra i personaggi dei due film) nella delusione dell'oggi.
Senza servirsi più di espedienti narrativi evidenti, come lo scambio di figli di Father and Son o la scoperta di una sorellastra in Little Sister, Kore'eda costruisce così il più coraggiosamente anti-narrativo dei suoi lavori sulla famiglia giapponese. Ryota infatti delude se stesso almeno quanto lo spettatore, illudendolo per lunghi tratti di assistere a un classico percorso di redenzione, in vista di un climax che non ci sarà mai. Se il pallido sole del "giorno dopo" può apparire come una nota di speranza su un futuro da (ri)costruire, infatti, è difficile stabilire quanto questa non sconfini nel regno della amara rassegnazione di un sognatore definitivamente sconfitto.