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The Conspirator: il processo agli assassini di Lincoln

Redford ultragarantista riaggiorna l'ultima frontiera della giustizia. Di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti

Robin Wright (Robin Virginia Gayle Wright) (58 anni) 8 aprile 1966, Dallas (Texas - USA) - Ariete. Interpreta Mary Surratt nel film di Robert Redford The Conspirator.

lunedì 27 giugno 2011 - Focus

Robert Redford, autore attentissimo all'America, liberal ultraconvinto, intelligenza con l'attitudine della tesi, cerca di fare un altro passo, cerca un'ulteriore evoluzione nel concetto di frontiera. Frontiera della giustizia. Un processo celebrato nel 1865 può essere un'istantanea dell'America di allora e di adesso. Cose buone e cattive del carattere di una nazione.

Il 14 aprile del 1865, il presidente Abraham Lincoln viene ucciso in un teatro di Washington. L'assassino è John Wilkes Booth, attore, che saltando sul palcoscenico, fuggendo, urla "sic sempre tyrannis" (così sempre ai tiranni). La tradizione vuole che fosse lo stesso grido di Bruto mentre pugnalava Cesare. Booth viene ucciso poco dopo, in un fienile, i suoi complici vengono catturati. Si organizza il processo, militare. Frederick Aiken, giovane capitano dell'esercito dell'Unione, eroe di guerra, avvocato in tempo di pace, viene incaricato, suo malgrado, della difesa degli assassini. Lincoln non era solo un presidente, o un uomo, era una fede, un miracolo sentimentale. Sentimento che appartiene anche all'avvocato. Naturalmente esercito e popolo, la parte vincitrice soprattutto, sono sconvolti, tutti vogliono che i colpevoli paghino. Tutti vogliono vendetta. L'accusa si concentra su Mary Surrat, proprietaria di una pensione che ospitava riunioni pericolose. I cospiratori la frequentavano. Tutta gente di origine e idee sudiste. L'unico sfuggito all'arresto è stato John, figlio di Mary. Aiken è convinto della colpevolezza della donna, anche se cerca di concedersi un margine. E pronuncia due parole con una chiara enfasi, e più che il difensore è l'attore McAvory a pronunciarle: ragionevole dubbio. Perché la formula non è solo giuridica ma anche cinematografica.

Digressione
Digressione. L'eroe di questa formula è, sappiamo, Sidney Lumet, che nel suo primo film, La parola ai giurati (1957) aveva firmato semplicemente il più grande titolo processuale della storia del cinema: il giurato Henry Fonda convince uno a uno gli altri undici che un ragazzo non è colpevole se non c'è sicurezza totale. Dichiara il principio del ragionevole dubbio, pronunciamento garantista assoluto. Nelle epoche i codici di giustizia espressi dai film avanzavano rispetto all'evoluzione del sociale. Col suo Conspirator, Redford posa la sua pietra alla fine del percorso. Siamo nel giugno del 2011. Ce ne saranno altre.

Sentimento
L'ufficiale-difensore, certo forzando il proprio sentimento, fa suo quel principio e cerca di salvare la donna almeno dal capestro, rilevando l'illegittimità di un tribunale e di una giuria composti solo da militari. Aiken lotta con tutte le forze, nessuno lo sostiene, anzi tutti lo abbandonano, nel pubblico e nel privato. Alla fine, la rabbia militare, la voglia di vendetta della nazione, prevalgono. Mary Surrat viene impiccata con tutti gli altri. I titoli di coda informano che quello fu l'ultimo processo con imputati civili, celebrato militarmente. Conquista importante del diritto americano. E ci informano che Frederick Aiken, tornato alla vita civile, divenne il primo redattore di cronache giudiziarie della Washington Post, il quotidiano appena fondato e che sarebbe diventato un vero manifesto americano liberal e garantista.

Regista-difensore
Dunque Redford, regista-difensore, rileva l'ennesimo grado di garantisno giudiziario. Le domande, le obiezioni (mai accettate dai generali del tribunale), le arringhe, danno spesso la sensazione del già visto e sentito. Ma l'indicazione, i protagonisti e i modelli, cercano di avanzare sul percorso delle conquiste, di essere estremi, ideali a oltranza. Un eroe di guerra americano difende gli assassini del suo presidente. Li difende più col cervello che col cuore, e questo è l'assunto. Il garantismo estremo. Quando l'accusatore dice "in tempo di guerra la giustizia è diversa", il difensore risponde "ma non dovrebbe essere così". E ancora l'avvocato dichiara: "Io ho combattuto e sono stato ferito, molti, moltissimi sono morti per i principi di giustizia che proprio questo tribunale sta calpestando."

Eroe
Redford rappresenta l'eroe con quel punto in più, irresistibile, di fascino, che è la causa persa. Il colpevole punito è legittimo, il forse colpevole tutelato, è un principio. Ed è civiltà. L'America, dice il regista, è certo un paese civile, ma potrebbe essere più civile. La tesi è quella solita di molti autori americani importanti, come Stone, o Eastwood, la tesi del Paese imperfetto. E così arriva il cinema a soccorrere. Se la perfezione non può far parte della vita, e della giustizia, diamo quella chance alla fiction, che tutto può permettersi, proporre e sognare. E ogni volta che uno come Robert Redford fa un film, è doveroso andarlo a vedere. L'autore si è guadagnato tutto il credito.

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