MILLION DOLLAR BABY
Non un film a tesi, che si proponga di portare sotto i riflettori il problema dell’eutanasia, ma una carrellata sulla bellezza della vita e la sua precarietà; parimenti, non tanto una storia sul mondo della boxe, quanto, più propriamente, una rappresentazione dell’impulso irrefrenabile alla realizzazione di sé, dell’entusiasmo e dell’esaltazione dionisiaca che si trasformano in tragedia: questa è la sostanza di cui ci sembra permeato Million Dollar Baby. È il contrasto fra la gioia di vivere e il suo annientamento a risaltare.
Se in un film come Mare adentro non sappiamo pressoché nulla del protagonista prima dell’istante in cui un incidente lo ha reso tetraplegico, e la sua richiesta di morire è motivata da lunghi anni di una vita inerte in cui si è spenta ogni volontà di andare avanti, nel film di Eastwood a questo bisogno viene lasciato uno spazio molto più limitato, ma – proprio per questo – molto forte, dirompente. Questo appuntamento arriva, infatti, dopo la straordinaria parabola ascendente della protagonista, quando si poteva pensare che ormai lei ce l’avesse fatta e quel fulmine a ciel sereno cade a dimostrare che il destino non si lascia ingannare.
Devi proteggerti sempre, dirà Frank Dunn (Clint Eastwood) alla sua pupilla e può essere che intenda metterla in guardia proprio contro la crudeltà della sorte. Forse, chi ha pensato la storia di Million Dollar Baby ha voluto riscrivere il mito del Faust: chi si barrica dietro una vita senza gioia, lo fa contando di avere, come contropartita, l’assenza di grandi dolori, non potendo cadere da un piedistallo molto alto. Chi, invece, non ce la fa ad esistere nell’ombra della schiavitù morale della paura e deve lottare, sa di dover morire per questo.
Quando una ragazza, vagamente androgina, dallo sguardo determinato ma dolce, entra nella palestra di Frank Dunn a Los Angeles e non se ne andrà di lì finché non sarà riuscita nel suo intento – essere allenata da lui o da nessun altro – si accende una lotta fra titani. La trentunenne Maggie Fitzgerald (Hilary Swank) vuole essere messa in condizione di diventare una campionessa di boxe, perché quello è l’unico modo che lei sente di avere per misurare il proprio valore, diventare padrona della propria vita, abbandonando il suo lavoro di cameriera, e uscire dal ghetto di miseria della sua famiglia.
Frank Dunn non porterà mai più nessuno sul ring dopo che Scrap Iron Dupris (Morgan Freeman), che ora lavora con lui nella sua palestra di pugilato, ha perduto un occhio durante un incontro e lui si sente responsabile dell’accaduto, probabilmente perché non ha avuto la forza di gettare la spugna. Egli ha, inoltre, una figlia, che non si vede mai nel film e di cui non si sa nulla, se non che respinge al mittente le lettere che suo padre le scrive ripetutamente: alla base di questo rifiuto, di cui non si danno spiegazioni, immaginiamo esserci un rancore sordo nei confronti di un genitore che la ragazza non ha quasi conosciuto per via dei suoi impegni nel mondo della boxe.
Sarà Maggie a vincere e sarà Frank a doverla allontanare dalla vita, per poi fuggire, a sua volta e definitivamente, dal mondo del pugilato, cioè anch’egli dalla sua vita: quasi una doppia forma di eutanasia, da lui forse avvertita come un omicidio/suicidio.
Abbiamo trovato tutti e tre i protagonisti egregiamente dentro le loro parti. Morgan Freeman sa conferire al suo personaggio quella nostalgia crepuscolare che bene si addice ad un pugile che desidera ancora di poter fare un altro incontro. Clint Eastwood ha la maschera giusta che nasconde dietro una calma esteriore il rovello che lacera l’anima di Frank Dunn. Hilary Swank sa essere struggente in ogni istante del film, sia quando non riesce a celare il suo entusiasmo infantile nei momenti della vittoria, sia quando le viene strappata la vita.
Infine, la regia di Eastwood è semplicemente magistrale: riesce a rendere viva ogni inquadratura e a farne risaltare gli aspetti salienti. Nei momenti topici spettacolari sa ottenere un clima di euforia e di drammatica attesa di cui non si sarebbero forse accreditati gl’incontri di boxe femminile: quando, poi, abbiamo visto salire sul ring la campionessa in carica - sfidata da Maggie nell’incontro fatale - racchiusa in un accappatoio, un cappuccio che le incorniciava la testa da cui balenavano due luci cariche di violenza, un brivido ci ha attraversato la schiena e abbiamo pensato a Mike Tyson. Ma il regista sa anche attraversare con grande coerenza e magistero tecnico il guado finale, che porta il film, veramente in un soffio, ai suoi momenti più intimi e dolorosi: ancora una prova che lo qualifica regista classico dalle capacità straordinarie.
Enzo Vignoli,
12 aprile 2005.
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