AGATA E LA TEMPESTA
La tempesta del titolo non ha nulla a che vedere con sconvolgimenti meteorologici, non poco, invece, con quelli del cuore, che vanno infine a determinare una rilevante e misteriosa perturbazione magnetica per cui la protagonista, Agata, una sempre brava Licia Maglietta, fa fulminare al suo passaggio lampadine, fa impazzire i semafori, spegne i lampioni che illuminano le strade e, certo, fa anche innamorare di sé avidi lettori di libri, che tali diventano andando ad acquistarli nella libreria in cui lei lavora. Agata ha un fratello, Gustavo (Emilio Solfrizzi), che non è un fratello e ne acquisisce un altro, Romeo (Giuseppe Battiston), che, in realtà, è fratellastro del primo. Anche il suo innamorato, alla fine, non lo è più, ma lei ne trova uno nuovo, che è il perfetto sosia del precedente (Claudio Santamaria). Poi ha una compagna di lavoro ossuta e nasuta, Maria Libera (la brava caratterista Giselda Volodi), che è il suo esatto opposto fisico e sembra una macchietta estratta da Il giornalino di Gian Burrasca; ancora una cognata, anch’essa non tale, Ines Silvestri, che fa la psicologa e dà dei consigli alla TV su come far funzionare l’amore, vestita da fattucchiera (Marina Massironi). Romeo porta in giro con la sua ampia automobile un vasto campionario di vestiti maschili e femminili e indossa abiti vistosi, con camicie a righe verticali molto larghe e coloratissime, dalla foggia pittoresca. È sposato con Daria (Monica Nappo), una donna priva dell’uso delle gambe per via di un incidente causato da lui. Romeo l’ama veramente, ma la tradisce di continuo, non per via della sua menomazione, ma perché ne ha bisogno e non riesce a sentirsi in colpa. Il fratello non fratello di Agata, Gustavo, scopre – troppo tardi - di avere un’altra madre e – forse appena in tempo – un altro padre e si ritrova una donna nordica che sembra parlare con inflessioni spagnole. Fa l’architetto e ha una vecchia segretaria, tale geometra Tirabassi (Carla Astolfi) che fa il paio – a parte l’età – con la collega di Agata. Ha anche un figlio con problemi psicologici e difficoltà di inserimento nella scuola. Dimentichiamo qualcuno? Ah sì, una gallina che, riavutasi dallo shock della morte della madre vera di Gustavo, riprende a fare le uova.
Mescoliamo tutti insieme questi personaggi e i loro sogni -quello che ritorna più di frequente e ha una maggiore incidenza nell’evoluzione della trama è un vivaio di trote con balera (di Romeo), alla quale possiamo annettere una libreria (di Agata) e altri spazi a formare una cittadella, ovviamente disegnata da Gustavo - con questi ingredienti, il tutto ambientato in un mondo di fantasia, ma connotato geograficamente ora ad Anita, presso le valli di Comacchio, ora a Genova e forse anche a Ravenna. Ne esce fuori una sorta di pastiche o meglio, una riproduzione fantastica di un sogno suggestivo e amabile, con personaggi che calcano le parole con bizzarri e saporosi accenti dialettali bolognesi e romagnoli. La tempesta di Agata investe tutti i personaggi e rende più elettrico quel mondo un po’naif, un quadro strapaesano che profuma di sagra campestre e che forse si rifà ad un lontanissimo e sbiadito ricordo – magari solo un vago fantasma presente a chi scrive – dell’atmosfera che anima i libri di Fabio Tombari.
Silvio Soldini, abbandonata la vena malinconica e socio-esistenziale dei suoi primi film (Giulia in Ottobre del 1985 – L’Aria serena dell’Ovest del 1990 – Un’anima divisa in due del 1993 – Le acrobate del 1997) o quella più cupa e livida dell’ultimoBrucio nel vento (2002), ritorna qui alle atmosfere più distese e sognanti che già aveva dipinto in Pane e tulipani (2000), il film che l’ha definitivamente consegnato ad un meritato successo di pubblico. Ci sembra però che in Agata e la tempesta la sua tavolozza cromatica ecceda in tinte sgargianti e il piano prospettico si vada ad ampliare a dismisura. Forse troppa carne è stata messa al fuoco e il delicato quadro surreale di Pane e tulipani finisce per trascolorare in un rappresentazione non di rado marcatamente grottesca, talora macchiettistica. La storia fila comunque piuttosto bene e la mano del regista rimane sempre felice.
Enzo Vignoli,
5 marzo 2004.
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