L'artista napoletano ha ricevuto la laurea honoris causa post mortem. Ma per quanto ha fatto, a lui si deve non un mare, ma un oceano.
di Pino Farinotti
Quello che è successo lo sappiamo. Una volta morto, Totò è diventato un altro. Sociologi, specialisti, scrittori, analisti, critici ci hanno spiegato che Totò... non era Totò. Certo hanno aspettato che morisse, perché altrimenti si sarebbe arrabbiato.
Tutto può essere analizzato. Puoi studiare Marx e Joyce, persino De Filippi e D'Urso. Eco studiò Mike Bongiorno. Ma Totò va visto e rivisto.
Fa sorridere, ridere e fa stare meglio. E che tutto si fermi lì. Ho voluto estremizzare il concetto, nel quale comunque credo. Una volta che l'attore, uomo marionetta, mimo snodato, canzonettista, battutista a braccio, è stato rubricato verso l'alto, verso la cultura e il sociale, protagonista e vittima di una revisione che avrebbe dovuto essere nobile ma era solo superflua, allora, gli stessi "analisti" detti sopra hanno ri-corretto la revisione, cercando di riportare il genio napoletano nella sua dimensione, quella popolare, sentimentale e semplice. Potenza della semplicità. Quella utile nel quotidiano, quel deterrente rispetto ai colleghi comici contemporanei, tristi, complicati e volgari che fanno sorridere per cinque secondi, quando ci riescono, poi tutto si dimentica.
Cerco di interpretare Totò alla notizia dell'attribuzione della Laurea Honoris causa in "Discipline della musica e dello spettacolo". "Ci ho messo un secolo a prendere la laurea, lo studente più fuoricorso del mondo". Quella che segue non è un'analisi, solo un descrizione. Gli strumenti basici erano quella mimica disarticolata che partiva dalla mascella e da quegli occhi tondi che roteavano in tutti i punti cardinali. E poi tutto il resto del corpo, disarticolato. Su questa base poi ci mise tutto il resto: un paio di pantaloni troppo larghi, una giacca troppo lunga e una bombetta. Un'estetica perfetta a rappresentare l'omino senza un soldo, sempre impegnato a sbarcare in qualche modo il lunario, nelle infinite modalità di cui era capace. Ricorrendo, quando proprio era necessario, a qualche imbroglio, ma piccolo. Rimanendo comunque convinto della propria onestà.
È stato sempre sul filo di una comicità dettata dal sentimento, con qualche licenza patetica.
Rileggendo queste ultime righe mi rendo conto che possono essere attribuite, quasi senza nulla toccare, anche a un Chaplin e a un Keaton. È solo il codice universale, un talento trasversale: ciascuno di loro manteneva la propria identità. Nessuno avrebbe mai studiato l'altro. Ne La banda degli onesti Totò diventa un falsario. Stampa, con De Filippo, dei biglietti da diecimila. Si tratta di fare una prova, comprare qualcosa e farsi dare il resto. Totò fa l'acquisto ma... con un "diecimila" buono. Ne Il coraggio, il commendator Gino Cervi salva Totò dal suicidio nel Tevere. Da quel momento Totò gli invade la casa con tutta la sua famiglia, numerosa. Salvandolo, il ricco signore si è assunto la responsabilità del mantenimento di tutti. Cervi è frastornato, cerca di uscire da quella situazione, ma alla fine Totò lo ripagherà, a modo suo. Dunque, solidarietà come un diritto, come un trucco contro le differenze e i privilegi. Che poi ci sono e ci saranno sempre, e vanno contrastate con qualche "imbroglio ma piccolo", ma senza perdere la dignità. E poi, Napoli. Città con quel vulcano a incombere, e non sai mai se da un momento all'altro si sveglia e spazza via tutto. Ecco dunque un'inquietudine, un'insicurezza endemiche che sono cifre sempre presenti nella cultura, nel sentimento, e nell'azione dei grandi artisti napoletani, dai De Filippo a Marotta, al napoletano di adozione De Sica, a Troisi a Pino Daniele. Oltre ad altri, e sono molti.