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Cinema romano, cinema del nord: falso problema

Una nuova sede per il Centro Sperimentale di Cinematografia. Una nuova polemica.
di Pino Farinotti

Quando eravamo i più bravi del mondo

lunedì 20 luglio 2009 - Focus

Quando eravamo i più bravi del mondo
Qualche giorno fa alle Manifatture Tabacchi si è inaugurata (oltre al resto) la nuova sede della Scuola Nazionale del cinema – Centro Sperimentale di Cinematografia, dipartimento di Milano. Umberto Bossi ha criticato l'attitudine consolidata del "cinema romanesco" auspicando una controtendenza che privilegi, naturalmente, il nord. Le testate più importanti hanno ripreso l'argomento indirizzandolo verso una...garbata polemica. È emerso il lungo contrasto fra Roma e Milano. Contrasto impari a dire il vero, perché Roma, se mai c'è stato gioco, ha davvero giocato come il gatto col topo.

Cinema italiano
Conosco il "Centro Sperimentale", faccio parte del comitato scientifico della Scuola generale e insegno Letteratura, Estetica e Modelli del cinema nel Dipartimento milanese. Il "Centro", nato nel 1935, è la più antica Scuola del mondo e certo una delle più importanti. "Centro" significa davvero Cinema Italiano. A partire dall'inizio, quando il movimento veniva gestito dal regime, dal Duce stesso attraverso suo figlio Vittorio e i premi andavano a titoli di regime, appunto. Il Centro si integrò e rappresentò quel magnifico momento del dopoguerra che fu il realismo, e poi la Commedia, poi i generi da noi reinventati, il western e il poliziesco. Ospitò i grandi maestri, artisti generali come Visconti, De Sica, Rossellini, Antonioni e Fellini. Certo, da molte stagioni il Centro, rispetto al nostro cinema è diventato un'eco, sempre più lontana. Non è colpa del Centro, ma del cinema italiano che non riesce più a farsi sentire. E proprio in questi giorni, sto sviluppando, in questa sede, la tesi del "quando eravamo i più bravi del mondo".
E non è davvero casuale che la Scuola sia ubicata praticamente di fronte a Cinecittà.
Destini paralleli e segnali paralleli, appunto. Se entri in Cinecittà, un po' defilata, puoi ancora vedere la carcassa del Rex di Amarcord. Altro tempo e altro cinema. E premi, a cominciare dagli Oscar, che piovevano.
Dialetti
Bossi e la Lega naturalmente hanno evocato i dialetti. E la critica ha risposto. Ci sono state tutte le dovute citazioni, da Totò e Peppino in piazza del Duomo, al vigile Sordi in Piazza della Scala ( "cosa fa chi a Milàn con 'stu cald?") ancora il romano Sordi con la milanesissima Franca Valeri nel Vedovo, e poi Moretti, e lo "spurio terrunciello" Abatantuono, De Sica Vittorio autista milanese ne Gli uomini che mascalzoni, e ancora De Sica Christian dall'accento pesantemente (fin troppo) milanese in Sapore di mare. E ancora Aldo Giovanni e Giacomo.

Iperbole Bossi
Sulle esternazioni "bossiane" valgono alcune considerazioni. Il leader della Lega si muove su due percorsi di comunicazione. Il primo è quello dell'iperbole, dello choc, persino della violenza, in sostanza della propaganda. In questo quadro si inseriscono le grandi provocazioni conosciute: le pallottole, la rivoluzione, il "celodurismo", Roma ladrona. Sono "strilli" per catalizzare il primo strato di attenzione, vanno a toccare la "pancia" di quella parte di utenza (di elettori), che bada soprattutto alla "pancia". Poi c'è il percorso sottile, ci sono le strategie sotterranee, insomma c'è la politica e c'è il concreto. E lì Bossi ha dimostrato intelligenza ed efficacia. Bastano i numeri. Il proclama sul nuovo cinema del nord è uno strillo. Bossi sa benissimo che ci sono situazioni radicate che la nuova sede delle Manifatture Tabacchi non basterà a rimuovere. Sa bene che i dialetti ci sono e ci saranno e che il romanesco continuerà a prevalere. E forse è giusto che sia così. Perché i dialetti, nei film, fanno il proprio dovere. Non intendo, in questa sede, scrivere un saggio, neppure brevissimo. Cito il napoletano coi nomi detti sopra, il toscano dei Benigni e Pieraccioni e il milanese di Pozzetto che fece prevalere quella cultura comica per decenni. Nella gestione dei dialetti il cinema se l'è cavata bene.
Franchigia
Il dialetto, si sa, possiede una franchigia importante, quella di moltiplicare l'intensità di una battuta comica. Una battuta da 5 in italiano, diventa da 9 in napoletano. Il cinema si è inoltre inventato creatività anomale, ma funzionali. Due citazioni esemplari: nella riedizione recente del capolavoro dei Marx, La guerra lampo dei fratelli Marx, la distribuzione fece parlare Harpo in sardo. Nel 1957 arrivò da noi il western della Metro Many River to Cross, titolo che c'entrava davvero poco con la traduzione italiana: Un napoletano nel Far West. Era la storia di una famiglia irlandese trasferita nell'Ovest. La distribuzione italiana non solo cambiò titolo, ma giocando sul magnifico talento dei doppiatori della CDC (cooperativa dei doppiatori cinematografici) cambiò la storia. Gli irlandesi divennero napoletani e il loro villaggio si chiamò San Gennaro city. E così sentivi un indiano minacciare Robert Taylor: "statte accuorte". Pure accettando tutti i trucchi possibili, è vero che il dialetto si addice con naturalezza al cinema. Il problema sta nella qualità dei film, non nella differenza fra Roma e Milano.

Contaminazione
In chiave-dialetto è molto peggiore la contaminazione televisiva, con inserti "romani", questi sì, forzati e innaturali. Che qualcuno ritiene invece naturali e dovuti. Anche in questo senso, citazione esemplare: il programma Forum, condotto da Rita dalla Chiesa. Uno dei personaggi cosiddetti fissi è il rosso Franco Bracconieri, dal romanesco davvero estremo, ultraperiferico per di più, senza alcuna eleganza.

Eroi
Nel cartello dei titoli ricorsi nella (garbata) polemica dei dialetti, del nord, del centro e del sud, è stato trascurato quello più importante e felice. Ne La grande guerra, Sordi è romano e Gassman milanese. Si rinfacciano tanti luoghi comuni, in grande stile: "milanese in fanteria, romano in fureria" dice Gassman all'altro. Quando si tratta di offrirsi volontari per un'azione pericolosa Sordi dice al commilitone "vacci tu, che sei milanese". Per tutto il film i due si rimbalzano romanità (autentica quella di Alberto) e milanesità (mutuata quella del ligure Vittorio). E alla fine Gassman, prigioniero con Sordi, quando il comandante austriaco dice a un subordinato che l'unico fegato conosciuto dagli italiani è quello alla veneziana, guarda in faccia l'ufficiale e dice "visto che parli così mi a tì te disi propi un bel nient, hai capito? Faccia de merda." Non sarà il milanese del purista Mazzarella, ma per il cinema va benissimo. E c'è anche la bella metafora finale che lega le due città: il milanese Gassman e il romano Sordi, fucilati, a terra l'uno vicino all'altro, eroi compagni e cialtroni, dunque ancora più veri, comprensibili a tutti.

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