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Come dio comanda: gli attori assolvono

Gabriele Salvatores rilegge Niccolò Ammaniti e dispone degli attori Filippo Timi ed Elio Germano.
di Marzia Gandolfi

Come autore comanda
Alvaro Caleca . Interpreta Cristiano Zena nel film di Gabriele Salvatores Come dio comanda.

giovedì 11 dicembre 2008 - Approfondimenti

Come autore comanda
Rileggendo Ammaniti (Io non ho paura e Come dio comanda), Gabriele Salvatores lavora abilmente sui confini del thriller, sull'impasto tra realismo e mito, sulla sensibilità truffautiana – spielberghiana (la macchina da presa a livello di bambino ieri e di adolescente oggi) e sugli echi della commedia monicelliana (la banda disorganizzata alla "soliti ignoti", quella di Diego Abatantuono in Io non ho paura e quella di Filippo Timi in Come dio comanda). Soprattutto ottiene risultati sorprendenti dall'interazione tra attori professionisti (gli adulti) e quella specie indisciplinata di non attori che sono bambini e adolescenti. Il regista li contrappone come un tempo faceva coi caratteri dei suoi attori "in fuga" per Marrakech o per Turnè: da una parte i corpi ruvidi e ingombranti di Abatantuono, Conti e Orlando, che dissimulavano una loro remota grazia e dall'altra quelli affilati ed esplicitamente nervosi di Cederna, Alberti, Bentivoglio e Rubini, in cui la grazia aveva la forma della scossa continua. Per l'adattamento di "Come dio comanda", Salvatores dispone questa volta di Filippo Timi ed Elio Germano, a cui lascia la libertà di esprimere il proprio potenziale umano, fisico e spirituale, consentendogli di lavorare parzialmente sulla parola e calandoli in personaggi apertamente afasici. Rino Zena e Quattroformaggi sono precari, vagabondi, perdenti, puro istinto. Sono la regressione dell'uomo nella pancia cruda e grandiosa del primordiale: il buco nella terra e il buio nel bosco. L'autore milanese costruisce una nuova favola nera con una sensibilità registica stupefacente che si esplica in movimenti di macchina di euclidea economicità e con la consapevolezza di guardare a creature (gli attori) divorate dal fuoco di una passione e di una memoria affettiva formata da tutti i personaggi a cui quei corpi hanno dato vita.

Il baro e il lupo (cattivo)
Elio Germano ha suscitato una irresistibile attrazione negli autori che compongono la sua filmografia, ansiosi di sperimentare il suo specchiarsi: il suo essere un'anima sola in due immagini distinte. Impazienti ancora di accompagnare la sua trasformazione psicologico-morale e di fargli fare il salto per passare dalla fedeltà a una causa alla dimensione del tradimento: da figlio disadattato a patricida negli eroi senza qualità di Paolo Franchi, da speaker radiofonico di una celebre radio nazionale a rounder travolto dai debiti e dal successo, da giovane venditore promettente di depuratori dell'acqua a schizoide perdente sorpreso a rubare nella vita davanti del livornese Virzì. Ma saranno Daniele Vicari e Gabriele Salvatores gli dei che gli comanderanno di spingersi fino all'abiezione. Nella terra passata e straniera di Vicari è uno studente di legge esemplare e il fidanzato annoiato di Giulia, che lascia per seguire Francesco, baro professionista che gioca pesante con le donne e le carte. Il passato è raccontato e trasfigurato attraverso i suoi occhi, buchi neri che innescano la memoria in una ricerca affannosa degli eventi accaduti e della propria (vera) identità. Il personaggio di Germano non ha raggiunto ancora piena coscienza di sé ma quando si proietta nello spazio del male con l'esecrabile stupro di Barcellona può veramente dire di conoscersi. Il nemico baro gli ha rivelato come in uno specchio chi è l'altro sé, l'altro uomo con cui ha sempre convissuto. Giorgio ha (intra)visto Quattro Formaggi, un disgraziato offeso da Dio e da un incidente con i fili dell'alta tensione, ossessionato dal presepio e da una biondissima pornodiva. Amico esclusivo di un padre e un figlio legati da un amore viscerale, Quattro Formaggi verrà colpito dal lampo di un temporale che scatenerà un evento al di sopra delle sue possibilità, qualcosa di inatteso che ha il carattere del destino. Nella favola nera di Salvatores il lupo, l'agnello e la ragazzina col cappuccio rosso frequentano la stessa notte, in cui si consuma il brutale richiamo della carne. Elio Germano nel bosco archetipico di Ammaniti si bagna di acqua e fango, perdendo l'anima e la coscienza. Dovrà "giustiziarsi" e passare ad altra vita, ad altro film e ad altra trama per contemplare l'insorgere di sentimenti gentili e scorgere di nuovo con chiarezza il suo sembiante pacificato.

In nome del padre
Il corpo grave e doloroso di Filippo Timi è puro cristallo all'interno di un cinema italiano sempre più abitato dalla parola. Filippo Timi fa, avanza, occupa e abita la terra di nessuno del personaggio. Onore a Salvatores che lo ha voluto protagonista di Come dio comanda e che gli ha fornito l'occasione per raggiungere l'altezza del temperamento, il punto di non ritorno in cui l'attore non è più semplicemente un attore ma l'artista di cui il (nostro) cinema ha bisogno. Filippo Timi è Rino Zena, padre di un adolescente che "non ha paura", di cui incalza i punti deboli e scava le certezze fino a perderne le fondamenta. Zena non può dormire e ritorna ogni notte alle tre alla sua allucinazione, alla sua sofferenza di stare al mondo, alla sua ansia di perdere il figlio Cristiano. Dopo il lungo purgatorio delle piccole parti, l'attore umbro entra, con Bellocchio e Salvatores, nel giro delle grandi produzioni e dell'autorialità autorevole. Padre dittatore per Bellocchio e papà fascista per Salvatores, l'immagine di Filippo Timi nasce da un gioco ininterrotto di risposte e interrogazioni che partono dal corpo e dal corpo ritornano. Timi si abbandona al gioco di usare e gettare la maschera, lasciando fuoriuscire umori trattenuti e sconosciuti, esplosi nel bosco bagnato dopo averli a lungo repressi. È un uomo e un padre che ha difficoltà a integrarsi nel corpo della società, che trova consolazione nell'amicizia, nell'incazzatura e nel piacere del vagabondaggio. Timi è una zona da esplorare, una risorsa da spendere di volta in volta, non forma di vanto ma fisicità concretamente fruibile e luogo di un avventura chiamata cinema.

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